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Come Josef K.

20 Maggio 2024

Come Josef K., neppure noi sapremo mai se qualcuno abbia effettivamente denunciato. Al cosa non arriveremo mai. Ci svegliamo con la polizia che cammina intorno al nostro letto, sospettiamo la vicina, o forse qualcun altro, ma il vero dramma è che non lo sappiamo e che Kafka non solo non ce lo racconterà, paradossalmente l’accusa nella sua imprecisione aumenterà il peso della nostra persecuzione. Intorno a un reato, se si va in tribunale, si alternano accusa e difesa e c’è un fatto, qualcosa che come tutto quello che esiste può anche non esistere. Si può scontare una pena, offrire scuse, riparare. Non in questo caso: siamo colpevoli, ma non sappiamo di cosa. Siamo, perché Josef K. non è un personaggio qualunque abbandonato a un intreccio che in fondo potremmo anche ignorare. Riscrive la colpa di Adamo, che vorrebbe poter scaricare la responsabilità su Eva, o persino su Abele e Caino, che sono le due facce della fratellanza, il mite e l’assassino. Josef K. potrebbe giurare sulla propria innocenza, ma qui siamo già troppo avanti, dove in realtà Kafka non vuole neppure arrivare, tanto che nel resto del romanzo si sottrae a consegnarci a una soluzione poliziesca. Non ci saranno ispettori Maigret o Marlowe a distinguere i buoni dai cattivi, nessuna consolazione, nessuna spiegazione. La colpa senza un dato di fatto, come poi spesso è paradossalmente la legge che interroga le prove, i fatti, cerca materialità, e in questo modo permette alla morale di gironzolare dentro Caino, cercando di sottrarsi alla domanda semplice e centrale che gli pone Dio: dov’è tuo fratello? 

Pietro Citati e Enrico Filippini avevano a loro tempo discusso di questo sulle pagine di Repubblica, quando uscì la biografia di Kafka scritta da Citati. La burocrazia è per Kafka un ordine teologico. In realtà, se le guardiamo da una prospettiva secolare, le religioni non sono altro che sistemi amministrativi. Il cristianesimo per quella che oggi chiamiamo Europa era il sistema fiscale, giudiziario, l’anagrafe, insomma quasi tutto quello in cui oggi identifichiamo lo stato. La cristianità. Il Talmud com’è noto è pieno di questioni infinite di ortoprassi (cosa bisogna mangiare, in che modo, come lavarsi ecc.). Regole che la secolarizzazione europea rende obsolete con la rivoluzione francese. Le tasse le paghiamo ad altri, il sistema legale ha altre fondamenta e codici, ognuno può lavarsi o mangiare come vuole. Lo stato è anonimo, non dovrebbe intervenire se non ci sono denunce. Ma allora cosa ci fa tutta questa polizia intorno al letto di Josef K.?

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La secolarizzazione apre una porta che ci libera dalle vecchie restrizioni religiose, e questo è ovvio alla generazione della bella époque anche più che ad altre. Charles Ephrussi come Arthur Rimbaud hanno altri problemi, non quelli della religione. Si possono finalmente prendere bonariamente in giro le regole che tanti nostri simili prendono così sul serio. Non mangiare carne il venerdì, astenersi da questo e da quello. Ma chi l’ha detto? Queste leggi sono convenzioni, hanno un valore all’interno di certe comunità ma non c’è nessuno stato civile che si azzardi a prescrivere diete o abitudini sessuali. I figli di Dio sono in realtà orfani dello stato, crescono in un mondo che li sommerge di divieti che non sono nulla e da cui, se vogliono, possono chiedere proprio l’intervento dello stato per essere difesi. 

Questo mondo senza Dio è allegro, borghese, è il mondo in cui Molly Bloom aspetta il suo impresario mentre il marito è in giro per la città, tra bordelli e funerali, o il mondo in cui Emilio Brentani discute con l’amico pittore Balli di Angiolina, di amanti e di sesso e se mai di ambizioni professionali. E anche Franz Kafka non appare mai indebitato o nostalgico dell’ortodossia ebraica, sia questa ortoprassi, comunità, teologia. È un impiegato praghese che si muove tra uffici e questioni risolvibili razionalmente, parlando con la persona giusta, quella preposta al caso in questione. Quindi qualcuno deve averlo denunciato, pensa mentre i poliziotti gironzolano per la stanza prendendo in mano ogni tanto qualche oggetto. Quell’intrusione, così intima, nella camera da letto, deve avere un’origine, può essere chiarita: se ha fatto qualcosa che lo si dica, ci sarà pure un incartamento da qualche parte che spieghi come si è arrivati a questo punto.

Perché se non c’è nessuna denuncia, se anche lo stato ha iniziato a riverberare nei suoi meccanismi come una religione obsoleta, se la colpa non trova un accusatore o un fatto a cui può essere ricondotta, di cosa stiamo parlando? Se lo stato fallisce in questa chiarezza, se non gli dicono di cosa è accusato, il potere potrebbe anche chiedergli di ammazzare Isacco, o buttare giù la torre di Babele perché gli umani si danno troppe arie, o scagliare sette flagelli sugli egiziani, o chiedere che Gesù sia condannato per gli uomini, o mandare giù un diluvio che ammazza tutti. Magari Eva non aveva offerto o assaggiato nessuna mela, un individuo come Dio a capo del Paradiso può essersi inventato anche quella storia per cacciarli e vedere gli umani che si perdono per le strade del mondo, ciechi, stupidi, condannati fin dall’inizio. Un bambino anche lui, altro che buon Dio, che gioca a tormentare una povera lucertola. 

Ma Josef K. ha fede in questo stato, cerca ufficio dopo ufficio di ritrovare il bandolo, come Ilaria Cucchi, come gli studenti della Diaz, come i migranti che affogano nel mediterraneo, come nei campi di sterminio o sotto le bombe a Gaza, come quando ci fanno una stupidissima multa per divieto di sosta e a noi pare ingiusta, perché eravamo dentro le strisce, nell’orario indicato dal cartello. Come Giobbe, che il suo Dio non lo abbandona nonostante si sia giocato il suo destino con Satana (che poi non è altro che un suo aspetto). Dalla colpa, dal dolore, dall’infinitamente punibile che siamo noi e che si esaurisce solo con la morte, Josef K. è convinto si possa, si debba poter uscire. A noi che leggiamo la sua vicenda ci è chiaro fin dall’inizio che, al contrario, l’unica cosa che davvero parla è questo grido umano contro l’ingiustizia, inascoltato, perso nel vento dei secoli e dei secoli, a cui non sarà concesso neppure di sapere chi lo ha denunciato e di cosa.

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