Piogge, fiumi e territorio

28 Ottobre 2024

Le immagini delle vie di Bologna allagate nella notte del 19 ottobre irrompono nel nostro immaginario geografico con forza dirompente, riflesso mentale del devastante effetto che le acque provocano nella concreta realtà territoriale. Pur immersi nella consueta dittatura del presente, in una perenne navigazione di superficie fra le notizie che ci arrivano con martellante continuità, non possiamo fare a meno di ricordare le immagini inquietantemente simili delle alluvioni che hanno colpito la medesima regione, l’Emilia-Romagna, poco più di un anno fa, nel maggio 2023. Abbiamo in questo caso una preoccupante prossimità temporale (“non è possibile, di nuovo?” è la domanda che sorge spontanea alla mente) e insieme un salto di qualità di natura prettamente spaziale. Se nelle alluvioni del maggio 2023 erano state colpite soprattutto le aree rurali (che anzi, come nel caso di alcune zone contigue alla città di Ravenna, erano state sacrificate a tavolino proprio per salvare il contesto urbano), questa volta il disastro alluvionale colpisce sia le campagne sia il centro della città. L’evento appare come un “attacco” al fulcro simbolico (il capoluogo) della regione e comporta un cambiamento di paradigma che tocca una delle dualità più immediate sulle quali si struttura il nostro immaginario spaziale: il rapporto fra città e campagna (che rimane comunque implicitamente, per lunghe inerzie mentali depositatesi nella coscienza collettiva nel corso dei secoli, anche un rapporto fra centro e periferia). Questa volta le acque sono esondate in pieno centro storico, con corrispondenza idrografica nella medesima rete toponomastica: “Via Riva di Reno allagata”, titolano le notizie diffuse dai mass media e dai social network. Anzi, proprio nel contesto urbano le acque hanno dimostrato ancora più chiaramente – se ve ne fosse ancora bisogno – la propria forza dirompente. La vera e propria “esplosione” delle casse cementizie del Ravone nel centro di Bologna ha restituito la perfetta immagine simbolica di una “rivolta” delle forze naturali contro le costrizioni imposte dalle azioni antropiche.

Non si tratta però solo di uno “scacco al re”, di una minaccia diretta al capoluogo regionale, sia pur simbolicamente rilevante. Gli eventi alluvionali hanno colpito molte aree della regione: il tam-tam mediatico restituisce con immediata crudeltà la rottura di un argine del torrente Crostolo, in provincia di Reggio Emilia, con conseguenti allagamenti della pianura circostante. Altri centri della pianura emiliano-romagnola sono interessati: Faenza, già alluvionata l’anno scorso, è di nuovo allagata in alcune aree. Ma l’elenco delle zone colpite da allagamenti e alluvioni è lungo: Budrio, Ozzano, Castenaso, San Lazzaro, ecc.

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“Perché proprio qui?” è una delle domande più naturali e “normali” che sorgono a seguito dei disastri. Il fatto stesso che ci si ponga questa domanda è il sintomo di un nostro distacco dalla realtà territoriale. Assorbiti nella frenesia di stili di vita che considerano il territorio tutt’al più una variabile spaziale quantitativa, legata alla distanza necessaria per gli spostamenti, si tende a perdere traccia di una “coscienza territoriale”. Gli abitanti della pianura padana, e ovviamente in particolar modo, ma non esclusivamente, quelli della “bassa pianura” (cioè di quella parte della pianura composta da terreni permeabili, posizionata alle quote più basse e contigua al corso d’acqua principale del sistema idrografico, in questo caso, ovviamente, il Po), vivono su un territorio che è stato letteralmente “strappato” alle acque attraverso secoli di interventi di bonifica e di regimazione delle acque. In quest’area si vive dunque in un complesso costrutto idraulico artificiale, caratterizzato nel corso della storia da una crescente costrizione dei corsi d’acqua entro alvei sempre più stretti, dalla diffusa canalizzazione del reticolo idrografico, addirittura dalla completa artificializzazione di alcuni tratti urbani dei corsi d’acqua (come nel caso del sopracitato Ravone), che vengono letteralmente “inscatolati” (si chiamano proprio “scatolari” le «membrature a sezione rettangolare cava» secondo il vocabolario Treccani) in cassoni di cemento. Il problema attuale è una variazione nella scala dimensionale: le precipitazioni che hanno provocato questi fenomeni rappresentano eventi che fino ad ora erano da considerarsi senza ombra di dubbio “eccezionali” (ma che probabilmente da ora in poi non dovranno più essere considerati tali), con tempi di occorrenza molto lunghi (cioè con un lungo intervallo di tempo fra una manifestazione e la successiva). 

Il paradosso è che, sia pur incarnato attraverso l’immagine di un “agente naturale” (il torrente o il fiume che esonda), il fenomeno è in realtà doppiamente causato dall’azione antropica: a monte, nella creazione delle condizioni per il cambiamento climatico, a valle, nella progressiva costrizione del reticolo idrografico.

Se ci si pone dunque la inevitabile domanda “che fare?”, lo scenario è ovviamente complesso: occorre intervenire nella doppia direzione della mitigazione e dell’adattamento.

La mitigazione comporta interventi sulle cause che scatenano i fattori di rischio. In questo caso, dunque, occorrono azioni mirate a diminuire i fattori alla base del cambiamento globale, in primis l’emissione di gas serra. Questo ordine di decisione ovviamente travalica la scala locale, anche se certamente si potrebbe giovare di azioni ed iniziative che partissero da questa scala dimensionale. Per adottare serie politiche di mitigazione occorrono però senza dubbio decisioni coraggiose e lungimiranti a livello globale.

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Adattamento, invece, come suggerisce la European Environment Agency (EEP), «significa anticipare gli effetti avversi dei cambiamenti climatici e adottare misure adeguate per prevenire o ridurre al minimo i danni che possono causare». Questo adattamento deve avvenire in due ambiti. Il primo è quello materiale-infrastrutturale. Occorre ripensare radicalmente il rapporto territoriale con i corsi d’acqua, restituendo loro territori dimensionalmente adeguati di esondazione, lasciandoli “respirare” territorialmente, anche a costo di abbandonare spazi già occupati ed antropizzati. Si tratta propriamente di fare “un passo indietro”, sia materialmente che metaforicamente, di arretrare dalla protervia dominatrice che ha caratterizzato l’azione umana degli ultimi secoli. Occorre porre fine a una concezione del reticolo idrologico come qualcosa da “governare”, ove il verbo assume inevitabilmente un significato di dominio e di assoggettamento. Il rapporto con il reticolo idrografico dovrebbe essere invece improntato a un senso di rispetto e di piena considerazione per gli elementi naturali.

Vi è infatti anche un secondo, ma certamente non secondario, aspetto da prendere in debita considerazione per una efficace opera di adattamento: quello psicologico-culturale. Una rinnovata pianificazione territoriale che lasci maggiore spazio ai corsi d’acqua, per essere adeguatamente efficace e rispettata, deve affondare in un cambio di paradigma concettuale e, di conseguenza, comportamentale. La valorizzazione degli ambienti fluviali potrebbe passare attraverso sistemiche azioni di rinaturalizzazione che favoriscano un recupero del rapporto tra uomini e fiumi. L’erosione territoriale operata a danno dei fiumi è infatti specchio di una cultura dominata dalla convenienza economica e dall’illusione tecnocratica, che considerano l’elemento fluviale solo un elemento materiale da sfruttare il più possibile.

Il percorso compiuto dalle società umane nel corso della storia in rapporto ai corsi d’acqua ha vissuto un capovolgimento prospettivo vertiginoso. Si è passati dalla valorizzazione sacrale delle acque e dalla divinizzazione dei fiumi (il Po era il dio Eridano) a un assoggettamento schiavistico a fini utilitaristici. In una delle sue tante ispirate pagine intrise di riflessione sacrale, Guido Ceronetti parlava nel suo Un viaggio in Italia 1981-1983 di un fiume Po trasformato in un «rematore abbruttito, frustato a morte». Sarebbe insomma necessario recuperare una cultura fluviale che abbiamo da tempo sotterrato insieme ai tratti urbani dei corsi d’acqua.

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