Noi e il capitalismo

17 Dicembre 2024

Per quanto devastante, il capitalismo è superficiale e, come tutte le forme in cui si sono articolate le società umane, storico, e quindi destinato a essere superato. Delle sue crisi, come osservava Marx, si nutre. Sarebbe velleitario immaginare dove e come finirà, se sarà per qualche rivoluzione, un nuovo e questa volta terminale collasso del sistema finanziario o perché altre forme di organizzazione sociale si svilupperanno, magari nascendo da sette minoritarie come erano i cristiani che emersero nel tardo impero. Da qualche parte qualcos’altro nasce sempre ed è importante per ognuno di noi sapere cosa sia, che forma prende nella nostra sensibilità, come cambia e come resiste al capitalismo. Questo ci permette di osservarne i limiti, e in realtà siamo abituati a farlo. Se ad esempio in una qualunque città dove il turismo ha travolto un antico centro storico riempiendolo di vetrine di Starbucks e Mcdonald alziamo gli occhi di pochi metri, i palazzi ci restituiscono la vera storia di quel luogo. Vienna torna a essere diversa da Torino, Venezia da un aeroporto. Allo stesso modo, per quanto inondati da serie televisive per lo più dominate da serial killers, violenza sulle donne, insomma il cinema americano di oggi, basta leggere una poesia di Leopardi o Caproni per capire che l’arte è un’altra cosa e che questo tipo di intrattenimento, come le vetrine che mascherano il centro storico delle città, non sono nulla, il prossimo anno non sapremo neppure cosa fossero.

Ma è soprattutto in noi e negli altri con cui viviamo che l’attenzione al denaro e le sue dinamiche, spesso dominanti in certe stagioni della vita, si scontra con qualcosa che resiste: la vita erotica e spirituale, l’umanità, quello che siamo da soli e insieme. Sarebbe ipocrita non avere rispetto per chi contratta un salario o per chi cerca di negoziare un mutuo con una banca, ma se la vita si riduce a questo siamo nei guai. Uno psicanalista tedesco qualche settimana fa mi ha fatto una bella battuta: hai fratelli? Mi ha chiesto. E siete vicini o avete ereditato? Cosa è dunque che ci tiene insieme come fratelli? E perché può essere spezzato dal denaro? O come gli resiste? Cosa è l’altro dal denaro nelle nostre interazioni sociali?

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Questo è un tema frequentissimo nella letteratura, dalle commedie di Terenzio in cui viene parodiato il giovane che si innamora della schiava fino al desiderio di Re Lear di liberarsi del proprio regno dividendolo tra le figlie per avviarsi più spedito verso la morte, dalla briosa Serva Padrona di Pergolesi al Don Pasquale di Donizetti, fino alla ricchissima tradizione delle nostre maschere dove l’uomo anziano attaccato al denaro, Pantalone o Don Bartolo, è di solito una caricatura, un comprimario. Anche quando dà il titolo alla commedia, come in Sior Todaro Brontolon. I protagonisti positivi, quelli con cui si schiera Carlo Goldoni, sono sempre i giovani amanti e le donne.

Nella letteratura e quando nella vita ci troviamo di fronte a momenti importanti, l’innamoramento, la nascita di un bambino o la morte di una persona amata, il carattere degli esseri umani con cui viviamo riacquista un nitore che supera immediatamente le questioni economiche. Ammiriamo gli altri quando sanno superare l’orizzonte banale degli interessi e richiamano, con il loro sguardo più profondo e solido, anche noi a qualcosa di più alto, più serio, alle domande che pone l’esistenza, quasi docilmente costretti da una forza interna a un estraniamento dalle convenzioni, dalle abitudini e dai manierismi della nostra epoca. Come dice Marco Lombardo a Dante (Purgatorio XVI) per distinguere le influenze astrali da Dio: a maggior forza e a miglior natura/ liberi soggiacete. Così anche per il denaro, quelle che appaiono le pressioni inevitabili del denaro in realtà si dissolvono quando si scontrano con qualcosa che è più consistente e nostro.

Questo confine tra capitalismo e altro lo vediamo anche nella lotta politica: per eliminare un avversario si sottolineano quasi sempre i suoi interessi economici. Non solo la corruzione, a volte basta mostrarne l’interesse. Quando il profilo di un politico perde le connotazioni ideali, lo spessore umano, a definirlo resta solo il suo tornaconto e precipita non solo davanti ai nostri occhi, ma di fronte a tutta la nazione. Da paladini della destra o della sinistra questi protagonisti degradano subito in personaggi meschini come i parenti parodiati nel Gianni Schicchi di Puccini.

Questo ci è evidente sul piano privato: ognuno ha presto o tardi esperienza di una profonda obiezione a qualcuno per come lo ha visto comportarsi con il denaro e, in fondo, quell’obiezione ha la stessa radice della resistenza al capitalismo più astratta e politica. Anche senza fare progetti di società alternative, sappiamo avvertire quel qualcosa che in noi resiste, guarda oltre, legge con più finezza nei comportamenti umani, negli affetti e nella forza dei miti che sostengono gli orizzonti filosofici delle comunità. Questo altro mostra l’orizzonte corto del guardare solo nelle tasche, ricrea la prospettiva più ampia e reale con cui vediamo il mondo. Se non siamo bambini viziati, alla perenne ricerca di un nuovo giocattolo, prima o poi i limiti del consumismo appaiono evidenti anche ai piccoli consumatori.

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Per prendere il volo sappiamo che non ci si arricchisce ma ci si innamora, per innalzarci tentiamo di superare un lutto, leggiamo buoni libri per essere migliori, perché sappiamo che immaginare insieme a un poeta o un musicista mostra gli orizzonti ampi in cui si articola la vita, i luoghi in cui l’umano, come dice Nietzsche, riesce a cogliersi. È questo che cerchiamo nella lettura.

Di questo scontro quotidiano tra noi e il capitalismo siamo tutti attori. A volte pare che la nostra civiltà, dagli ospedali alle università alle case editrici, sia solo governata dal denaro. Invece quel qualcosa che obietta sempre ci ricorda che negli ospedali si curano le persone, nelle università si disciplinano e trasmettono i saperi, nelle case editrici si cerca di pubblicare quel che fa attrito con il proprio tempo e coltiva l’umano.

Essere umani alla fine è proprio una questione di resistenza. L’illusione di essere sollevati dalle nostre difficili condizioni storiche attraverso la ricchezza ci si avvinghia alle caviglie come un serpente, ma non sentiremmo il disagio, la falsità di questa promessa e il dolore della nostra condizione se non ci fosse qualcosa che invece guarda in alto, che nell’altro, umano, animale o albero, vede vita. Che nelle terribili guerre e distruzioni in giro per il pianeta non riconosce nell’interesse che alimenta il male il vero disastro. La cupidigia dell’industria petrolifera o di quella delle armi. Riconoscere invece un noi che include alberi e fiumi, gli altri, il cielo e la terra vuole al contrario la fine delle guerre. Perché alla fine il capitalismo, che nasce come lotta alla povertà, si riduce a questo: la povertà. Guardiamo così le lotte dinastiche delle grandi famiglie di capitalisti come storie di grande infelicità, mal mascherata da case di lusso e barche costosissime, ma sostanzialmente storie di povertà assoluta, propaganda per la povertà di bambini che non possono essere consolati neppure da una navicella per andarsene su Marte.

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