Raimo, Valditara e Immanuel Kant
È stata definita infocrazia. Lo ha fatto Byung Chul-han, indicando «quella forma di dominio nella quale l’informazione e la sua diffusione determinano in maniera decisiva [...] i processi sociali, economici e politici». Allo stesso tempo, travolti dall’eccesso bulimico di informazioni, non siamo più in grado di distinguere i fatti dalle opinioni. Un corollario della teoria è che le notizie, nell’agenda mediatica, hanno vita sempre più breve. Quelle riguardanti la scuola hanno vita brevissima.
È, infatti, quasi dimenticata dai media la grave vicenda di censura subita da Christian Raimo, docente, giornalista e scrittore, sospeso dall’insegnamento per tre mesi per un provvedimento disciplinare dell’Ufficio Scolastico del Lazio.
È necessario tornarci sopra, non soltanto per esprimere, ancora una volta, la solidarietà che è doverosa – e che molti hanno già mostrato –, ma perché può essere l’occasione per capire meglio la genealogia di certi processi che oggi ci inquietano e, domani, potrebbero definitivamente paralizzarci.
A fine estate Raimo aveva pronunciato – in un contesto del tutto extrascolastico, come la festa di Alleanza Verdi Sinistra, il partito per il quale era stato candidato alle scorse Europee – alcuni severi giudizi sullo spessore politico e intellettuale di Valditara e sull’indirizzo del governo. Una sua esternazione di particolare clamore mediatico era stata il paragone tra la politica del ministro e la Morte Nera di Star Wars, la temibile arma di distruzione di massa che, nell’epopea fantascientifica di George Lucas, possiede però un punto debole che la rende vulnerabile ai ribelli.
C’è da dire che, più che la distruzione di massa, almeno per ora, a Valditara riesce meglio la “distrazione di massa”. Sin dal suo insediamento, non ha smesso di sorprendere. Ha cominciato con la pedagogia dell’umiliazione, quando – era il novembre 2022 – ebbe a dire: “evviva l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità”. Ha continuato presentandosi in piazza a Palermo per protestare contro i giudici, in difesa di Salvini, accusato di sequestro di persona ai danni di 19 migranti trattenuti a forza a bordo della nave Open Arms nell’estate 2019.
Le ultime luci della ribalta – è fatto recente – il ministro le ha guadagnate intervenendo in occasione del primo anniversario della morte di Giulia Cecchettin, quando, oltre a premurarsi di negare l’esistenza del patriarcato, non ha potuto trattenere l’allusione a un nesso tra “l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale” e “forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale”. [Vedi il canale Repubblica]
Storditi dalla disinvoltura con cui il Ministro dell’Istruzione si ritaglia spazio nelle cronache, non stupisce che il caso Raimo passi in secondo piano. E questo non deve accadere.
La sanzione che l’USR del Lazio ha irrogato, a seguito dell’istruttoria del procedimento disciplinare, è pesantissima. Le ragioni di una tale severità risiederebbero – il condizionale, per ora, è d’obbligo e se ne saprà di più dopo l’esito del ricorso presso il Tribunale del Lavoro – nella violazione del Codice di Comportamento dei dipendenti pubblici (già DPR 62/2013 e ora DPR 81/2023) e del più specifico Codice in adozione per i dipendenti del Ministero dell’Istruzione (DM 105/2022) – che, è bene ricordarlo, non porta la firma di Giuseppe Valditara, ma di Patrizio Bianchi.
È mai possibile – verrebbe da chiedersi – che affermazioni, condivisibili o meno, pronunciate in un contesto esterno a quello del proprio servizio possano portare a conseguenze così gravi sul piano professionale? A quanto pare sì, almeno a partire dal combinato disposto di due articoli dei già citati codici di comportamento. Vediamo come.
L’articolo 11-ter, comma 2, del DPR 81/2023 recita, in relazione all’uso dei mezzi di comunicazione o dei social media: «In ogni caso il dipendente è tenuto ad astenersi da qualsiasi intervento o commento che possa nuocere al prestigio, al decoro o all'immagine dell'amministrazione di appartenenza o della pubblica amministrazione in generale.» All’art. 12, comma 1, del DM 105/2022 si legge invece che «nei rapporti privati il dipendente tiene una condotta che non confligge con l’integrità del servizio [...] e non assume alcun altro comportamento che possa nuocere all’Amministrazione in qualsiasi forma sia diretta che indiretta, anche in termini di immagine».
Come si capisce dall’analisi degli estratti riportati, l’insieme di queste disposizioni produce una paradossale contraddizione. Il dettato normativo è al contempo stringente e vago, certo e incerto: il “sempre” e il “mai” si inseguono. Da un canto, il dipendente pubblico – e, nello specifico, quello del Ministero dell’Istruzione – è “sempre” sanzionabile, che sia o meno in servizio, egli è costantemente sotto l’occhio vigile dell’amministrazione. Dall’altro, non è “mai” dato di sapere in che modo si possa – addirittura in forma indiretta! – nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine dell’amministrazione. Insomma, è il campo dell’interpretazione o, peggio, dell’arbitrio.
Quali sono, dopotutto, i comportamenti che possono nuocere alla buona immagine dell’amministrazione? Lo spettro del possibile è vasto: dalle dichiarazioni in una riunione politica – come nel caso in esame – a interventi estemporanei di qualche insegnante sui social network di cui ogni tanto si nutrono le cronache, le variabili sono infinite.
E, ancora, ci si potrebbe mai davvero accordare su un criterio condiviso per stabilire cosa danneggi il “decoro” dell’amministrazione? Di certo, esiste una vasta letteratura (Pitch 2013; Pisanello 2017) che approfondisce come il concetto stesso di “decoro” – elaborato nell’ambito delle politiche securitarie per la gestione dei fenomeni di marginalità urbana – sia, proprio per l’intrinseca nebulosità che lo connota, uno degli attrezzi concettuali attraverso cui meglio si esplica la governamentalità neoliberale. Ciò significa che il comportamento divergente, la critica, il dissenso non sono vietati esplicitamente: si lascia solo intendere che l’eccentricità è rischiosa e potrebbe essere sanzionata. Così, non essendo definiti con chiarezza i confini di cosa si possa o non si possa fare, gli individui – atomizzati e atterriti nel loro isolamento – sono sospinti ad agire in modo adattivo, si conformano al buon senso dominante.
A difesa di Raimo si sono levate molte voci. Alcune tra queste, con buon senso, segnalano un doppio standard di giudizio. Valditara che si reca in piazza a manifestare contro i giudici e a difesa di un accusato di sequestro di persona, può farlo rivendicando di essere un “cittadino libero”, perché Raimo – che, certo, ha posizioni politiche opposte – non può esternare le sue opinioni, per quanto crude? Il ragionamento, che scagionerebbe il docente, si fonda sull’assunto che, quando Valditara e Raimo esercitano il proprio incarico – di ministro o di insegnante –, essi sono funzionari pubblici, quando partecipano alle manifestazioni ed esternano il proprio pensiero, sono privati cittadini.
I codici deontologici prima citati sarebbero quindi invasivi e lesivi dello spazio privato dei singoli individui. Eppure, le cose potrebbero non stare così.
Forse abbiamo dimenticato una lezione, vecchia di quasi due secoli e mezzo, ma attualissima ancora oggi.
Nel celebre pamphlet Risposta alla domanda ‘Che cos’è l’illuminismo?’, Kant chiarisce la differenza tra uso pubblico e uso privato della ragione.
«Intendo per uso pubblico della propria ragione – precisava il filosofo di Königsberg nel 1784 – l'uso che uno ne fa, in quanto studioso, davanti all'intero pubblico dei lettori. Chiamo invece uso privato della ragione quello che ad un uomo è lecito esercitare in un certo ufficio o funzione civile a lui affidato».
E negli esempi con cui sostanzia le sue definizioni – l’ufficiale in servizio, il sacerdote, il cittadino di fronte alle tasse – Kant chiarisce che un conto è adempiere alle disposizioni che il proprio ufficio prevede (e su questo, si sa, l’etica kantiana del dovere è intransigente), un altro è «la piena libertà e anzi il compito di condividere con il pubblico tutti i [propri] pensieri».
Kant ci dice insomma che, nello spazio pubblico, non solo possiamo criticare il nostro governo, ma che è proprio un nostro specifico compito farlo, serve a realizzare la libertà dell’illuminismo, cioè l’uscita dallo stato di minorità.
Se, invece, siamo giunti a questo punto della notte – forse l’ultima stazione di quella Dialettica dell’illuminismo intuita da Adorno e Horkheimer – è proprio perché la razionalità neoliberale che permea il nostro tempo ha trasformato il privato in pubblico e il pubblico in privato.
Per tornare a Byung Chul-han, la dimensione delle “bolle social” entro cui si sviluppano molte delle nostre relazioni, è solo una delle tante manifestazioni di questo ribaltamento in cui confondiamo il pubblico con il privato: è il momento in cui la libertà e la sorveglianza si confondono.
Da questo rovesciamento passa la differenza tra l’autoritarismo esplicito novecentesco e il nuovo implicito autoritarismo neoliberale. Al dipendente statale di oggi non è richiesto nessun giuramento di fedeltà, nessuna dichiarazione di adesione ai principi ideologici del regime. Semplicemente questi baratta la fine dello spazio di dibattito pubblico con la sua libertà privata, con il prudente láthe biósas, il “vivi nascosto” degli epicurei.
È un fenomeno diffuso in tutta Europa, proprio come lo sono i codici di condotta dei dipendenti pubblici, ormai presenti ovunque sia stato adottato il modello neoliberale del New Public Management. Lo hanno analizzato Christian Laval e Francis Vergne: «Nella maggior parte dei paesi cosiddetti democratici si dà per scontato che non si potrebbe esercitare nessuna censura [...], – scrivono – la gerarchia burocratica non manca di sottolineare [ai docenti] che la loro libertà pedagogica rimane soggetta alle varie autorità di controllo e a volte addirittura ricorda esplicitamente che la loro missione è promuovere i valori della nazioni e accelerarne lo sviluppo economico» (Laval, Vergne 2022).
Una volta chiarita la posta in gioco, appare più evidente la necessità di recuperare quell’invito kantiano a servirsi della «più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi». Che, in fondo, è quanto Christian Raimo ha fatto e che noi, se vogliamo essergli davvero solidali, non dobbiamo smettere di fare.
Per saperne di più
Laval C., Vergne F., Educazione democratica. La rivoluzione dell’istruzione che verrà, Novalogos, Aprilia, 2022
Pisanello C., In nome del decoro. Dispositivi estetici e politiche securitarie, Ombre Corte, Verona 2017
Pitch T., Contro il decoro. L’uso politico della pubblica decenza, Laterza, Roma-Bari 2013