Cattiva condotta

7 Ottobre 2024

Il dibattito sulla recente riforma del “voto di condotta” induce a interrogarsi su due ipotetici modi di concepire le funzioni educative del sistema d’istruzione. La scuola deve essere severa o comprensiva? Deve punire per educare o deve educare per non punire?

Il ministro Valditara sembra caldeggiare la prima ipotesi. Quella della valutazione della “condotta” è, infatti, una bandiera ideologica da sventolare: «si ripristina l’importanza della responsabilità individuale [...] – afferma il ministro – e si ridà autorevolezza ai docenti». 

Per le forze di opposizione, invece, l’accusa è quella di un ritorno al passato, a una scuola che si vorrebbe autorevole, ma si mostra autoritaria.

Il discorso si riallaccia alla querelle sul senso e la funzione della valutazione nella scuola. Non è un caso, infatti, che il Ddl, oltre a modifiche nella valutazione del comportamento, preveda per la scuola primaria anche il ripristino dei giudizi sintetici (‘ottimo’, ‘buono’, ‘insufficiente’, ecc..), in luogo dei giudizi descrittivi sui livelli di apprendimento raggiunti. Questo ennesimo cambiamento nelle modalità valutative (i giudizi descrittivi erano stati introdotti appena nel 2020) rispecchia una più generale tendenza ad anteporre posture ideologiche alla riflessione pedagogica approfondita.

Certo, sorge il sospetto che trattare di questi temi sia un diversivo per non parlare di altro. Lo rilevava un anno fa Girolamo Di Michele su queste pagine:  «parlare del voto di condotta – scriveva – esonera dalla necessità di occuparsi dei perché di quelle condotte che si sanzionano». 

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Verissimo. E, tuttavia, a rovescio, l’intervento di Valditara sulla valutazione del comportamento ci dice qualcosa di più profondo di quanto la lettera stessa della norma lascia intendere. Ci mostra i contorni di un processo che ha radicalmente trasformato la scuola.

Al di là di alcuni aspetti tecnici (con il “cinque” in condotta si è bocciati, con il “sei” si è rimandati di Educazione civica o più precisamente: «il consiglio di classe assegna un elaborato critico in materia di cittadinanza attiva e solidale»), ciò che risalta dall’impianto complessivo del provvedimento è un curioso intreccio tra l’approccio pedagogico paternalistico-punitivo e la razionalità economica neoliberale. Un paio di esempi aiutano a chiarire. 

Nell’ultimo triennio della scuola superiore, se la valutazione del comportamento è inferiore al “nove”, sono previste ripercussioni negative nel calcolo dei “crediti scolastici” che concorrono all’attribuzione del voto finale del diploma. Il principio è, quindi, lo stesso del social-scoring o delle cosiddette patenti di cittadinanza a punti: se sei davvero virtuoso il tuo punteggio sale, se non lo sei abbastanza scende. I “crediti scolastici” perduti – attenzione: non per un cattivo comportamento, ma per uno non abbastanza virtuoso – rappresenterebbero, dunque, per lo studente un mancato investimento nelle capacità del proprio capitale umano. 

Quanto al provvedimento della “sospensione” per gli allievi che si rendono responsabili di gravi mancanze, il Ddl ne codifica più precisamente il funzionamento. Se la sospensione è di durata superiore ai due giorni, lo studente o la studentessa sarà impegnato in «attività di cittadinanza solidale presso strutture convenzionate con le istituzioni scolastiche» per un periodo che, a discrezione del consiglio di classe, potrà anche essere superiore a quello della sospensione stessa. Di nuovo la logica punitiva e quella della “messa a valore” si richiamano vicendevolmente. Le attività di cittadinanza solidale – qui da svolgersi in modalità coatta – sono, infatti, proprio quel genere di pratiche che si suggerisce agli studenti di svolgere per arricchire il “portfolio di competenze” del proprio curriculum.

Il terzo articolo del Ddl – intitolato con altisonanza «Misure a tutela dell'autorevolezza e del decoro delle istituzioni e del personale scolastico» – ci riporta dal meccanismo premiale o rieducativo, a quello meramente punitivo della sanzione pecuniaria. Si prevede, infatti, una multa di importo variabile per chi dovesse essere colpevole di reati ai danni di dirigenti, docenti o altri lavoratori della scuola. 

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Insomma, il ministro ci lascia intendere che, in un mondo dominato dal mercato, l’autorevolezza è anch’essa una merce, il cui valore – leggiamo nel testo – è compreso tra i 500 e i 10.000 euro. Si tratterebbe di riparazioni che saranno incassate direttamente dall’istituzione scolastica dove presta servizio la persona offesa. Resta da capire se i giudici incaricati di stabilire l’importo della sanzione opereranno sulla scorta dell’editto di Rotari, imponendo cioè un guidrigildo diverso sulla base del rango dell’aggredito: insomma, si pagheranno cifre diverse a seconda che si tratti di un dirigente, un docente, un amministrativo o un collaboratore scolastico?

A fronte di simili punte di velleitarismo sul presunto recupero dell’autorevolezza, fa sorridere che l’eco della vicenda sia arrivato persino sulle pagine della stampa internazionale, con il londinese The Guardian che ha rammentato come l’enfasi data da Valditara al voto di condotta riporti alla mente la riforma fascista della scuola promossa da Giovanni Gentile nel 1923. 

Pur trattandosi di un paragone che potrebbe non dispiacere a parecchi di coloro che sostengono la maggioranza di governo, qualche breve cenno di storia della scuola permette di capire che ciò che Valditara rivendica come una sua trovata ha radici molto più recenti.
Non diversamente dall’intero impianto della riforma Gentile, anche il voto di condotta sopravvisse alla caduta del fascismo. Anzi, lo spauracchio del “sette in condotta” – con il quale si era automaticamente bocciati – durò molto a lungo. Resistette anche alla prima grande riforma, quella della “media unica” del 1962, e superò indenne il Sessantotto e i primi anni Settanta. Soppressa per elementari e medie nel 1977, la valutazione della condotta si mantenne sino alla fine del secolo nella scuola superiore, nonostante il processo di rinnovamento democratico culminato con la nascita degli organi collegiali. Solo nel 2000, con l’entrata in vigore del regolamento per l’attuazione dell’autonomia scolastica e con lo Statuto delle Studentesse e degli Studenti, la condotta scomparve davvero dall’insieme dei voti. L’assenza durò poco.
Cacciata dalla porta, la condotta tornò dalla finestra appena otto anni dopo. Mariastella Gelmini, insediatasi come ministro nel 2008, si vantò – proprio come fa oggi Valditara – di aver ripristinato la scuola del rigore, che restituiva dignità a un’istituzione rovinata dalla “cultura del Sessantotto” (un fenomeno storico al quale – come si è visto – il voto di condotta era comunque sopravvissuto). 

Proprio con Gelmini la “condotta” prese a chiamarsi “valutazione del comportamento”. E vedremo a breve che le parole sono importanti.
Nessuno degli otto ministri che si sono succeduti dal 2011 a oggi, prima di giungere a Valditara, ha mai messo in discussione la liceità di una simile valutazione. Anzi, gli unici interventi significativi in questo campo – come il Dlgs 62/2017, sotto la ministra Fedeli – hanno mirato a rafforzare l’idea che, nella scuola, una “valutazione del comportamento” è auspicabile e necessaria proprio perché, nell’ottica della teoria delle competenze, restituisce un’immagine a tutto tondo dell’allievo. La valutazione dell’agire e delle attitudini comportamentali – ci suggerisce questa prospettiva – andrebbe quindi intrecciata con l’osservazione dello sviluppo delle competenze di cittadinanza, delle competenze non cognitive e delle charachterial skills

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Non è sfuggito ai docenti quanto, nell’ultimo decennio, si sia insistito sulla necessità di lavorare proprio sulle competenze trasversali, quelle non strettamente legate all’ossatura epistemologica delle discipline d’insegnamento. Le recenti linee guida per l’educazione civica volute da Valditara insistono molto su questo aspetto.

Ed è proprio in quest’ottica che possiamo comprendere le implicazioni della differenza semantica tra “condotta” e “comportamento”. 

“Condotta”, se ne seguiamo l’evoluzione nella storia della lingua, suggerisce l’idea di un rigido canone prescrittivo. C’è un modello al quale adeguarsi: chi lo fa, mette in atto una “buona condotta”. Il paradigma – che, prima ancora della scuola, evocava il mondo militare e poi il carcere – è legato alla concezione disciplinare tradizionale, in cui la valutazione riguarda la sfera del fare e dell’agire. In questa prospettiva la buona condotta corrisponde alla logica dell’obbedienza. 

Il passaggio alla valutazione del “comportamento” mette in luce una dimensione diversa, che è spesso evocata anche in riflessioni sull’educazione dal taglio apparentemente progressista: ormai non basta più osservare il “sapere fare”, ma si tratta di esplorare il “saper essere” di ogni persona. 

È il passaggio concettuale che mostra la differenza tra obbedire e adattarsi. Si obbedisce alle regole, ci si adatta alle situazioni. La dinamica è stata ben fotografata da Angelique Del Rey, utilizzando la metafora della statua che si scolpisce da sé: mentre i tradizionali modelli valutativi «scolpivano per così dire dall’esterno, sulla base di un modello» – ci dice Del Rey – «le nuove forme di valutazione generano invece un meccanismo di creazione della norma».

La contrapposizione tra i due modelli pedagogici di cui parlavamo in apertura, l’uno più permissivo e l’altro più repressivo, si annulla, nei fatti, grazie alla tipica ambivalenza che pervade la razionalità della governamentalità neoliberale. Da una parte il soggetto è illuso di aver a disposizione la più completa libertà – economica, culturale, politica – che si ampia sulla base della capacità di messa a valore di se stessi; dall’altra parte, vi è la tendenza a compiere sforzi di creazione identitaria e di direzione degli individui in ottica adattiva.
Al di là della retorica sul rigore e sulla disciplina, anche la scuola di Valditara – così concentrata sulla responsabilità del singolo e sul culto dell’iniziativa economica – non fa altro che assecondare questa prospettiva.

Spetta a chi ha a cuore un’idea diversa di educazione fare in modo che, nelle generazioni future, a prevalere sia la spinta collettiva verso la trasformazione e non la rassegnazione ad accettare il mondo così com’è.

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