Vajont: una catastrofe innaturale
Sono passati sessant'anni da una delle peggiori “catastrofi innaturali” della storia del nostro paese. Il 9 ottobre 1963 un pezzo del Monte Toc – 270 milioni di metri cubi di rocce e terra – franò nell'invaso di un lago artificiale, provocando un'onda che superò la diga a doppio arco più alta del mondo. L'acqua travolse i borghi intorno al lago e superò la diga (un capolavoro d'ingegneria, che rimane tuttora in piedi), piombando sulla valle del Piave. Morirono quasi 1910 persone, tra cui 487 giovani di meno di 15 anni, soprattutto a Longarone.
Come spesso accade in Italia, i tribunali non fecero giustizia. Il processo venne dirottato a centinaia di chilometri, al Tribunale dell'Aquila. Le responsabilità pubbliche e private vennero occultate o minimizzate: nel 1971 in Cassazione, solo Alberico Biadene, ingegnere della SADE (l'azienda che stava costruendo la diga) e Francesco Sensidoni, membro della Commissione di collaudo della diga e ispettore generale del Genio Civile, vennero condannati, il primo a cinque anni, il secondo a tre anni e otto mesi, di cui tre anni condonati. Tutti gli altri imputati vennero assolti, per non avere commesso il fatto o per insufficienza di prove.
Qualcuno aveva provato a raccontare quello che stava accadendo: le frane, i crolli, la paura e le proteste degli abitanti della valle. Nel 1960 Tina Merlin, coraggiosa giornalista dell'“Unità”, venne trascinata in tribunale per aver turbato l'ordine pubblico (e alla fine fu assolta). La “Cassandra del Vajont”, come la definivano con spregio, aveva previsto la catastrofe, aveva cercato di lanciare l'allarme. Riuscì a pubblicare il suo libro, Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont (La Pietra, 1983), solo vent'anni dopo. Ma a quel punto era calata una cappa di silenzio su quella terribile vicenda, subito derubricata a “disastro naturale”.
Sulla pelle viva iniziava così: “Resterà un monumento a vergogna perenne della scienza e della politica. Un connubio che legava strettissimamente, vent’anni fa, quasi tutti gli accademici illustri al potere economico, in questo caso al monopolio elettrico SADE. Che a sua volta si serviva del potere politico, in questo caso tutto democristiano, per realizzare grandi imprese a scopo di pubblica utilità – si fa per dire – dalle quali ricavava o avrebbe ricavato enormi profitti.”
Rompere il muro del silenzio
A rompere il silenzio, a riportare la vicenda nella memoria collettiva della nazione, è stato Marco Paolini, con la complicità di Carlo Freccero. Contro ogni regola, il direttore di Raidue programmò in prima serata il monologo teatrale di un attore giovane e pressoché sconosciuto.
Il 9 ottobre 1997 era un giovedì, era appena arrivato l’annuncio del Nobel a Dario Fo. C’era aria di crisi di governo, e infatti su Raitre Fausto Bertinotti era ospite di Santoro a Moby Dick per anticipare lo sgambetto a Romano Prodi. Su Raiuno sfilavano le più belle modelle del mondo, con gli abiti dei più famosi stilisti.
Sui tamburini dei quotidiani quel giorno nessuno aveva osato scrivere la parola “teatro”. Come spiegò lo stesso Paolini all'inizio del suo monologo: “Non so perché vi siete sintonizzati questa sera per ascoltare questa storia. Su alcuni giornali questo di stasera è indicato come un documentario, in altri giornali come un film drammatico. E invece siete in un teatro. Questa gente è qui per ascoltare teatro. Per una sera rubiamo la scena all’attualità e facciamo una diretta sulla memoria.”
Oltre tre ore in diretta dalla diga del Vajont, unica scenografia una lavagna zeppa di cifre (e alcuni filmati d'archivio). Ma successe una cosa straordinaria e imprevedibile: Il racconto del Vajont, con la regia di Gabriele Vacis, sbancò gli indici d'ascolto: quella sera 3.500.000 persone rimasero incollate davanti alla tv per sentir parlare di metri cubi di terra, acqua o cemento, di perizie e controperizie, di ingegneria, geologia, economia, ecologia.
A quel monologo Paolini, Vacis e il drammaturgo Francesco Nicolini lavoravano da anni, ma fuori dai teatri. Marco aveva iniziato a raccogliere dati e informazioni, prendendo appunti su grandi quaderni. Poi aveva iniziato a raccontare quella storia terribile nelle scuole, nei centri sociali, nelle sedi delle associazioni che lo invitavano. Molti spettatori non sapevano nulla di quella vicenda, per altri era solo un vago ricordo. Ma a volte capitava che dalla platea qualcuno si alzasse per ricordare, correggere, aggiungere, precisare. Ogni sera il racconto cambiava, fitto di numeri e date, inseguendo l'attenzione e la comprensione del pubblico.
La Repubblica del dolore
In questi trent'anni, Marco Paolini non è stato l'unico teatrante a lavorare sulle pagine oscure e dimenticate della nostra storia. Il modello di questo “teatro civile”, per certi aspetti, è il Dario Fo di Morte accidentale di un anarchico, che ricostruì la morte di Giuseppe Pinelli nella Questura di Milano, la notte del 16 dicembre 1969, pochi giorni dopo la strage di Piazza Fontana, l'evento che ha segnato la perdita dell'innocenza politica di una generazione. Sono ormai decine e decine gli spettacoli di “teatro civile” che negli ultimi decenni hanno contribuito alla creazione di una memoria collettiva, a partire da alcuni episodi chiave della nostra storia. Ancora oggi, nei libri sulla storia dell'Italia moderna, il Vajont non esiste.
La storia della “repubblica del dolore”, come è stata definita nel 2011 dallo storico Giovanni de Luna, non l'hanno raccontata gli storici, i professori, i giornalisti. L'hanno raccontata prima di tutto uomini e donne di teatro, rifiutando la celebrazione degli eroi (e del progresso a tutti i costi) per dare voce e corpo alla memoria delle vittime, per denunciare i loro carnefici, per smascherare le ambiguità del potere politico ed economico, portando alla luce la complicità e l'inadeguatezza degli apparati dello Stato (vedi Una controstoria teatrale e civile d'Italia).
Le nostre lotte
A 60 anni dalla strage del Vajont (quello che ricordano i nonni), a più di 25 anni dal Racconto del Vajont (quello che ricordano i padri), il potere della memoria deve passare ai figli. Non deve essere il ricordo consolatorio di un passato pacificato, che non ha più nulla da dirci, come quello irrigidito nel sacrario delle vittime a Longarone. Deve essere un'occasione di riflessione e uno strumento per le lotte del presente.
La nostra storia, o meglio la vita quotidiana degli italiani, continua a subire le conseguenze del dissesto idrogeologico, di uno scriteriato consumo del suolo, di fiumi malamente irreggimentati, di dighe poco sorvegliate, come dimostra la strage di Stava, che il 19 luglio 1985 ha provocato 268 vittime. Secondo il CNR in cinquant'anni (1964-2013), frane e inondazioni hanno causato 2007 morti, 87 dispersi e almeno 2578 feriti, in 2034 Comuni (vedi Cinquant'anni di frane ed inondazioni in Italia). Negli anni successivi, gli eventi meteorologici estremi hanno aggravato il bilancio.
Il riscaldamento climatico ha un impatto devastante anche sul regime delle acque. Uno dei motivi che spinge intere popolazioni all'emigrazione è la siccità, con la distruzione dei raccolti e la carenza di acqua potabile, con drammatiche conseguenze sulla salute. Tornare al Vajont significa misurarsi con un'idea di progresso che il 9 ottobre 1963 è esplosa con la potenza di due bombe atomiche. Anche per questo è istruttivo prendere in esame i diversi punti di vista con cui oggi ci raccontiamo quella vicenda.
Quattro sguardi sul Vajont: Paolo Di Stefano e Riccardo Jacona
Due giornalisti come Riccardo Jacona (autore di reportage soprattutto televisivi) e Paolo Di Stefano (inviato del “Corriere della Sera”, oltre che robusto narratore e memorialista), fin dal titolo del loro saggio lanciano un'invocazione. Mai più Vajont 1963/2023. Una storia che ci parla ancora, (pubblicato da un nuovo marchio editoriale, Fuoriscena, e venduto anche in allegato al “Corriere della Sera” a 14,50 euro più il prezzo del quotidiano) raccoglie i testi, tra gli altri, di Giorgio Bocca, Dino Buzzati, Alberto Cavallari, Indro Montanelli. Le grandi firme del nostro giornalismo non capirono (o non vollero scrivere) quello che era accaduto. Valga per tutti la metafora utilizzata dal bellunese Dino Buzzati: “Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d'acqua e l'acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto un centinaio di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi”.
È stata la natura, non è colpa di nessuno. Questa era la notizia.
Quattro sguardi sul Vajont: Adriano Bortoluzzi
Lo scrittore Antonio Bortoluzzi è nato e vive ad Alpago, a una ventina di chilometri da Longarone. Il 9 ottobre 1997, in quel “tempo di crescita e benessere diffusi” per il Nordest, era tra gli spettatori che ascoltavano Paolini. Nel suo Il saldatore del Vajont (Marsilio, 15,00 €) la voce narrante è quella di un operaio che ci porta nelle viscere della tragedia, nell'intrico invisibile dei cunicoli che percorrono la montagna e la diga, per aprirsi su vertiginosi belvedere sullo strapiombo. Quell'angosciante deserto è il rimosso di quella che il protagonista definisce “la tragedia della modernità”.
Quattro sguardi sul Vajont: Marco Armieri
Marco Armieri è uno storico. Si occupa di ambiente, attento alla dialettica tra accademia e attivismo. Nel pamphlet La tragedia del Vajont (Einaudi, 2023) racconta “una storia esemplare per capire il rapporto tra l’ambiente e la società italiana, almeno in età contemporanea”. Annota che “un sistema socioecologico completamente asservito al profitto produce sempre rischi per i subalterni che puntualmente sottovaluta, perché il suo funzionamento antepone la produzione di valore alla stessa riproduzione del vivente” (p. 60). Quello che servirebbe, suggerisce, è la “scienza post-normale” teorizzata da Silvio Funtowicz e Jerry Ravetz: quando l’incertezza è alta, i pareri discordanti e le comunità coinvolte domandano una partecipazione nelle scelte, non basta affidarsi agli esperti: è necessaria un “extended peer review, ovvero un coinvolgimento non solo degli esperti – come avviene nel peer review tradizionale – ma anche delle comunità interessate” (p. 45).
Quattro sguardi sul Vajont: Frank Westerman
L'olandese Frank Westerman è un giornalista d'inchiesta che si era laureato in “ingegneria agraria tropicale”, specializzandosi in dighe. Un piccolo e raffinato editore veneziano che si dedica “ai temi della sostenibilità sociale e ambientale” ha pubblicato nel 2022 il suo Dittico idraulico (Wetlands, 14 euro), ovvero i due reportage narrativi Venezia, Vajont e Il sorriso del salmone. Nel primo, accosta il suo pellegrinaggio verso la grande e inutile diga del Vajont alla gigantesca, costosissima (e forse utile) diga mobile del MOSE, con le sue ambizioni, i suoi costi e la girandola di corruzioni che gonfiarono l'impresa. Protagoniste del secondo racconto sono diverse dighe: quelle enormi costruite nei Paese Bassi quand'era bambino, quando il Mare del Nord invase la terraferma provocando morte e devastazione; quelle piccole per i sistemi d'irrigazione che progettava sulle Ande per i contadini poveri, i quali però spiegavano che Pacha Mama non gradiva che le rubassero l'acqua; infine il barrage della Roche-Qui-Boit, in Francia, smantellato su pressione delle organizzazioni ambientaliste e per volontà dei ministri francesi per la transizione ecologica.
Ogni volta sono in gioco diversi livelli di complessità, non solo e non tanto tecnologica. I volonterosi cooperanti erano arrivati dall'Europa per aiutare le fasce più svantaggiate della popolazione peruviana. Gli attivisti di Dam Removal Europe vogliono consentire ai salmoni di risalire il corso dei fiumi per riprodursi in santa pace. È il passaggio dalla lotta di classe ai movimenti ambientalisti. Ma alla Roche-Qui-Boit non ci sono solo i salmoni (e le rane, gli altri pesci, i pipistrelli, le foche...). Contro la diga, per esempio, erano schierate le società che producono energia dal nucleare (l'idroelettrico gli fa concorrenza). Albergatori, ristoratori e negozianti avrebbero invece voluto salvare il lago, perché attira i turisti e accresce il PIL. Molti a quel paesaggio sono abituati da sempre, e non capiscono perché bisogna stravolgerlo. C'è pure il rischio che il fiume Sélune, liberato dalla prigionia umana, ricominci a esondare, come faceva nell'Ottocento, causando danni e vittime. Negli scorsi mesi, dopo che Westerman aveva finito il libro, la diga è stata smantellata, dopo una serie di rinvii. È quello che i francesi chiamano renaturer e i tedeschi renaturieren: un'ampia zona restituita a uno stadio che si ritiene originario, anche se il nuovo habitat è frutto di una decisione umana.
Le dighe sono di destra o di sinistra?
Con una nota di ironico scetticismo, il giornalista-ingegnere cita il sociologo e antropologo Bruno Latour per la sua proposta di un parlement des choses, un governo che favorisca l’emancipazione dei “non umani”: oceani, fiumi, montagne e boschi (ma questo vuol dire anche, potenzialmente, ogni singolo albero di un bosco).
In realtà, appena si parla di dighe, vengono a galla molti altri problemi. Sulla scia di Karl Marx, il sinologo Karl August Wittfogel nel 1957 aveva spiegato che “la società che tenta di manipolare grandi masse d’acqua genera faraoni, scià e pascià” (p. 61). Westerman aggiunge che il dittatore Francisco Franco aveva la passione delle dighe e le disseminava in tutta la Spagna. Oggi molti ritengono sia finalmente arrivato il momento di abbatterle, perché sono monumenti all'arroganza della dittatura. Dunque, ci chiede Westerman, “le dighe alte fino a venticinque metri erano 'democratiche', e tutto ciò che superava quel limite doveva per forza essere archiviato come 'dittatoriale'?”
Vajonts per una Orazione Civile Corale: 150 teatri si mobilitano per discutere di acqua
Il 9 ottobre 2023 è l'occasione per ricordare quello che fu un “ECCIDIO PREMEDITATO”, come denuncia la lapide per una delle vittime. Ma è soprattutto l'occasione per rilanciare una questione cruciale.
Nel 1997 a squarciare il muro di silenzio fu un attore. In occasione di questo anniversario a mobilitarsi è il teatro italiano, che si è messo in rete per un evento eccezionale, un’azione di teatro civile che affronti la sfida della crisi climatica. L’acqua e la tragedia del Vajont diventano il punto di partenza per avviare “pratiche di prevenzione civile”.
Su invito di Marco Paolini, in collaborazione con Marco Martinelli e la Fondazione Vajont, oltre 150 teatri in tutta Italia dedicheranno la serata del 9 ottobre 2023 a VajontS per una Orazione Civile Corale: “grandi attori e allievi delle scuole di teatro, teatri stabili e compagnie di teatro di ricerca, musicisti e danzatori, maestranze, personale dei teatri, e spettatori arruolati come lettori si riuniranno nei posti più diversi, dal Teatro Strehler di Milano ai piccoli teatri di provincia, ma anche luoghi non specificamente deputati al teatro come scuole e centrali dell’acqua.”
Quella sera ogni spazio realizzerà un proprio allestimento di VajontS. E tutti si fermeranno alle 22.39, l’ora in cui la montagna è franata nella diga.