Calvino e il sorpasso di Berlinguer
A distanza di 49 anni l’articolo commissionato e mai pubblicato dalla New York Times Review of Books (Il sorpasso, Mondadori, pp. 115) viene riproposto oggi ed è forse più interessante di quanto sarebbe stato allora. Non solo per quello che scrive Calvino, ma per l’approfondita critica che ne fa Bob Silvers che gli aveva commissionato un resoconto delle elezioni del giugno del 1976, quando il PCI arrivò quasi a sorpassare la DC con il 34% dei voti. Nessuno dei due sa molte delle cose che sappiamo noi oggi e le domande che indirettamente pongono a noi, i loro posteri, sono estremamente attuali.
In quel momento, Italo Calvino ha del tempo a disposizione: non è impegnato in un nuovo libro, non deve lavorare né per Einaudi né per altri e può prendersi molta cura nel presentare la situazione italiana. Questa cura negli anni settanta si sarebbe chiamata lo stile, oggi la chiameremmo piuttosto la lingua in cui scrive, che è arricchita adesso anche dalla frequentazione quotidiana del francese ed è chiara, trasparente, ha una qualità paragonabile ai grandi classici della letteratura antica, scevra di manierismi e ammiccamenti. Paradossalmente, se ha tempo per redigere, non ha quasi più il tempo per dire quello che vorrebbe, e questo aggiunge alla sua prosa una magnifica passione civile. Leggerlo è un piacere grandissimo, come del resto spesso accade quando Calvino, che amava anche sperimentare con l’architettura e la voce nei racconti, si affida piuttosto a qualcosa che gli arriva da lontano e pare non avere un’epoca di appartenenza.
Ma di storicità queste pagine ne hanno invece moltissima, perché l’oggetto è così vivo e controverso che si crea quasi un doppio binario, che è l’attualità di questo testo, tra il pubblicare e il non pubblicare, tra il narratore che con la lingua inventa e crea e il cronista, che parla di cose note a molti e le condivide, le illumina, le illustra e inevitabilmente in questo modo incappa nei nodi irrisolti e irrisolvibili della propria epoca. Un dilemma simile a quello di Se questo è un uomo, dove scrittore e testimone si fondano e si scontrano in Primo Levi senza che sia mai chiaro, né a lui né a noi, quale dei due sta scrivendo davvero. Se a parlare sia la costruzione del libro, la caratterizzazione dei personaggi, l’alternarsi di parti diverse, l’evoluzione di climax e di un’anima, tutti quegli elementi insomma che sono propri dello scrittore di un libro, o al contrario, la drammaticità dell’essere sopravvissuti, l’essere testimoni, vadano oltre la scrittura, facciano di Se questo è un uomo una cosa a sé.
In modo analogo anche in questo articolo c’è un buco, quasi una rimozione, che ci dà oggi un testo che Calvino, al culmine della propria reputazione, nasconde. Sentiamo un disagio, nonostante la brillantezza espressiva sui gravi guai che ci riguardano tutti ancora oggi, che è la spia di una crisi della sinistra che sembra non finire mai.
Dopo aver letto le obiezioni di Bob Silvers al testo che gli ha inviato, Calvino infatti rinuncia, dice di non essere abbastanza competente in economia, di essere un narratore, non adatto a scrivere il testo che di fatto ha già scritto. Detto altrimenti: che la storia e la realtà lo lascino in pace. Ma questo non è possibile, e il testo che gli sopravvive lo racconta.
Nonostante vivesse a Parigi da nove anni, Calvino è rimasto profondamente ancorato alla politica e alla società italiana. C’è una distanza, ma anche una più intensa consapevolezza. Ha lasciato il PCI nel 1957, dopo l’invasione russa dell’Ungheria che, come accenna nella postfazione a I nostri antenati del 1960, è il contesto di Il Barone rampante. Si è tirato fuori da una militanza dal PCI, ma non da quello che il comunismo è stato per lui. Nell’articolo mandato a Silvers è chiaro che le reticenze e le omissioni che gli vengono contestate hanno radici sentimentali, emotive; sono àncore di vissuto che gli impediscono di prendere il largo con la fantasia come gli è riuscito in tante opere, soprattutto da Il Visconte dimezzato (1952) in poi.
Appartiene a una società letteraria e a un’Italia che si è evoluta (ma verso dove?) dall’idealizzazione del pauperismo che è nel cuore della tradizione cristiana e di quella comunista. Non solo i deputati comunisti rinunciavano allora a una parte dello stipendio che veniva versato al partito, era il consumismo, l’avere denaro e spenderlo, che era considerato un’influenza americana. Questo è il nocciolo strategico del piano Marshall. La vera fine del comunismo, non solo in Italia ma anche in Cina dove settecento milioni di persone vengono tolte dalla povertà, è che una volta che le persone non sono più schiacciate dalla fame, vogliono comprare automobili sempre più belle, dall’utilitaria si passa al pick-up, da un cencio qualunque pur di coprirsi vengono desiderati articoli firmati da designer. La seconda fase del comunismo in altre parole non porta a una società più giusta di uguali, al contrario sfocia in un individualismo acquisitivo difficile da distinguere dal consumismo capitalista. Calvino vi accenna in un’intervista televisiva dicendo che non si può dar via la roba, con un buon senso ligure che prevale sul dogmatismo del Partito. Capisce che dunque altre cose si sono mosse nei trent’anni del dopoguerra che affiancano la severa onestà proclamata dal PCI.
Scrive ad esempio che Berlinguer ha accettato a malincuore il referendum sul divorzio. Come Nanni Moretti nel suo ultimo film, vorrebbe con il cuore che il PCI si fosse schierato contro l’invasione sovietica dell’Ungheria, ma è consapevole del fatto che questo non è avvenuto. Questa è una lacerazione che la storia di quegli anni non ricompone. Al contrario, è una ferita aperta. Spara così facili bordate contro la Democrazia Cristiana accusandola di essere la corruzione, il malcostume, il cardine dell’arretratezza del paese e vede una virtù diffusa nella società italiana che ha due punti di riferimento che appaiono lungimiranti: l’Europa e la progressiva autonomia delle regioni dove si va diffondendo una democrazia lontana dal centro, merito essenzialmente dei governi locali prevalentemente in mano al PCI. A quest’ultimo punto Bob Silvers obietterà che di fatto la spesa a disposizione delle regioni è passata dal 14% degli anni ’50 al 2% degli anni ’70. Sull’Europa Calvino non approfondisce, ma anche qui sarebbe facile obiettare (e basterebbe guardare l’evoluzione politica di Altiero Spinelli) che l’Europa è opera dei socialisti europei molto più che dei comunisti, e che l’Eurocomunismo resta un fatto italiano.
Anche qui la lacerazione non cicatrizza in alcun modo: Calvino vorrebbe che il PCI fosse svincolato da Mosca, un po’ come Berlinguer è presentato nel recente film di Segre, ma questo semplicemente non è vero, e Bob Silvers è preciso nel ricordare come i finanziamenti che provengono dal patto di Varsavia non si sono mai fermati. Questo naturalmente ridimensiona anche la famosa diversità morale tanto rivendicata dal PCI, che come ricordò Craxi in parlamento, poteva essere estraneo a Tangentopoli solo perché prendeva una sostanziosa tangente tutte le volte che si svolgevano transazioni economiche nell’Est Europa. Sarebbe interessante saperne di più perché alcuni di questi rapporti, come ad esempio le fabbriche costruite dalla Fiat come l’AutoVAZ, sono consistenti, ma anche senza questi dettagli è chiaro che le donazioni volontarie dei militanti e il rigore morale non sono in grado di reggere all’evoluzione di una regione come l’Emilia Romagna, dove la politica innerva, cresce e si accresce in anni floridi e in una regione molto ricca.
Di fronte a queste obiezioni di Bob Silvers Calvino tace e alla fine si ritrae dal compito di scrivere l’articolo, dice di non avere sufficienti competenze economiche, lui è un narratore. Oggi sappiamo che le tesi di Bob Silvers, puntute e quasi aggressive, sono gravide di non detti, soprattutto per quanto riguarda Stay behind e i miliardi che transitano per le mani di Licio Gelli e che finanziano le stragi di quegli anni, eseguite quasi sempre da manovalanza dinamitarda fascista, ma con una regia americana. E siamo due anni prima dell’omicidio di Aldo Moro. Silvers si presenta insomma come se la buona democrazia diffusa dagli americani in giro per il mondo corresse dei rischi con il PCI, e chiedendo a Calvino l’articolo sembra cercare un avvallo da un importante scrittore italiano.
Ma le titubanze di Calvino sul comunismo hanno radici più profonde di quello che può vedere Silvers e ci riguardano drammaticamente anche oggi. Emerge in queste pagine un’Italia che è quella che vorremmo e per cui moltissimi votavano allora PCI. Analizzare in che modo la promessa di uno schieramento solido, serio e progressista abbia fallito nel materializzarsi e abbia fatto fatica persino nel darsi una fisionomia, passando attraverso infinite ri-nominazioni, nuovi partiti, rimescolando nuove alleanze e diverse generazioni, è impossibile anche per Calvino. Il futuro gli è ovviamente ignoto, ma persino la possibilità di indovinarlo è resa opaca dal volerci trascinare tutto. La sua adesione a un’Europa plurale è democratica e convinta, ed è ulteriormente maturata in Francia. Si scontra però in lui con la militanza partigiana che è stata sacrosanta, ma è stata comunque un fatto di guerra, certamente radicata in un comunismo molto più sovietico di quello che Calvino voglia ammettere. Una rivoluzione mondiale, che includeva Cuba e uno sguardo sul mondo, e che purtroppo è anche una radice delle Brigate Rosse. Ha scritto pochi anni prima pagine memorabili per la morte di Che Guevara, ma delle BR non riesce a non dire che sono stranamente ricorrenti in periodi elettorali, insinuando in questo modo che siano manovrate. Cosa che piacerebbe anche a me, per salvare l’idea di una sinistra ampia e progressista, che nulla ha a che fare con il terrorismo. In fondo sa che i terroristi sono semplicemente, ieri come oggi, rivoluzionari a cui va male.
Non credo di aver conosciuto personalmente dei terroristi, sono cresciuto culturalmente a sinistra, ma distante da loro. Li ho detestati non solo per la violenza ma per la loro strategia, che costrinse la società italiana ad allinearsi su massimalismi arretrati e alla fine della fiera con l’alienare gli italiani dalla partecipazione alla vita democratica (sono impressionanti le percentuali di voto in quegli anni!). Condivido quello che scrive Calvino nell’articolo, i loro erano ideologismi confusi, certo non all’altezza di quello che si pensava in altre parti della società italiana. Ma scaricarli come non fossero parte della difficile storia della sinistra, soprattutto per chi ha scritto Il sentiero dei nidi di ragno, non è possibile. C’erano probabilmente alcuni brigatisti manovrati o semplicemente utili idioti, come appaiono in Il cavaliere e la morte di Sciascia, ma c’erano. Erano pochi, Curcio dice 900, forse anche meno. Emergevano da realtà socialmente difficili, meno protetti da case editrici e università dove abitava con un certo agio l’orientamento progressista di Calvino (e certo anche il mio). Basta leggere il bel libro di Culicchia che ho recensito per Doppiozero, con il suo utile e asciutto riassunto dei fatti, per farsene un’idea. Calvino lo sa; già da partigiano è stato consapevole di personalità e circostanze brutali, e questa è un’eredità difficile.
Non so se sia questo il nodo che lo fa ritrarre dal completare l’articolo, o un altro. Certo è che il contrasto tra quello che a sinistra avremmo sempre voluto essere la nostra storia e il modo in cui inevitabilmente questa si è articolata, in alleanze non desiderate (URSS) o in comportamenti criminali marginali (BR), rendeva allora e rende difficile oggi guardarla in faccia. Purtroppo, siamo anche questo e dobbiamo portarcelo dietro. Forse ha ragione Elsa Morante, la Storia è semplicemente una tragedia e se si corre il rischio del qualunquismo e della passività nel ripeterlo, per uno scrittore non è possibile non distinguere le opinioni, che cercano coerenza e con cui si aderisce al proprio tempo, da una materia più grave, più contraddittoria. Quello che siamo. Per fortuna l’articolo che ha scritto ci è arrivato e anche se non dirime le domande che gli sono state poste, è più prezioso di qualche dichiarazione d’intenti elettorali. La storia che racconta non è solo quella che scrivono lui e Bob Silvers, ma come oggi li leggiamo.
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