Il fiume Po, la siccità, la (assenza di) cultura fluviale

29 Giugno 2022

Una cartografia del bacino idrografico del Po mostra con evidenza la rete capillare di corsi d’acqua che confluiscono nel fiume principale. L’immagine richiama un po’ quella di un polmone, irrorato dall’afflusso dei vasi sanguigni. Le metafore organicistiche, d’altra parte, hanno avuto un ruolo importante nella storia delle discipline geografiche. Basti citare, a titolo esemplificativo, la prima pubblicazione di Roberto Almagià (1884-1962), uno dei padri della geografia italiana, figura di spicco nel panorama disciplinare per almeno quattro decenni del Novecento: un articolo pubblicato nel 1902 sulla prestigiosa Rivista Geografica Italiana (organo ufficiale della Società di Studi Geografici di Firenze, che ancora oggi viene pubblicato, sotto la direzione di Bruno Vecchio) e intitolato significativamente Il globo terrestre come organismo. Il pensare la Terra – o anche soltanto una sua componente – come un essere vivente proietta una luce di fraternità inedita sull’ambiente circostante. Se immaginiamo gli elementi della geografia di un territorio attraverso questa metafora, inevitabilmente viene dunque da chiedersi in che condizioni si trovino, quale sia il loro stato di salute.

La metafora medica, d’altronde, è protagonista del linguaggio mediatico contemporaneo. In queste settimane i quotidiani presentano titoli come “Il fiume Po, grande malato”, “Il fiume Po moribondo”, “L’agonia del fiume Po” e così via, con un arsenale espressivo che oscilla fra il linguaggio medico e il necrologio. La “medicalizzazione” di una problematica ecologica rappresenta un’interessante prospettiva di riflessione, a maggior ragione in un periodo storico come quello attuale, in cui il campo semantico della medicina è stato indiscusso protagonista, negli ultimi due anni e mezzo, delle narrazioni correlate alla pandemia.

L’attuale tragica siccità del fiume Po è innegabile. Le portate medie sono drammaticamente ridotte, lo scorrimento superficiale è ai minimi storici mai registrati. Non vi sono dubbi sul fatto che la situazione corrente sia straordinaria, per carenza idrica. Tale stato di sofferenza del maggior corso d’acqua italiano (e di tutto il suo bacino idrografico che, con i suoi 75.000 chilometri quadrati di superficie, comprende, è utile ricordarlo per avere un’idea dell’impatto dimensionale, un quarto del territorio italiano) rappresenta davvero una malattia improvvisa? La risposta è insieme positiva e negativa. Positiva perché si tratta inequivocabilmente di una condizione di sofferenza patologica rispetto a una situazione che poteva, almeno fino a pochi decenni fa, essere considerata di “normalità”, se non proprio “sana”. Negativa perché, se davvero di malattia si tratta, allora è una malattia che ha avuto tantissimi sintomi di pre-allarme, che addirittura può essere vista come cronicizzata, e che sicuramente è stata ampiamente annunciata.

Le premesse per i valori da record della siccità attuale affondano infatti in problematiche di lunga durata. Come sempre avviene nelle questioni di ecologia, i rimandi, le connessioni, gli intrecci si diramano in ogni direzione, coinvolgendo sia la dimensione spaziale (la gestione territoriale a livello del bacino idrografico nella sua interezza) sia quella temporale (i cicli stagionali, gli andamenti annuali, le tendenze di lungo periodo). I bassi livelli di oggi sono il frutto di dinamiche di longue durée. I pezzi del puzzle ecologico-climatico comprendono tutte le tessere concettuali di cui sono ricchi i dibattiti scientifici degli ultimi anni: cambiamento climatico, effetto serra, desertificazione, scomparsa dei ghiacciai, alterazione dei regimi pluviometrici, aumento della evapotraspirazione, eccessivo sfruttamento delle risorse idriche, conflittualità latenti e/o evidenti nell’utilizzo dell’“oro blu”.

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È interessante fermarsi a riflettere sull’immagine del fiume Po che possiamo trarre dal “paesaggio mediatico”, per utilizzare un efficace termine messo a fuoco dall’antropologo Arjun Appadurai nel volume Modernità in polvere (uscito in Italia nel 2001 e disponibile oggi, a partire dal 2012, nel catalogo della casa editrice Raffaello Cortina; il titolo originale dell’edizione americana del 1996, per University of Minnesota Press, era Modernity at Large. Cultural dimensions of globalization). Appadurai afferma che i mediascape “si riferiscono sia alla distribuzione delle capacità elettroniche di produrre e diffondere informazione (giornali, riviste, stazioni televisive e studi di produzione cinematografica) che sono ora a disposizione di un numero crescente di centri di interesse pubblici e privati in tutto il mondo, sia alle immagini prodotte da questi media (2001, p. 55).

La visibilità mediatica del fiume Po è innegabilmente legata, da decenni, alle manifestazioni estreme. Il cortissimo nome del più lungo corso d’acqua nazionale compare nelle prime pagine quasi esclusivamente in occasione di eventi egualmente disastrosi, ma di segno opposto: le piene rovinose o le magre estreme. La percezione del fiume (ma non solo: si potrebbero argomentare discorsi simili anche per altri elementi geografici) è dunque quasi soltanto emergenziale. Non è un dato da prendere alla leggera: a ben pensarci, quest’immagine geografica confinata nei propri estremi rappresenta una forte distorsione nella rappresentazione di una condizione di vita (ritorniamo alla metafora iniziale dell’elemento geografico come “organismo”). Provando a fare un paragone antropocentrico (anche questa prospettiva è d’altronde un caposaldo della percezione umana della natura), è come se sentissimo parlare di una persona soltanto quando questa scarica le proprie ire più funeste oppure quando è quasi totalmente priva di energie. Sarebbe senz’altro bizzarro, no? Forse ci verrebbe voglia di sapere qualcosa di più su quella persona e sulla sua “normalità”, sulla sua vita quotidiana, sui suoi gusti, sulle sue azioni.

La crisi idrica che conquista i titoli giornalistici di questi giorni è certamente, e tragicamente, una crisi ambientale ed ecologica. Si tratta però, anche, a mio parere, del rispecchiamento di una altrettanto aspra crisi culturale, caratterizzante una società, quale quella italiana contemporanea, che non riesce a pensare gli elementi geografici ed ambientali in termini di “normalità”. Una società che non sembra in grado di dedicare attenzione alle componenti del territorio se non in momenti di drammatica anomalia e pericolo, senza riuscire a costruire un’attenzione e una cura che si esprimano in termini di quotidiano valore e di necessario rispetto. I servizi televisivi fanno vedere in questi giorni i sempre più immensi spiaggioni del Po che occupano quasi interamente l’alveo, o si soffermano sulla possibilità di attraversare il maggior fiume della penisola a piedi. 

Questi emergenziali approcci giornalistici sono anche il riflesso del silenzio mediatico che caratterizza i tempi di “normalità”, il contraltare dell’impossibilità di parlare al telegiornale, in una serata qualunque, delle molteplici funzioni economiche, sociali, culturali che il ramificato bacino idrografico del fiume svolge quotidianamente da millenni. E sono anche lo specchio di una società che da decenni sta sovrasfruttando le riserve idriche – eppure cospicue – della nazione, con un atteggiamento di stampo predatorio e non con un’ottica di sostenibilità di lungo periodo. E, infine, di una società che sta guardando anche ora al fiume Po ostracizzandolo e commiserandolo – non senza una buona dose di ipocrisia – come un “paziente malato”, senza essere stata in grado di prendersi cura della sua salute giorno per giorno, anno dopo anno, secolo dopo secolo.

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