Cambiamento climatico e disastro ambientale
La geografia è considerata di norma una disciplina che studia lo spazio, come già suggerisce la stessa etimologia della parola: “scrittura/descrizione della Terra”. Eppure, a ben pensarci, basta introdurre parole, quali quelle che stiamo leggendo ed ascoltando sempre più frequentemente nei discorsi mediatici di questi ultimi mesi, come “dinamiche territoriali”, “trasformazioni dello spazio”, “cambiamento climatico”, per comprendere come la dimensione temporale sia inevitabilmente intrecciata con l’analisi geografica. In un interessante volume uscito nel 2006, intitolato significativamente La geografia del tempo. Saggio di geografia culturale (Torino, Utet), il geografo Adalberto Vallega (1934-2006) esprimeva in questo modo il cuore della questione: “[…] chiederci come sia possibile cogliere il senso del tempo nel segno del luogo e, così facendo, come si possa scoprire a quali valori e a quali significati il tempo del singolo luogo conduca. In sostanza, si pone la questione del modo in cui affrontare un apparente paradosso, che consiste nel costruire una ‘geografia del tempo’, intesa come rappresentazione del tempo che connota i luoghi”.
Le acute parole di Vallega possono essere un utile punto di partenza per svolgere qualche riflessione sulle urgenti (un altro aggettivo di natura temporale…) questioni che i tragici eventi degli ultimi mesi hanno posto con evidenza alla nostra attenzione. I fenomeni di estrema siccità, seguiti a distanza di poche settimane da inondazioni ed alluvioni, hanno provocato un cortocircuito di percezioni contrastanti: acqua in quantità insufficiente vs acqua in eccesso. Questa contrapposizione, evidenziata dai mass media, suggerisce implicitamente la natura oppositiva di questi fenomeni; che vanno, invece, letti in un approccio complessivo ed unitario. Proviamo dunque a svolgere qualche riflessione di “geografia del tempo” su questi temi.
I fenomeni che hanno colpito il territorio italiano negli ultimi mesi sono il frutto di dinamiche di lungo periodo. I cambiamenti climatici su scala globale, che stanno alla base dei fenomeni estremi cui stiamo assistendo, affondano nel passato. Immersi nell’affastellata ansia quotidiana delle “breaking news”, tendiamo a perdere di vista la dimensione della “longue durée”. Con questo termine, notoriamente, gli storici della scuola francese formatasi intorno alla rivista Les Annales (fra i quali Marc Bloch, Lucien Febvre e Fernand Braudel) hanno voluto gettare luce sui fenomeni di lunga durata, che devono essere presi in debita considerazione, nelle ricerche storiche, insieme ed al di là dei singoli eventi. Ecco, nei nostri discorsi sull’ecologia del mondo contemporaneo dobbiamo recuperare, ed assumere con piena coscienza, una dimensione di longue durée. Certo, qui non si parla di millenni, ma il concetto dovrebbe nondimeno suggerire l’esigenza di storicizzazione dei processi. Qualche esempio: il termine “effetto serra” è stato coniato dal meteorologo svedese Nils Ekholm nel 1901 (centoventidue anni fa); la prima conferenza mondiale sul clima risale al 1979 (quarantaquattro anni fa), il primo rapporto dell’International Panel on Climate Change al 1990 (trentatré anni fa).
I fenomeni che accadono sulla superficie terrestre hanno profonde inerzie temporali, che vanno calcolate di conseguenza. Come conseguenza di questa lunga durata delle cause, dobbiamo necessariamente prendere in considerazione la speculare lunga durata degli effetti. I regimi pluviometrici e le manifestazioni meteorologiche che si sono presentati negli ultimi anni contraddistingueranno ancora il nostro futuro a lungo, perché i fattori che sono alla loro base non possono essere cancellati in breve tempo. Le politiche di mitigazione (che hanno l’obiettivo di cercare di ridurre l’intensità e la portata dei fenomeni) e quelle di adattamento (mirate alla creazione di strategie di convivenza con questi fenomeni) che dobbiamo urgentemente adottare avrebbero sì – almeno nella migliore delle ipotesi – risultati ed esiti positivi, ma certamente non immediati. Le strategie di mitigazione, in particolare, sarebbero inevitabilmente ancorate sul lungo periodo.
Altra questione cronologica: i tempi di ritorno degli eventi estremi si stanno accorciando vertiginosamente. Con tempo (o periodo) di ritorno si intende l’intervallo temporale medio fra due episodi della medesima intensità (o di intensità superiore). Questo concetto è molto importante nel calcolo del rischio. Dobbiamo abituarci all’idea che gli eventi che ancora classifichiamo come “eccezionali” diventeranno sempre più frequenti ed intensi, e pertanto sempre meno eccezionali. Le nostre capacità progettuali per il futuro, sia in termini di politiche e di legislazioni, sia in termini di infrastrutturazione tecnica (si pensi anche alle reti fognarie, che si stanno dimostrando sempre di più un punto dolente nel governo delle acque), dovrebbero tenere in massima considerazione questa prospettiva. A complemento di queste osservazioni sulla geografia del tempo, vorrei proporre ora qualche riflessione più specificamente territoriale.
Ciò che è accaduto in Romagna nei giorni scorsi è il risultato di una complessa serie di fattori. Sicuramente si è verificata una quantità ed intensità di precipitazioni con valori record; fattore che sta alla base della eccezionalità di quella che, per riprendere un concetto di grande successo mediatico ai nostri tempi, può essere definita una “tempesta perfetta”. La retorica dell’eccezionalità, tuttavia, all’interno del sistema della comunicazione, può essere pericolosa, in quanto tende a suggerire un’idea di ineluttabilità, di inevitabilità; mettendo in secondo piano, se non proprio dimenticando, le conseguenze delle azioni antropiche da tempo portate avanti sui territori e, parallelamente, il ruolo che potrebbero assumere le opere di prevenzione.
Ciò che è si è formato nell’atmosfera (di portata eccezionale) è caduto poi su ciò ci si è formato nel corso dei decenni sul territorio (risultato di una strategia ripetuta ed ubiqua dell’azione antropica). È necessario infatti non dimenticare che tali eventi estremi dispiegano la propria devastante forza in un territorio che è stato profondamente trasformato dall’azione umana, con sempre maggiore invasività negli ultimi decenni. I corsi d’acqua sono stati rettificati, canalizzati, stretti in aree golenali sempre più ridotte, privati delle aree di esondazione naturali. L’urbanizzazione del territorio e il consumo di suolo hanno contraddistinto le evoluzioni territoriali degli ultimi decenni, spesso nel pieno oblio dei rischi che si sarebbero inevitabilmente corsi negli anni a venire.
Facciamo un esempio, utile per comprendere la correlazione esistente fra eventi all’apparenza opposti e contrastanti. La progressiva cementificazione del territorio, con la correlata impermeabilizzazione dei suoli, ha drasticamente ridotto la capacità di assorbimento delle precipitazioni da parte dei terreni. Questo fa sì che, in regimi di “normalità”, la ricarica delle falde idriche sia ridotta, e contribuisca all’acuirsi dei fenomeni siccitosi e alla carenza di risorse idriche. Parallelamente, durante gli eventi meteorici estremi, l’impermeabilizzazione dei suoli fa sì che lo scorrimento superficiale delle acque aumenti, sia in termini quantitativi sia in termini di velocità di corrivazione. Una causa, quella della copertura “sigillante” dei suoli, che si fa concausa di disastri di diversa natura.
Si accennava, poco sopra, alla scuola storica francese di Les Annales. Un esponente di questo gruppo, lo storico Ernest Labrousse, parlava della compresenza, all’interno della medesima società, di “velocità” diverse incarnate da differenti componenti. Compresenza sincronica di ritmi che lo storico sintetizzava nell’efficace formula: “Il sociale è in ritardo sull’economico, ed il mentale sul sociale” (citato in Jacques Le Goff, “Le mentalità: una storia ambigua”, in Fare storia, a cura di Jacques Le Goff e Pierre Nora, Torino, Einaudi, 1981). Senza voler semplificare questa interessante proposta concettuale in un automatico e cogente determinismo, la tesi rappresenta un’utile pista di riflessione per riflettere sulle conseguenze territoriali dei disastri climatici. L’economia è stata ed è un fattore veloce, trainante e dominante nelle scelte che portano a consistenti trasformazioni territoriali. Le società rispondono a questi sviluppi economici recependo tali trasformazioni e cercando strategie di adattamento e di riorganizzazione istituzionale, legislativa ed operativa. Il mentale, infine: la psicologia, sia quella individuale sia quella collettiva, possiede anch’essa – come l’ambiente – lunghe inerzie, è viscosa, tende a cambiare con ritmi molto più rallentati. Il modo in cui reagiamo psicologicamente a queste trasformazioni globali è però fondamentale per impostare le risposte sociali e politiche. Per questo motivo occorre cercare di riallineare le cronometrie sfasate di cui parla Labrousse, investendo nell’educazione ambientale delle comunità e nella crescita di consapevolezza. Oltre che in un’efficace e convincente rafforzamento delle attività e dei compiti delle istituzioni che operano per l’equilibrio idrogeologico del territorio (quali i Consorzi di Bonifica, le autorità di bacino distrettuali, l’Agenzia Interregionale per il fiume Po - A.I.Po, le agenzie regionali per la protezione dell’ambiente, le agenzie regionali per la sicurezza territoriale e per la protezione civile). In una prospettiva di “geografia culturale” (come suggeriva già il sottotitolo del libro di Vallega da cui siamo partiti), si tratta anche di potenziare la consapevolezza dei ruoli svolti da queste istituzioni, aumentando l’informazione e la trasparenza. Un esempio in questa direzione: la recente (gennaio-aprile 2023) mostra La Forza delle Acque, a cura di Carlo Mambriani, Dario Costi e Stefano Storchi, tenutasi a Parma presso il Palazzo delle Acque, dove hanno sede uffici di diverse di queste istituzioni.
Soltanto attraverso una rinnovata coscienza delle sfide ecologiche di fronte alle quali ci troviamo sarà possibile, per le istituzioni sociali e politiche, avere il consenso sufficiente per impostare strategie e tattiche, anche potenzialmente impopolari, che possano migliorare il governo territoriale in un periodo di sfide ambientali estreme.
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