Sciuscià, i bambini del dopoguerra

14 Luglio 2024

Nell’introduzione al suo libro Sciuscià (Einaudi, pp.312, € 27), Bruno Maida si chiede se avesse ragione Alexandre Dumas, il suo autore preferito da ragazzo, quando diceva che i libri di storia li leggono solo gli storici. La domanda è oziosa, le cose come i libri esistono e basta, come dice Montale delle poesie, sono ossi di seppia che si raccolgono sulla spiaggia. Non ci si dovrebbe chiedere chi leggerà quello che si scrive, come non bisogna chiedersi a cosa serve una conchiglia, un albero, un tramonto. Se esistono davvero, e non sono solo esercizi che hanno un secondo fine (la carriera accademica, il successo, il consenso ecc.), trovano e si fanno trovare. La poesia non è quasi distribuita, non ha scopi, editorialmente ha vita certo più difficile della storia, ma si può immaginare un mondo senza poesia?

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La domanda di Dumas non è però così inutile e man mano che ci si inoltra nella lettura del libro di Maida, nutritissimo di narrazioni, assume nuove sfaccettature. Nel riraccontare certi estratti di film c’è adesione, compassione, e persino le informate disamine dei dati sulla povertà e l’abbandono non hanno la freddezza dell’oggettività, sono offerte al lettore con una prosa partecipata che si guarda dal sentimentalismo, che è una seria minaccia al materiale di questo libro, senza però per questo mancare di emozione. Cos’è allora la storia di fronte alla letteratura e la letteratura di fronte alla storia? Ammesso che una distinzione sia possibile, il romanzo e la poesia sono ciò che è respinto dalla storia. Proibito per ragioni politiche, rimosso per traumi personali e spesso per le due ragioni mescolate insieme, il letterario è qualcosa che rinasce dall’interno, come dice Seamus Heaney, ritorna. Si ripresenta come metafora, invenzione, cattura non solo in quel che dice ma soprattutto in quello che non dice. Al tempo stesso la poesia e il romanzo hanno qualcosa che li salva dal corrivo, come se quelle parole fossero le uniche a non stare per qualcos’altro, sono appunto ossi di seppia che possiamo raccogliere sulla spiaggia. Da questo punto di vista anche nel libro di Maida, come in ogni libro, c’è qualcosa di trascorso, il periodo ‘43-‘48, che preme per ritornare alla nostra attenzione. La storia, al contrario della letteratura, deve però essere legata in modo trasparente ai fatti che descrive, tentare di ricucire il tessuto che è stato lacerato dagli eventi, in questo caso la Seconda guerra mondiale con la distruzione e il dolore di cui siamo tutti figli e nipoti, deve poggiare su dati e ricerche, sforzarsi di essere lucida, chiara. Se vogliamo sapere qualcosa ci rivolgiamo a uno storico, spesso proprio per superare la parzialità emotiva che è stata suggerita da uno scrittore. Senza il lavoro di storici e critici, non sarebbe possibile capire perché un’epoca si è rappresentata in un certo modo, cosa non aveva capito di se stessa e dei propri autori, perché li ha dissipati, usando la bellissima espressione di Roman Jakobson. Ogni epoca cerca attraverso ricostruzioni storiche la propria contemporaneità, come dovesse riscattare qualcosa dal passato. A proposito della Meloni, la battaglia infinita è sul fascismo storico, le sue tragedie, l’orrore del suo riaffiorare in certi slogan e atteggiamenti. Non si riesce mai a parlare del presente, siamo sempre una frana di cose accadute tra cui vorremmo districarci e la storia pare avere gli strumenti per farlo. Almeno così pare. In realtà non è mai chiaro cosa davvero sia stato perduto, un po’ come l’infanzia nella consapevolezza di un adulto, il tempo passato riaffiora in un verso, e anche così non è chiaro, e alla fine è un romanzo, un libro di storia, le cose stesse che si sono accumulate in una vecchia casa, la rovina ai piedi dell’Angelo di Paul Klee in Angelus Novus di Benjamin.

Chiunque scriva romanzi si ripete le domande cui accenna Maida, e non dobbiamo arrivare a una conclusione. Se mai è utile che animino, come in Maida, uno stile.

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Queste disquisizioni, appena accennate nell’introduzione, sono in realtà preliminari, Bruno Maida tenta di schermirsi da un potenziale romanziere e dalla esuberanza narrativa di quegli anni. Zavattini diceva del cinema neorealista che era come se tutti dovessero fare comizi, essere in piazza a dire, e in effetti non è tanto il numero dei film e dei romanzi prodotti in quegli anni a colpire, quanto la straordinaria pregnanza che hanno, radicati come sono in un passato recente, condiviso e tragico. 

Questa prima rivisitazione delle narrazioni fatte in quegli anni, con più attenzione al cinema che alla letteratura, è molto utile per capire quali fossero i dissensi e le differenze tra i diversi protagonisti del neorealismo, le tante sfumature che opponevano tra loro i diversi registi, autori, intellettuali. Le diffidenze reciproche erano immagino anche dovute a un desiderio di distinguersi, quasi quell’epoca parlasse con prepotenza attraverso voci che finivano con il confondersi artisticamente le une con le altre.  L’uso delle colonne sonore e un dominante patetismo che inevitabilmente colora tutta la stagione artistica.

A difendere dal melodramma in Maida è al lavoro, e molto bene, lo storico: utilizza dati, pensiero critico e tanta attenzione ai racconti di quegli anni e riesce a proteggersi in questo modo da una eccessiva passività nei confronti del materiale che ci presenta. 

Ci sono due domande fondamentali che animano il suo libro: la prima è cos’era l’infanzia tra il ’43 e il ’48 del secolo scorso. Questa domanda è il tema annunciato nel titolo. La seconda, che appare in conclusione parlando dell’Iran ma è una specie di contro-testo che lavora all’interno di tutto il libro, è se gli strumenti attraverso cui abbiamo compreso e in gran parte debellato la povertà infantile, siano applicabili oggi al resto del mondo. 

Le conseguenze della guerra in Italia sono state terribili, 200.000 bambini abbandonati, spesso senza casa. È l’immagine che affiora in Filomena Marturano quando nel suo splendido monologo spiega che la sera quando si va a dormire c’è una folla. L’Italia è un paese di orfani. Qualcosa di simile l’ho incontrato da adulto quando ho fatto alcune lezioni in Georgia, una quindicina di anni dopo la guerra dell’Ossezia. Avevo in classe tanti orfani. 

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Il libro ricostruisce in una prima parte con una prosa fluida che raccoglie materiali diversi le condizioni tragiche dei bambini italiani in quegli anni e il tipo di racconto che se ne faceva. Sulle condizioni non possiamo non ritrovare nell’Italia di allora le immagini che ci sono sempre familiari, dall’Iraq alla Siria, da Gaza all’Ucraina. Dove c’è guerra ci sono orfani, abbandoni, la società viene messa alla prova, tirata per le maglie e ovviamente i fragili cadono, non hanno più adulti a cui riferirsi, non solo i genitori o qualche zio o nonna, ma neppure un luogo sicuro dove andare a dormire o a mangiare, alla fine non c’è proprio più nessuno. In quegli anni, come dice il questore al parroco che vuole costruire una città dei ragazzi in Proibito rubare di Comencini, le istituzioni o non ci sono affatto, o sono comunque insufficienti ad assorbire la strada. Nel riformatorio si riescono a ospitare pochi bambini a confronto di quelli che avrebbero bisogno di un riparo, e il riformatorio è una prigione, non un oratorio. I bambini vengono continuamente rimessi in strada a procurarsi da mangiare come possono, dove possono, sconfinando naturalmente nella malavita. Ma neppure i delinquenti hanno strutture dove metterli. Totonno, che nel film di Comencini è il ladro, promette ma non è in grado di mantenere le sue promesse ai bambini abbandonati, alla fine scappa per conto suo. Li sfrutta occasionalmente ma oltre a essere caratterizzato come uomo odioso, è debole. Il confine tra bisogno e malavita viene mostrato anche in Comencini come in De Sica poroso, quasi fosse inevitabile che dall’uno si finisca nell’altro. In fondo è la stessa tesi affidata al questore, il riformatorio è una prigione ma anche l’unico riparo. Maida ci racconta lo sforzo di tante associazioni, religiose e laiche (molte legate al PCI), ma il vero Davide contro Golia sono le dimensioni della sconfitta. 

Nelle narrazioni di quegli anni, da una misericordia per altro a volte piuttosto generica per le condizioni di questi bambini e spesso intrisa di sentimentalismo, nasce un desiderio di autorigenerarsi dell’Italia sconfitta. I bambini, vittime e innocenti, sono redimibili. Sono loro l’Italia che verrà. Se in Ladri di biciclette Antonio Ricci, il padre, alla fine ruba, è Bruno, il figlio, a salvare. La pietà del figlio per il padre e di quelli che hanno acciuffato il padre per il bambino, sono un futuro. Un’Italia che attraverso il lavoro onesto di Bruno alla pompa di benzina promette di rialzarsi, con un misto di idealizzazione, commiserazione, conflitto sociale, e naturalmente sentimenti. De Sica è un grande narratore e ha in mente una costruzione drammatica, con i climax e gli epiloghi, l’uso sapiente di ironia e agone, insomma il film non è e non vuole essere un documento. Anche lui però, come tutta la generazione, riporta il cuore del discorso all’infanzia. Molto appropriata è la scelta di Maida di introdurre a questo punto una sezione che discute a questo punto la semantica del bambino, la storia della parola sciuscià, i suoi incroci con scugnizzo. C’è quasi un ritorno del tema pascoliano del fanciullo ma vestito di stracci, privato di ogni protezione, che rimane il catalizzatore dello sguardo della generazione.

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La domanda iniziale che opponeva opera artistica e storia, che accompagna tutto il libro di Maida anche quando guarda quadri, altre opere letterarie e il cinema, è destinata a restare aperta. 

Il cuore del libro è la rivisitazione dei racconti e le condizioni degli sciuscià. L’Italia è figlia di quelle condizioni drammatiche. Non si tratta di indicare colpevoli, la storia è una tragedia che dura da diecimila anni, come dice il sottotitolo di La Storia di Elsa Morante. I bambini, come Useppe, sono l’umano che si trascina tra queste rovine. 

A Maida è stata affidata una cattedra dall’Università di Torino con un nome bellissimo che sembra un romanzo: Storia dell’infanzia, La prosa fluida e la ricchezza di materiali che ha raccolto in questo libro,  molto piacevole alla lettura, mostrano quanto fecondo per i suoi studenti debba essere lavorare con lui. 

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