Il corpo di David e delle dive
A Firenze, tutte le bancarelle di souvenir acchiappaturisti vendono da tempo immemorabile un gadget irresistibile o repellente, a seconda dei gusti: un grembiule da cucina con l'effigie del David di Michelangelo, un corpo maestoso con il tenero pisellino di chi ha finito di fare l'amore. Dopo aver abbattuto Golia, può finalmente iniziare a pensare ad altro. È un paradosso: la nudità dell'eroe biblico deve proteggere gli abiti del cuoco (o della cuoca) dagli schizzi del sugo incandescente, dall'olio in cui si friggono le patatine, dalla goccia di Nutella con cui si farcisce la crèpe...
Fino a qualche tempo fa, quel souvenir era solo un chiaro e riprovevole esempio di kitsch. Oggi quel grembiule è diventato una questione politica. Il capolavoro di Michelangelo è un feticcio da sacrificare nel nome di valori superiori. L'unico problema è che quei valori sono tanti e contraddittori.
A difendere l'onore del David sono accorsi per primi i custodi della sacralità dell'arte. Quel capolavoro di creatività e bellezza, frutto del genio di un artista supremo, viene ridotto a oggetto di consumo. L'opera d'arte è tale se ammirata nel contesto adatto: in una chiesa, nelle sale del museo, la galleria d'arte, nel salotto di casa. Non deve avere una funzione d'uso, dobbiamo ammirarla e basta. Su quel grembiule, il capolavoro viene beffardamente privato della sua aura, non solo perché è stato riprodotto all'infinito, ma anche perché viene inserito in un contesto dove domina il rifiuto, il “basso”, il triviale... La sacralità del simbolo è perduta per sempre, l'eroe biblico si ritrova unto e bisunto per colpa di un cuoco esibizionista e maldestro.
Gli storici dell'arte e i professori di estetica vorrebbero mandare il grembiulino sexy al rogo. Un ministro come Gennaro Sangiuliano vorrebbe invece metterlo sotto tutela per ricavarne qualche spicciolo. Se il nostro patrimonio culturale è un valore, dal “nostro petrolio” dobbiamo estrarre valore. Se qualcuno usa un bene che fa parte del patrimonio identitario della nazione a fini commerciali, è giusto che lo Stato ci guadagni qualcosa (anche per arginare la voragine del nostro gigantesco debito pubblico). Chi stampa il David su un oggetto per venderlo, dovrebbe pagare allo Stato (o al Comune di Firenze) una percentuale dei ricavi. Siamo nella logica di un capitalismo che monetizza tutto, compresa la bellezza senza tempo di una statua che tutti possono ammirare sulla pubblica piazza, sui coperchi dei barattoli di caffè, sui grembiuli da cucina, nel logo di una palestra...
Michelangelo è scomparso da più di settant'anni, e dunque le sue opere non sono più tutelate dal diritto d'autore. Ma per cercare di chiarire la questione, si potrebbe dire che nel primo caso si tratta di tutelare il diritto morale, che riguarda non solo il riconoscimento della paternità dell'opera dell'ingegno, ma anche di garantire il diritto di opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione o modificazione della sua opera che possa pregiudicare l'onore o la reputazione dell'autore. È il caso, per esempio, dei cantanti che si lamentano e protestano se la loro canzone viene usata nella propaganda di forze politiche che detestano e disprezzano. Nel secondo caso, si tratta del diritto materiale, ovvero della possibilità per i creatori di essere correttamente remunerati per le opere del loro ingegno (questo reddito è garanzia di libertà intellettuale).
Poi arrivano quelli che non vogliono salvare David, ma cancellarlo. Sono i censori, che non accettano il nudo, lo scandalo del corpo e della sua naturalezza. Nel gennaio 2016, in occasione della visita al Campidoglio di una delegazione iraniana, diverse statue erano state prudentemente ingabbiate e ricoperte da teli bianchi per non turbare la vista del presidente Rouhani con le nudità greco-romane.
Periodicamente la censura dei social network viene ridicolizzate per avere cancellato i grandi capolavori della storia della pittura perché mostrano capezzolo, un pube, un cazzo. Non tanto perché la nudità può offendere la sensibilità di qualche internauta, ma soprattutto perché gli inserzionisti non gradiscono affiancare i loro prodotti a organi sessuali, anche se marketing e pubblicità vivono da sempre di allusioni e illusioni sessuali. I responsabili dei social network sostengono di non essere in grado di arginare le fake news, i bot e lo hate speech (che in realtà servono a creare engagement). Sono però straordinariamente attenti a censurare ogni minimo frammento di capezzolo o di peli pubici.
Di conseguenza si è sviluppata una challenge mondiale in cui procaci influencer sfidano il limite di quello che possono mostrare del loro corpo senza essere sospese dal loro social di riferimento: è una sfida ipocrita di bikini e tanga sempre più striminziti, di fiorellini e farfalline sempre più allusive sui capezzoli, di veli sempre più trasparenti, di lacci e catene che strizzano quello che non si può far vedere per valorizzare quello che si vuol far vedere. Le legioni dei controllori sottopagati che verificano le immagini sconvenienti sui social passano così dalle atrocità più tremende e vomitevoli a un'esplosione di tette e culi levigati e abbronzatissimi.
Di recente, anche la metropolitana di Glasgow ha ritenuto che la nudità del David, utilizzate nella pubblicità del ristorante italiano “Barolo”, potesse turbare i passeggeri e le passeggere, forse magari causando improvvise eccitazioni incontrollabili nell'ora di punta.
La campagna contro le nudità nella pittura (oltre che nella pubblicità e nei social) accomuna i custodi della morale capitalista e digitale ai bigotti di destra e di sinistra, da un lato gli integralisti islamici e dall'altro le femministe radicali. È un neo-puritanesimo trasversale, che invoca la censura (e l'autocensura) in nome della sensibilità religiosa e del politicamente corretto. Il risultato è lo stesso: “David, ti prego, rimetti le mutande!”
Qualche tempo fa, un'insegnante della Florida è stata accolta come un'eroina dal sindaco di Firenze. Durante una lezione di storia dell'arte, aveva mostrato ai suoi studenti – tutti minorenni – un'immagine del capolavoro ed era stata licenziata all'istante.
In realtà la sua colpa non era stata tanto quella di aver mostrato il pene di David a bimbi e bimbe, ma di non aver preavvertito i loro genitori, che a quel punto avrebbero potuto fregarsene, oppure spiegare ai bimbi la differenza anatomica tra maschietti e femminucce per evitare traumi, o evitare la scandalosa visione chiudendo la creatura nella sua stanzetta e mostrando icone del David con i pantaloni alla zuava o i bermuda floreali da surfer hawaiano.
La fobia e l'attrazione del nudo risultano perfettamente coerenti in un immaginario che si nutre di naked dress, il “vestito nudo” che infiamma i red carpet dei grandi festival di cinema: sono gli abiti al limite dell'indecenza che fanno sbavare i fan perché striminziti, e/o aderentissimi, e/o color carne e/o trasparenti: come quando vedi o meglio intravedi i seni di Chiara Ferragni, veri o stampati, all'ultimo Festival di Sanremo.
In una dinastia che ha tra le capostipiti Marilyn Monroe, le regine del naked dress sono oggi star come Beyoncé, Rihanna, Jennifer Lopez. Sono donne sensuali che mettono trionfalmente in mostra il loro corpo: per alcuni si ostentano come oggetti sessuali, per altri si trasformano in armi di seduzione.
Ma l'esibizionismo può essere anche un momento di empowerment femminile. Per indossare un abito del genere occorrono consapevolezza e sicurezza di sé. Nel 1998 Rose McGowan (all'epoca partner di Marilyn Manson) si presentò sul red carpet degli MTV VAM indossando un abito nero di perline completamente trasparente con un perizoma visibile, dopo essere stata aggredita sessualmente da Harvey Weinstein: “Era la mia prima apparizione pubblica dopo essere stata violentata. E ho pensato, era un po' come Russell Crowe e il Gladiatore quando esce sul ring e lui è tipo, 'Non ti sei divertito?' Ed è per questo che l'ho fatto. Questa è stata la mia risposta all'aggressione”.
Il corpo delle donne, nascosto dal burka o esibito sulla Croisette, resta un campo di battaglia. Quello del maschio, diventa un gadget kitsch.