Presidenti a delinquere
La crisi delle ideologie della seconda metà del secolo scorso ci ha lasciato in balia di personalità. All’opposizione di capitalismo e comunismo, per cui non era tanto importante l’individuo che guidava quanto come era organizzata una società, è subentrata un’idea di mondo che si aggruma intorno alla figura di un leader. Nessuno si sciacqua più la bocca con prediche sulla libertà da una parte o richiami alla giustizia economica dall’altra, chiediamo piuttosto cosa succede se vince Trump, Milei, Nethaniau, se Xi Jiping o Putin possano capitombolare dal vertice dei propri stati.
Dalle microstorie a un marxismo diffuso che è diventato buon senso in America e in Europa, nelle scuole e nelle università degli ultimi cinquant’anni si è cercato sempre più di insegnare che la storia non è fatta da generali e tiranni ma dalle trasformazioni economiche che determinano l’evolversi o i collassi delle società. Eppure mai come oggi il ruolo degli individui tende a crescere.
C’è ovviamente in questo passaggio una perdita. Il cosiddetto populismo è una semplificazione del discorso politico e ricorda le fastose processioni pubbliche che costituivano un elemento importante del consolidamento del potere intorno ai sovrani. Incoronazioni, funerali, matrimoni. Apparire a un comizio con il rosario in mano o fare politica attraverso una squadra di calcio non sono novità del nostro tempo, basti pensare alle incoronazioni o alla strage di Nika del 532. Certo che dalla generazione di Moro e Berlinguer, che si presentavano all’elettorato come padri di famiglia affidabili e uomini onesti, a quello che è accaduto da Berlusconi in poi, sono cambiate tante cose e vale la pena farsi qualche domanda. Un conflitto simile lo presentava Andrzej Wajda nel Danton, opponendo l’integerrimo Robespierre al bon viveur Danton, e i dodici Cesari di Svetonio sono pieni di aneddoti anche più salaci di quelli che abbiamo assaporato negli ultimi anni. Ma è sempre e comunque la nostra l’epoca su cui ci interroghiamo quando guardiamo il passato.
Il populismo semplifica perché dove non ci sono sistemi sociali in competizione ma solo individui, è semplice accusare qualcuno di corruzione e invocare la galera per i propri antagonisti politici. In epoche di globalizzazione (quindi anche la rivoluzione francese e la Roma imperiale), quando territori diversi divengono osmotici attraverso la circolazione delle informazioni e le migrazioni, le società cambiano e si influenzano le une con le altre. Spiegare le distinzioni tra capitalismo cinese e americano chiederebbe approfondimenti infiniti, mentre la competizione per accaparrarsi materie prime rende tutte le grandi potenze assai simili tra loro. E se c’è qualcuno che si arricchisce è facile puntare il dito: denunciare se una villa è intestata al prestanome di un leader o che maneggi si fanno a favore della propria famiglia. In questo i colpi che si sferrano i contendenti attraverso i procedimenti giudiziari si assomigliano tutti, e diventa facile tacciare la magistratura di interessi politici.
Il presidente delinquente diventa così il protagonista politico del nostro tempo. Non tanto colui che deve difendersi da accuse, ma soprattutto colui che si fa forza delle condanne che ha ricevuto, da Silvio Berlusconi a Donald Trump.
Sarebbe comodo parlare di decadenza morale, in realtà la giustizia umana è sempre una frontiera. Quando Oreste, dopo essere stato perseguitato dalle Erinni, viene giudicato sull’Areopago per il matricidio, è Atena a volgere il giudizio a suo favore. Perché, nata dalla testa di Giove, non ha una madre, e perché attraverso lei è la città, Atene, che prevale sulla campagna e i suoi cicli di vendette tribali. Così come le lunghe discussioni tra Creonte e Antigone, nonostante la simpatia che si prova per la giovane ribelle, indicano lo stesso passaggio: tra Antigone che attraverso la pietà e una legge più profonda, quella degli Dei, cerca di tenere in vita un’idea di umanità anteriore e più profonda della legge umana, e Creonte che, dovendo governare Tebe, cerca di spezzare il ciclo di sangue che da Laio a Edipo a tutti i loro discendenti continua a tenere la città prigioniera di una logica ingovernabile, parricida e fratricida. Più che un mondo precedente, un altro mondo che è coperto solo superficialmente dalle leggi umane.
I presidenti che ho citato non hanno la grandezza degli eroi della tragedia greca, ma il grimaldello che brandiscono nei confronti dello stato è molto simile. Indicano nella legge un nemico che perseguita l’individuo e non un sistema astratto di norme che presiede alla vita della città. Come faceva Margaret Thatcher con il suo elettorato, fanno sentire tutti speciali proprio nel momento in cui si viene al contrario massificati. A ognuno di noi basta incontrare la burocrazia e siamo come Kafka nel processo. Chi ci ha denunciato? La vicina? Iscrivere un figlio a scuola o fare domanda per un passaporto, ricevere una multa qualsiasi, compilare il 730, sposarsi, divorziare o spartire un’eredità mette ognuno di noi, singolarmente, di fronte all’anonimità di regole impersonali e concrete, intrusive. Cosa vogliono ancora da me? Misurati dall’esterno dà diritti e responsabilità sentiamo la solitudine di non poter essere aiutati. Che documento ho dimenticato questa volta? Possibile che questo amministratore non abbia capito il mio problema? Mentre la famiglia e un dialogo interiore con il mondo, che sia rivolto a Dio o non a Dio, ha un contesto affettivo, nessun ufficio pubblico considera quanto ci amava la mamma, non fa casi personali. La legge non ha madre, come Atena.
Per giunta, in tutte le società secolarizzate, lo stato laico si sovrappone a un sistema amministrativo precedente, quello della religione, che appare al tempo stesso più arcaico ma anche più personale, e quindi sostituirlo è un processo lento, fatto di negoziati e compromessi e forse, come con Antigone, alla fine impossibile. Lo sappiamo noi italiani con i crocefissi in classe, le festività, i presepi, le tasse che conventi trasformati in alberghi pagano e non pagano, o al contrario per l’assistenza sociale con cui la chiesa supplisce alle inefficienze dello stato sociale della Repubblica Italiana. E la religione, proprio contro lo stato laico, perdona e condanna secondo propri metri di giudizio. Se come il povero Giuseppe Pignata alla fine del diciassettesimo secolo venivi accusato di eresia, il Sant’Uffizio semplicemente buttava via le chiavi: un inquisitore voleva veder chiaro nell’anima e lì non c’erano prove da cui difendersi o da esibire. La colpa per la religione non è circostanziale, limitata a un reato, ha la sua origine nella mela offerta da Eva ad Adamo, la cacciata dal paradiso e l’umiliazione di dover guadagnare il denaro con il sudore della fronte e partorire nel dolore. Ogni religione è sia le Erinni che le Eumenidi, condanna e perdona fuori dalla storia. Con occhi disincantati possiamo vedervi un sistema amministrativo precedente, più o meno obsoleto a seconda dello sviluppo della società civile, che interroga gli individui a un livello molto più personale dello stato. Ma il distacco è già la critica dei miti di cui scrive Sante Mazzarino, chiede di emanciparsi e amministrare, e il processo non è mai completo. Per la religione si pecca con pensieri, parole e opere, mentre per fortuna la legge dello stato si limita ai fatti concreti.
Ognuno di noi è cittadino ma è anche poeta, filosofo, scienziato, ha un suo modo di vedere il mondo più o meno informato che si ribella alle intrusioni della legge. Il desiderio di essere risarciti per un divorzio o della morte di una persona amata, costringe la legge a sporgersi oltre i propri ambiti e parlare di quello che non può dire, e naturalmente facciamo tutti esperienza dei suoi limiti.
Il terreno quindi su cui sguazzano i presidenti delinquenti, quelli che vedono nella legge un complotto di un sistema contro un individuo, ha risonanze in ognuno di noi perché tutti siamo il confine tra questi due mondi: quello che è giusto e quello che non lo è, dove non è ovviamente la legge a segnare il conflitto con gli altri (altrimenti saremmo sempre in causa) ma semplicemente l’essere tra gli altri, che si ritrova in tribunale solo quando precipita.
Nel caso di Berlusconi e Trump questo ha indubbiamente prodotto una forma di narcisismo collettivo, pronto a sbaragliare le regole perché si è vittime. Dell’immigrazione, dei comunisti, dei democratici, del femminismo, degli altri. Un urlo molto maschile, permaloso, irascibile, condito di erotismo. Anche se non si deve esagerare perché questo aspetto infantile, esibito sulla stampa, ha naturalmente interessi che sono meno emotivi di quello che appare a prima vista; alle spalle di un presidente delinquente che si presenta come vittima del sistema si organizzano altri interessi, meno personali e più radicati nella cordata finanziaria che sostiene un determinato politico. Tanto che alla fine Trump, come prima di lui Berlusconi, è probabilmente un individuo molto ordinario, prevedibile, che si è occupato soprattutto di accumulare denaro per se stesso, e quindi necessita della baruffa giuridica per supplire alla povertà ideologica. Curiosamente Trump significa proprio briscola. Come verbo si usa con una connotazione negativa, cioè sovvertire le regole a proprio favore.
Quello che dobbiamo temere nel richiamo all’illegittimità dei leader è l’appello a qualcosa di confuso e personale che trascina la politica nei miasmi della colpevolezza che sono amministrati dalle religioni. E a quel punto siamo davvero all’inferno, dove la morte in battaglia è santificazione e le guerre da cui siamo circondati avanzano e ci strangolano.
In copertina opera di Ryan Humprey.