La condanna al dolore

1 Novembre 2024

La condanna al dolore, così centrale nella cultura giudaico-cristiana, da cui nasce e di cui si nutre La Storia di Elsa Morante, percorre una frontiera morale molto difficile: se non c’è altro che sofferenza, la distrazione è una colpa, ma è anche l’unica boccata d’aria fresca. È il ruolo che lei affida ai giovani e ai bambini. Simmetricamente essere adulti significa addentrarsi nella vita e affrontare i conflitti: di classe, di genere, di età, alla fine la guerra, con i suoi stermini e le sue persecuzioni. La guerra che, come ricorda Mordo Nahum a Primo Levi in La tregua, è sempre. 

Così Ida non può mai mollare, mentre Nino e Useppe devono crescere. Per Elsa Morante la contrapposizione è netta e non ci sono mediazioni. Il mondo era salvato dai ragazzini e, come Pasolini, elemosinava la grazia attraverso il proprio dolore. Circondarsi di ragazzi era circondarsi di speranza. L’oscillazione tra le età segue in realtà percorsi diversi negli individui e nelle culture europee e orchestra l’impegno e la distrazione in modo più irregolare. Se da un lato una concentrazione di consapevolezza, una coscienza del mondo, delle cose, di se stessi dà l’illusione di constare, dall’altra l’inconsapevolezza, la leggerezza, la distrazione sono anche il veicolo, attraverso il lapsus e il sogno, dei contenuti più difficili. Rimproveriamo a volte un adulto dicendogli non fare il bambino, e simmetricamente prendiamo in giro un bambino se si dà arie da adulto, ma in realtà difendiamo noi stessi dalla nostra infanzia, giovinezza, maturità e vecchiaia. Sono le responsabilità sociali a dividere in noi le età, rispondiamo a delle aspettative diverse a seconda dei contesti in cui siamo inseriti, la scuola, il lavoro, i compagni di classe, il matrimonio e la paternità, la solitudine. In profondità siamo invece sempre tutta l’esistenza, e non solo la nostra. Come Shakespeare fa dire al Duca di Vienna a Claudio in Measure for measure, thou art nor age nor youth, but as it were, a midafternoon sleep dreaming of both. Non sei né vecchiaia né giovinezza piuttosto un sonno pomeridiano che sogna entrambi. 

Uccidere in sé la propria infanzia o non prendere sul serio il senso del destino di un bambino porta a diventare caricature di se stessi. In un eccesso di coscienza si può annidare un narcisistico e lugubre monolite morale, un sé non scalfito dalle vicende degli altri, freddo di fronte alle loro attrattive, alla sensualità, all’umorismo. Così come rifugiarsi sempre nella battuta rischia di isolarci in un’eco del mondo. Rispondere piuttosto che dire. 

Da qualche parte in noi invece infanzia, maturità e vecchiaia si intrecciano più fittamente facendo del nostro essere al mondo un alternarsi di attenzione e disattenzione, di partecipazione e alienazione. Tragico e comico non dipendono così da qualcosa di privato e anzi, quando ci si accanisce a voler essere l’uno o l’altra cosa si rischia di diventare prigionieri dei propri manierismi, di essere sempre tristi o troppo simpatici, di falsificare i propri umori per timore di ritrovarsi nell’altra parte di sé. Come diceva Erasmo, abbiamo invece bisogno della stupidità. Di lasciare la presa, di stupirci. Infatti, piuttosto che legare all’indole personale di ognuno il carattere, sarebbe più utile vederne la dinamica tra gli altri perché tristezza e allegria sono fiumi che percorrono i nostri territori, le nostre culture. Nelle arti e negli umani. Il pentimento e il perdono dei cattolici o la responsabilità individuale che non indulge nel perdono del protestantesimo, l’implacabile ira di Dio dell’antico testamento che butta giù torri di Babele, chiede ad Abramo di ammazzare il proprio figlio o perseguita il povero Giobbe, a cui l’ebraismo risponde con sottomissione e ironia. E naturalmente l’Islam, la Cina, tutto il mondo perché quando impariamo a conoscerlo e riconoscerlo cresce la nostra umanità, che è sempre inclusiva, aperta, quando non rincula nella guerra. 

Le differenze naturalmente ci sono e sono profonde, ma non appartengono in modo esclusivo agli uni o gli altri, si mescolano prima di scismi, concili e pogrom in ogni cultura. Nascono dalla stessa fonte e si riflettono reciprocamente. Non c’è protestantesimo senza cattolicesimo, non c’è cristianesimo senza Bibbia e così via, non tanto in discussioni teologiche che sono davvero difficili e lo sono sempre state, ma nella morale spicciola di ogni giorno. Ci chiediamo anche senza una religione: colpa o non colpa? E chi è che mi chiede dov’è mio fratello se non do una voce a Dio? Sono questi i termini del nostro andirivieni morale quotidiano, non la teologia. Come ricorda Adriano Prosperi nel suo libro su Lutero, chi potrebbe mai aver letto, ammesso che siano davvero mai state affisse sulla porta della cattedrale di Wittenberg, le 95 tesi di Lutero? Un professore universitario che faceva lezione dalle 6 alle 9 di mattina? E ovviamente c’è poi la politica, e cioè il modo in cui queste regole, radicate in miti antichissimi, diventano il collante di comunità grandi e piccole fino all’Illuminismo, che con la separazione tra stato e chiesa, rende arbitrarie le ortoprassie delle religioni. I digiuni e le norme sulla sessualità, che sono le prime a saltare, ma soprattutto le tasse, il diritto, le proprietà immobiliari, cose molto concrete che, una volta sottratte (e mai del tutto) alle religioni, rendono infinitamente astratta l’idea di Dio e metaforico il significato delle diverse narrazioni che lo esplicano tra gli umani.

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L’unità metafisica e culturale promessa dalle religioni resta tuttavia un richiamo potente a cui si appellano spesso le destre dell’occidente. Dai seguaci di Trump nel bible belt, al rosario di Salvini in Piazza Duomo. La radicalità morale resta al centro di tutta la società, anche a sinistra. È nostalgia dell’unità, di una presenza postulata prima della ragione, del redde rationem intellettuale, e che si oppone alla progressiva e inevitabile liberazione dalla sofferenza che il capitalismo promette attraverso i consumi o, come diceva Marx, del feticismo delle merci. Ci si abbarbica nella religione come a un antidoto all’illusione che l’individualismo acquisitivo sollevi dalla condanna al dolore. Viviamo comprando cose, vacanze e via dicendo, e contro questa dissipazione alcuni si affidano spiritualmente a un pastore, che alla sera prometta di riportare nell’ovile. 

Messa così, la faccenda è davvero complicata, prima di tutto politicamente, e cioè per quello che riguarda la vita che viviamo insieme. Il richiamo alla religione, in Trump e Salvini, rischia di scontrarsi con l’invito ad arricchirsi e quindi si annacqua in un più generico appello identitario. Rendere di nuovo grande l’America! Siamo italiani! 

Siamo al contrario e ovviamente tutti figli di migrazioni e da sempre, soprattutto i cristiani che ereditano dall’Impero Romano un’idea di stato sovranazionale che ne è anche oggi la vera cifra politica. Ma un po’ come la fede, l’identità nazionale viene proposta in modo antistorico, per gli italiani probabilmente legata al Risorgimento, che nella storia della nostra penisola è un episodio, bello quanto si vuole, ma molto recente, mentre per gli americani ha qualcosa di davvero assurdo perché l’America di oggi è figlia di continue migrazioni come nessun altro luogo al mondo. Sono affermazioni contro la realtà che conosciamo, viviamo, in cui siamo immersi.

Il vero richiamo che si mescola alla fede nelle destre europee e americane è piuttosto al denaro. Quello che in inglese si chiama disposable income, cioè denaro che si può spendere (contrapposto a proprietà immobiliare, che mostra come in realtà il teatro anche economico è in noi stessi). Il modello delle democrazie è del resto, anche nelle versioni social-democratiche europee, comunque individualista e acquisitivo. Si realizza se stessi con il successo. Già dalla scuola si insegna ai bambini a non copiare, a non suggerire, a fare le cose da soli e con la propria testa e così via per tutti i percorsi di formazione fino al proprio credit score, e cioè il diritto al credito con le banche che determina se potremo comprare casa. Il diritto al credito è sempre individuale e le gratificazioni che vengono dalla società riconoscono prima di ogni altra cosa il denaro accumulato e se mai il talento individuale. Dire oggi di qualcuno che è un buon padre o una buona madre, o un buon amico, sembra una concessione che si fa al suo scarso successo sociale. Sì, va beh, ma è una buona madre/padre/amico! Quasi una scusa, e il tono con cui lo si dice è persino più eloquente del contenuto. Fino al boom economico degli anni sessanta e per i primi anni dopo l’improvviso arricchimento delle classi medie, le famiglie contrastavano questo modello con il nepotismo e la ridistribuzione, i prestiti all’interno della famiglia, una moralità che premiava l’appartenenza (geografica, ideologica, familiare) un po’ ovunque, di stampo quasi mafioso. Con una compagine di protagonisti della destra sia in Italia che in America dove le famiglie sono addizionate nella monogamia seriale, i figli nascono dentro e fuori dal matrimonio, è difficile immaginare che ci sia davvero da qualche parte nostalgia per questo tipo di modello. Ma appunto, non sono destra o sinistra che qui si scontrano, sono piuttosto abitudini diffuse che premiano il valore dell’individuo spesso proprio contro quello delle comunità. 

Anche comunità è alla fine un termine astratto: Paul Ginsborg parlava per l’Italia di familismo amorale, o per dirla con Meneghello e il suo Veneto, che qualcuno frodasse lo stato con l’evasione fiscale a favore del proprio figlio e della propria famiglia era considerata una virtù, non una furberia malandrina. 

Il discredito della famiglia nasce in realtà all’interno della destra imprenditoriale, nelle lotte ereditarie che rimbalzano dalle aule dei tribunali alle cronache dei giornali fino agli sceneggiati televisivi, diffondendo un paradigma morale individuale, acquisitivo, che prima o poi diventa anche legislativo.

Le religioni non riescono in Europa o in America ad arginare la diffusione di questo modello. Si battono contro l’aborto, che al contrario ha innanzitutto abbattuto il numero delle donne che sono costrette a ricorrervi, ma soprattutto non riescono a proporre l’altro, la persona, l’umano concreto verso cui si articola la nostra umanità. Gli atti di carità, l’amore per gli altri. Se riuscissero taglierebbero facilmente le unghie al marxismo perché la persona al centro è sempre il cuore della faccenda. Marx era ricco di umanità, ma il comunismo ha finito con l’astrarre dalle contingenze materiali su cui si fondava la visione di un progresso umano attraverso il conflitto sociale, e si è ritrovato a parlare solo di futuro. L’altro, in senso umano, è certo più concreto della lotta di classe. Le destre imprenditoriali in questo modo hanno disinnescato la contrattazione salariale dei sindacati offrendo trattamenti individuali che promettevano condizioni che assomigliassero maggiormente al soggetto, ritagliando orari, flessibilità, maternità, paternità, lutti e via dicendo sulla persona. Di fatto il sistema, nel suo paternalismo, è precipitato nelle apocalissi della precarietà descritte da Ken Loach nel ritrarre una classe operaia ormai vastissima. E in realtà non più operaia, ma sostanzialmente sottoproletaria. E qui di Marx e dei sindacati non si può non avere una grande necessità. Persino nostalgia.

C’è naturalmente dell’altro, dalle avanguardie artistiche alla marginalità di chi è fuori dai meccanismi più stretti della produzione di ricchezza nel capitalismo, il nostro mondo è ricco di altra umanità, aperta, intelligente, creativa. Se c’è della speranza e della bellezza è sempre lì. Non è infantile, non è piagnona, ci sorprende sempre con le sue invenzioni. Purtroppo, attratta nella fame di nuove merci del capitalismo, tende a essere facilmente trasformata nell’ossigeno per il moribondo che alla fine siamo tutti noi, sul lettino delle malattie terminali. Ma intanto respiriamo, guardiamo fuori, cerchiamo di vivere.

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