Dance first, passo di addio
Pavel Florenskij scrive in uno dei saggi raccolti in italiano nel volume Le Porte regali (Adelphi 1977) che le icone dei santi sono delle porte verso l’invisibile. Ognuno ha tanta o poca fede nel mondo che non vede (il futuro, il passato, la sostanza delle cose sperate). I santi sono coloro che hanno avuto una tale fede nell’invisibile che possono aiutare attraverso il loro volto ritratto nell’icona anche gli altri a entrare in questo mondo. Secondo Florenskij, la struttura architettonica delle chiese, e naturalmente le Iconostasi, hanno la stessa funzione.
Penso a questa idea di Florenskij guardando le fotografie che ho sulle mensole dello studio: una bella fotografia di Kafka, i miei figli e i miei genitori, Gianni Celati, Elsa Morante, Gigi Meneghello, Patrizia Cavalli, Klemens, Carlo, Tolstoij, Robert Burns, qualche riproduzione di quadro in cartolina, qualche vignetta, alcuni quadri. Sia per le persone che per gli scrittori amati, l’immagine è una finestra su un mondo che non potrei mai raccontare. Potrei mai dire chi è stata per me mia madre? O l’affetto che si rinnova guardando la foto di un figlio lontano? O di una persona che ho amato? E che differenza c’è tra il mondo di un autore che ho letto e un amico o un’amica che ho amato? Come per le icone di Florenskij, attraverso queste immagini si aprono altri mondi, altri tempi, i miei affetti si distendono, li guardo ed è come potessi correre per delle praterie (come nel bellissimo racconto di Kafka sul desiderio di essere un indiano). Sono dei passaggi tra il visibile e quello che è oltre, e sono lì per questo.
Forse le più enigmatiche sono le fotografie di Kafka (in realtà una cartolina che abbiamo avuto a lungo sulla porta della cucina è stata tolta perché i nostri figli la trovavano inquietante e non so dove sia finita). Quanto attraverso il suo sguardo si intravede di quel mondo invisibile, incompiuto eppure perfetto, dove il dolore di non riuscire a essere raggiunge la straordinaria comicità dell’invenzione che ribalta e trasforma, senza perdere mai il lato tagliente, burocratico, degli dei che dominano la nostra inadempienza?
La letteratura è il regno dei morti e tutti noi siamo la frontiera tra questo mondo di cose da fare e vita ancora da vivere che abbiamo davanti, e il modo in cui tutto sfugge, subito così simile all’irrisarcibile, al perduto, il silenzio che giorno dopo giorno ci cresce dentro e intorno e ci segue come la scia di una barca. L’ansia per un esame medico, una convocazione giudiziaria, la telefonata o il bacio di una persona dissolvono passandoci alle spalle, come l’acqua del mare tra le dita. Quando ho scritto per Doppiozero della morte di Patrizia Cavalli ho accennato a un paradosso che lei aveva catturato in un aneddoto: il fornaio che sotto casa sua chiamava ogni mattina alle quattro Alfredo, sottovoce, e che a Patrizia metteva grande tenerezza: fischiava piano, sussurrava Alfredo… Alfredo… per non farsi sentire.
È il paradosso di ogni pagina scritta. L’asserzione della propria assenza. Lo si intravede in una delle città invisibili, a Bauci, dove gli abitanti non si stancano di passarla in rassegna, foglia a foglia, sasso a sasso, formica a formica, contemplando affascinati la propria assenza. Il tema dell’invisibilità attraversa tutto Calvino, dal Cavaliere inesistente fino alle nebbie di Se una notte d’inverno un viaggiatore. Invisibili sono Beckett, Celati. Ma soprattutto Franz Kafka. Dalla Metamorfosi all’undicesimo figlio, dal Processo alla Talpa, lo scrittore praghese è al lavoro sul proprio non esserci, lo scomparire, il nascondersi.
Invisibili sono in realtà tutti gli scrittori perché si scrive sempre dalla parte dei morti, si raccolgono voci che sono sempre più ampie dell’io, cose che si sono lette, che abbiamo sentito raccontare, che abbiamo dimenticato di sapere e che riaffiorano in una voce, un luogo. L’istituto Benjamenta di Walser, la vita del suo assistente, o il Michael Fury di The Dead di Joyce, ispirato anche piuttosto letteralmente da un amore di Nora. Tutta l’immaginazione, l’ascolto, l’intelligenza di cui si è stati capaci si impiglia in un passaggio della voce. Poco conta in che lingua o che stile, impariamo a interpretarlo cercando di acchiappare il fantasma ma non ci resta in mano che il lenzuolo.
Montale dirà che tutti gli autori che ha incontrato sono stati una delusione, e in fondo è per questo: perché è come incontrare un morto. E come potrebbe essere altrimenti, se null’altro resta del mondo ampio che hanno attraversato e che attraverso loro ha preso, fugacemente, una forma?
Per questa ragione i festival letterari sono paradossali. Pensiamo se davvero potesse esistere un festival letterario che annunciasse nel programma: alle 15.30 in Sala Volpi Giacomo Leopardi incontra Ugo Foscolo, alle 17 in Piazza della Mercanzia André Gide intervista Marcel Proust e cerca di farsi perdonare il giudizio negativo sul suo romanzo, alle 21 Cesare Pavese parlerà del suicidio con Primo Levi.
Allo stesso modo hanno sempre qualcosa di paradossale le biografie fatte con dei film. Giacomo Leopardi che parla in famiglia o con Ranieri o con Fanny, oppure adesso il film dedicato a Samuel Beckett, Dance first. Certo, che cosa meravigliosa sarebbe poter incontrare autori a cui si sono dedicati lunghi, importanti periodi della propria vita. Augusto Von Platen, appena arriva a Napoli chiede a Ranieri di vedere Leopardi ed è scioccato dal suo aspetto disordinato e sporco. Cosa si aspettava? Cosa ci aspettiamo quando al cinema un attore interpreta un autore? Certo che vorremmo vedere come si muove, magari potessimo incontrarlo! abbiamo avuto con lui o lei una dimestichezza, un’amicizia che è durata anni ed è stata così profonda… Abbiamo immaginato il suo mondo, ci siamo sforzati di raffinare con rigore i momenti della sua vita, i progetti falliti e quelli riusciti e nella nostra profonda comprensione del mondo le sue parole sono tra le colonne portanti, manca solo l’immagine! Ci si precipita a vedere un frammento di Marcel Proust che scende le scale a un matrimonio o di Degas che passeggia per Parigi, può essere quello che ci aspettiamo interpretato da un attore? Il fatto stesso di leggere è scegliere la vita di un morto, anche quando l’autore è vivo, perché comunque si è affidato a quello che non è più e che proprio nella pagina scritta mostra il passaggio nel non essere.
Un ragazzo molto simpatico mi ha scritto una lettera un paio di anni fa con parole molte cortesi sui miei libri e alla fine, per giustificare la sua lettera, ha aggiunto: visto che lei è vivo… Aveva ragione, anche se quello che è sopravvissuto non è, anche se mi piacerebbe, davvero l’autore dei libri che ha letto. Ne sono uno po’ lo scarto, quel che ne avanza.
L’unica cosa che ho imparato, anzi che ho sempre saputo, nell’amicizia di persone che hanno scritto cose che penso o ho pensato fossero importanti, è stata di non avvicinarsi troppo. Per non ritrovarsi a dirgli, come Montale in un salotto, che sono una delusione. E l’ho scoperta dolorosamente la prima volta con Elsa Morante. Allora non la capivo, oggi molto meglio. Elsa aveva letto Boccalone, il mensile Panorama aveva addirittura scritto che avesse preso un treno per venirmi a trovare. In realtà fui portato io da lei da Goffredo Fofi, che aveva recensito il mio libro ed era amico di Elsa. Avevo cominciato a frequentarla regolarmente. Prima di incontrarla avevo letto Il mondo salvato dai ragazzini e, a parte Addio, non mi era molto piaciuto. Troppo discontinuo, frammentario, non era davvero concepito come un libro, raccoglieva cose diverse. Boccalone era uscito in marzo del 1979 e da Elsa devo essere andato immagino dopo un mese o due. Andai a vivere a Roma e Elsa mi invitava a pranzo quasi ogni giorno, il più delle volte da solo, a volte organizzando invece delle tavolate con amici scrittori e letterati. Qualche volta con Patrizia. Credo mi studiasse e, con quello che ho capito in seguito di Elsa, che godesse del fatto che non conoscevo i suoi libri. Tutti si muovevano intorno a lei con una certa deferenza, che lei diceva di non sopportare ma in fondo, accettando solo la compagnia di chi l’aveva letta, esigeva. Avevo 22 anni, parlavamo di droghe e di sesso, di politica e libri ma soprattutto lo facevamo con molta libertà. Elsa a volte era presa da furori che Patrizia attribuiva alle anfetamine, che Elsa prendeva regolarmente. Ma in quella prima fase della nostra amicizia i furori non eran rivolti a me e se per caso, a volte, diceva qualcosa di antipatico mi ritelefonava la sera, diceva che mi voleva bene, che voleva mangiassimo insieme il giorno dopo, dovevamo riavvicinarci. Questa consuetudine andò avanti fino a marzo dell’80. La sera avevo altri giri, non memorabili, a nessuno ero vicino come a Elsa tanto che a un certo punto decisi di leggere i suoi tre grandi romanzi (non era ancora uscito Aracoeli).
Devo dire che a piacermi davvero fu soprattutto l’Isola di Arturo, meno Menzogna e sortilegio e La storia, ma questo non c’entra con quello che voglio mettere a fuoco. Leggendola avevo incontrato qualcuno di più grande di lei. Come risponde Ezra Pound in una famosa intervista che gli fa Pasolini, quando lui lo incalza con domande serie, importanti: io non sono più a quella profondità.
Le telefonai per dirle del mio entusiasmo e mi invitò a pranzo per il giorno dopo con Patrizia. Era piena di rabbia e mi chiese subito se credevo in Dio. Patrizia, che credo conoscesse quella domanda, disse “certo se pensi a un signore tra le nuvole con la barba bianca no…” ma era una risposta un po’ schiva, se non addirittura vigliacca. Il vero nodo della questione è che Elsa sentiva che avendo letto i suoi libri ero all’improvviso molto vicino non tanto a lei, di cui poco le importava, ma a quel mondo sacro, pieno di morti e meraviglia, di menzogne e sortilegi, che lei aveva frequentato scrivendoli. Poco importava anche cosa qualcuno pensasse di quei libri, la questione centrale era quanto sentissi reale la frontiera con la morte. Credevo in Dio? In un mondo in cui tutto questo esiste ed è insieme?
E non c’è in fondo cosa più semplice da capire: ci si dedica a un romanzo per anni, molte ore al giorno, cercando di approfondire, migliorare, capire cosa non va e se è possibile salvare una pagina o un capitolo, a volte arrendendoci e semplicemente tagliando. Si utilizza tutto quello che ci riesce di utilizzare, studi, esperienza, mestiere, e soprattutto come diceva appunto Elsa attenzione, onestà, disinteresse. Un lavoro che è fatto di silenzio, di continuo avvicinamento al silenzio, alla nostra assenza. Quando ci ritroviamo da quelle parti con qualcuno, soprattutto se è qualcuno a cui vogliamo bene nella vita, è estremamente imbarazzante. Siamo tutti nudi, e di una nudità che non si può coprire con qualche manierismo sociale. Lo siamo per aver scritto ma lo è anche chi ci ha letto, per quello che ha colto o non ha colto. Ragione per cui ho sempre paura quando una persona che mi è simpatica mi chiede di leggere un suo manoscritto. Sa cosa rischia?
Per tornare all’osservazione di Montale: c’è da sorprendersi se nel vivere di ogni giorno gli autori deludono, irritano, sono comunque meno dei personaggi che hanno inventato? Se agli errori che sulla pagina si intravedono e a cui si cerca di rimediare, errori che magari diventano l’occasione di un approfondimento, nella vita non si riescono a fare vere correzioni? Se si dice qualcosa di troppo, o troppo poco? Persino in un’aula universitaria, davanti a persone competenti che hanno magari analizzato il tuo lavoro nei dettagli? Per non dire delle occasioni in cui, di fronte a un pubblico più ampio che passa a sentirti prima di mangiare una pizza o che viene solo perché dopo, alle nove, c’è il pezzo forte, Leopardi che intervista Foscolo, accipicchia, e allora per non essere antipatici, si passa dalla parte del pubblico, si stemperano le acredini di quella persona che poi siamo noi che sta su un palco, si cerca di apparire spiritosi, in fondo un applauso a una battuta fa piacere, o magari si accenna ai temi dell’attualità anche se si vive come eremiti. Non potrebbero prendere un attore e fargli fare la nostra parte? O è quello che in realtà accade? La nostalgia dell’apparire seduce gli autori che dalla solitudine in cui abitano tornano sorridenti e cordiali, quasi non fossero mai morti, a scambiare due chiacchiere, bere un bicchiere di vino, lì dove c’è la vita così cara che sembrava non li riguardasse.
A Elsa sono rimasto vicino fino alla fine, anche se andai a vivere a Londra nell’80, ma con una strana amarezza. Leggendola, era finita la nostra giovinezza comune, lei aveva avuto con me di nuovo vent’anni, anche se ne aveva sessantasette, adesso tutti e due eravamo sulla frontiera di un mondo che attraverso noi moriva e tornava in vita, nella solitudine della scrittura, non avremmo più potuto far finta di essere lì, spensierati come Arturo che scopre la vita e l’amore. Siamo rimasti vicini, l’ultima volta che l’ho vista a Villa Margherita, credo circa un mese prima della morte, si girò verso Lucia, la sua domestica, e le disse: “te l’avevo detto che sarebbe venuto”, e anche se forse l’avrà detto ad altri quella frase mi ripescò da chissà dove e mi tiene ancora vicino a lei, al suo affetto, ai nostri vent’anni.
Quindi, se anche qualunque biopic fa un po’ ridere, a metà tra il Bignami e il fumetto, e certo non può dire molto sull’autore che avremmo voluto incontrare di cui abbiamo tra l’altro già letto molto, alla fine ci si dice che magari è un buon film, lo si è guardato volentieri, anche se naturalmente con Leopardi o Beckett non c’entrano molto. Un po’ come le bellissime fotografie di Kafka, dove pensiamo di poter indovinare qualcosa del suo carattere, essere risarciti della sua vita che abbiamo mancato e della nostra, che sfugge oltre ogni immagine e rappresentazione, nel silenzio dove Dio o non Dio, siamo comunque tra i resurrecturi e parliamo per loro. Dalla parte dei morti e del loro silenzio.