Forza e pietas / Eneidi

18 Aprile 2021

Un classico, come ebbe a dire una volta George Steiner, ci legge; si potrebbe dire che nel corso del tempo offre un'immagine di noi sempre diversa mutando se stesso. L'Eneide pare in questo senso, nel Novecento e in questi ultimi anni, particolarmente soggetta a tale regola. Nel 1930 il bimillenario della nascita di Virgilio fu preso dal fascismo per la definitiva canonizzazione del poeta: le Georgiche erano utili per l'affermazione della sua vena ruralista, Enea diveniva una volta per tutte il fondatore dell'impero romano e il protagonista della colonizzazione. Così, come scrive Luciano Canfora in Ideologie del classicismo (Einaudi 1980), si afferma “il mito di una sorta di predestinazione teleologica dell'Italia a un ruolo direttivo, imperiale”. Non a caso la grande pensatrice politica e antifascista Simone Weil, in Il libro della forza (Farina 2019) diceva l'Eneide, oltre che “guastata dal tono declamatorio”, il poema dei “Romani esentati dalla comune missione umana, in quanto nazione prescelta dal destino”.

 

Fino ad arrivare ad affermazioni discutibili ma certo inquietanti: “L'analogia fra il sistema hitleriano e la Roma antica è così sconcertante che si potrebbe credere che Hitler sia stato il primo, dopo duecento anni, a saper copiare perfettamente i Romani”, soprattutto in merito alla politica estera di potenza. 

E tuttavia proprio i due nostri maggiori scrittori della Resistenza, quanto a narrativa e poesia, leggono, o si fanno leggere in modo diverso dal poema virgiliano. Gabriele Pedullà, nella sua ricomposizione dell'epica di Fenoglio, rintraccia in filigrana un sorprendente modello: l'Eneide infatti “è la storia di una rifondazione dopo la perdita della patria […] così Il libro di Johnny cova in sé il sogno di una rinascita che, all'indomani di un evento non meno traumatico quale il fascismo, sappia traghettare nel mondo di domani una parte del mondo di ieri.”

 

Quanto a Giorgio Caproni, autore di liriche res-esistenziali fondamentali come le sezioni I lamenti e Acciaio, si legga Il mio Enea, a cura di Filomena Giannotti e con prefazione di Alessandro Fo (Garzanti 2020), edito come celebrazione del trentennale della morte del poeta. Tra il 1948 e il 1961 Caproni pubblicò ben sette articoli che ripercorrono la sua visione della statua di Enea, opera di Francesco Baratta del 1726, restata intatta in piazza Bandiera a Genova nonostante i terribili bombardamenti sulla città. Enea è definito “meno eroe che uomo” e “quanto di più commovente io abbia visto sulla terra”. Risulta insomma chiara l'identificazione del resistente scampato alla guerra di fronte alle macerie del passato e ad un incerto futuro: “Ci troviamo veramente soli sopra la terra, con alle spalle una tradizione che tentiamo di sostenere mentre questa non ci sostiene più, e per la mano una speranza ancor troppo gracile per potercisi appoggiare, e che pur dobbiamo portare a compimento”. Non può che venire alla mente la trasfigurazione di questi sentimenti in Il passaggio d'Enea, raccolta nata fra il 1943 e il 1945, e pubblicata l'anno seguente: “Enea che in spalla / un passato che crolla tenta invano / di porre in salvo, e al rullo di un tamburo / ch'è un schianto di mura, per la mano / ha ancora così gracile un futuro / da non reggersi ritto.” Ed ancora Caproni, nella sua lunga Litania in ricordo della città che l'ha visto crescere, metterà di nuovo una variazione del motivo: “Genova di lamenti / Enea. Bombardamenti.” 

 

 

Maurizio Bettini, nella postfazione al libro di cui sopra, intitolato Il passaggio d'Enea di Giorgio Caproni, segnala che la figura di Enea viene evocata da altri poeti travolti dal secondo conflitto mondiale, come lo slesiano Heinz Piontek. E aggiunge che proprio nel 1944, dunque dentro il fuoco della guerra, T.S. Eliot riscattava la minorità del capolavoro virgiliano rispetto ai poemi omerici, dichiarandolo opera “matura”, ovvero “capace di sintetizzare per intero il senso di un'epoca”, giusto per tornare all'idea di Steiner. E arriva fino a Tiziano Rossi, che in Gente di corsa (Garzanti 2000) descrive un immigrato dove “si trapianta ignoto Enea”; siamo al rispecchiamento prevalente con l'oggi, che ha visto una forte presenza di saggi sul, è proprio il caso di dire, il nostro eroe.

 

Andrea Marcolongo, con La lezione di Enea (Laterza 2020), ci offre una chiave iper-contemporanea del perché di questa nuova fortuna: “il canto di Enea è destinato al mondo in cui si sperimenta l'urgenza di raccapezzarsi in un dopo che stordisce per quanto è diverso dal prima in cui si è sempre vissuto”. E anticipando le parole del presidente Mattarella di poco tempo fa: “Solo una cosa significa essere Enea. Alla distruzione risponde: ricostruzione. Questa è la sua lezione.” In scia Antonio Scurati, nell'articolo dal titolo, già significativo, Nella fuga di Enea c'è la nostra salvezza, pubblicato sul «Corriere della sera» del 25 marzo, che individua in tempo di pandemia “l'archetipo” umano e politico dell'eroe capace di caricarsi il padre sulle spalle e contemporaneamente condurre il figlio per mano.

 

Mario Lentano si è occupato molto dell'argomento in Enea l'ultimo dei troiani, il primo dei Romani (Salerno 2020) e, precedentemente, insieme a Bettini, con Il mito di Enea: immagini e racconti dalla Grecia a oggi (Einaudi 2013). Si dice tra l'altro che gli Ateniesi, affermando la propria provenienza dalla terra, come gli alberi ed il loro antico re Cecrope, non si identificano con alcun altro popolo, neppure tra i Greci. Al contrario per i Romani, fin dai miti di fondazione di Romolo alla costruzione dell'impero, “si procede di fatto per numerose sintesi, fusioni, incroci”. Anche la divergente tradizione sul contatto tra Troiani ed indigeni, una veloce alleanza o per contro una lunga guerra, prevede “immutabile l'esito finale del racconto”, appunto la mescolanza tra nuovi venuti e autoctoni; “e dunque la creazione di un'entità nuova, che si nutre degli apporti etici preesistenti e insieme li trascende.” Un altro illustre studioso, Giulio Guidorizzi, in Enea lo straniero (Einaudi 2020), opera una riscrittura e interpretazione narrativa basata su una visione di Roma non impositiva ma integratrice: “Roma fu soprattutto questo: un mondo di stranieri raccolti sotto lo stesso ius, il diritto comune”. Dunque le diverse patrie si fondono in una civitas, Roma come l'Europa unisce i popoli, Enea ci giunge attraverso il matrimonio con Lavinia: Roma è iura e non spietata ricercatrice di bottino come sosteneva Weil. Significativamente Anchise, nel romanzo di Guidorizzi, dice al figlio, mentre sono in rotta verso nord: “Tu non ti sentirai più uno straniero quando capirai che stranieri si è sempre.” 

 

 

Sembra insomma esserci un nuovo trionfo dell'Enea advena, profugus, naufrago in apprezzabile sintonia con i tempi. Tuttavia anche questa rischia di essere una lettura un po' forzata ed unilaterale, uguale e contraria a quella del passato nell'eliminare le sfumature. Dunque qualche punto veloce di riequilibrio, a partire da una certa iattanza del mite eroe che mette piede sulla terra italica: “Salve, o terra a me dovuta dai fati, / e salute a voi, o fidi Penati di Troia: / qui la casa, questa la patria.” (VII, vv. 120-22). Quando la terra è dovuta per volontà degli dei bisogna subito avere qualche sospetto; e più se la si reclama come anticamente propria, in una semplice e inconfutabile riacquisizione: “Di qui Dardano sorse; / qui Apollo ci richiama e ci incalza con gravi moniti / al tirreno Tevere e alle sacre acque del fonte Numico.” (VII, vv. 240-42). Infatti, secondo la tradizione d'ambito italico, Dardano, mitico antenato dei Troiani, era figlio di Corito, principe etrusco di Cortona, che emigrò, come anche sostiene la tradizione greca, in Frigia; dunque Enea viene a riscuotere per li rami quanto gli è dovuto per diritto di terra e di sangue: non proprio uno sradicato in cerca di accoglienza. A lui si contrappone quindi, con naturale mossa uguale e contraria, lo spodestato re dei Rutuli, promesso sposo di Lavinia, che contrappone la propria primazia di indigeno: “Sopraggiunge Turno, e in mezzo a chi s'accende esecrando il crimine / della strage raddoppia il terrore: dice che chiamano i teucri al regno; / che si mescola con la stirpe frigia; che si scaccia lui dalla soglia.” (VII, VV. 577-79).

 

Enea, un principe troiano che aveva combattuto per anni contro i Greci, non può del resto essere confuso con un imbelle fuggitivo. Così mal accolto dai latini prepara la sua strategia di alleanze per il conflitto; per esempio quando manda il figlio dagli Arcadi, compagni del re Evandro, “conducono assidua guerra con il popolo latino; / prendili alleati con te, e stringi patti con loro” (VIII, vv. 55-6). E mostra il tradizionale e quasi ipnotico fascino che le armi esercitano sul guerriero nel momento in cui la madre Venere gli presenta quelle appena forgiate da Vulcano: “Egli, lieto dei doni della dea e di tanto onore, / non riesce a saziarsi e percorre tutto con gli occhi, / e guarda ammirato e rigira tra le mani e le braccia / l'elmo terribile per le creste, che emette fiamme, / la spada mortifera e la rigida corazza di bronzo, / sanguigna, enorme, quale una livida nube / arde ai raggi del sole e rifulge lontano; / poi i levigati schinieri di elettro e d'oro / raffinato, e l'asta, e l'indescrivibile compagine dello scudo.” (VIII, vv. 617-25).

 

Con tutto quell'armamentario “semina morti” in battaglia, mostrando episodi di crudeltà, come verso Lucago che implora pietà ed egli uccide a seguito del fratello, ma queste sono infine le esercitazioni di Virgilio che non voleva far sfigurare in valore il padre dei Romani e del suo Augusto nei confronti degli eroi d'Omero. Tuttavia insieme ai tratti di pietas e di ritrosia alla lotta, sottolineati da sempre, e al senso simbolico di chi cerca un nuovo futuro perché costretto ad abbandonare la patria in fiamme, secondo la sensibilità nata nel secondo dopo guerra e rafforzata ai nostri giorni, non va dimenticato l'altro lato che ho appena accennato e che sembra avvicinare Enea più a un pugnace pellegrino in cerca del Nuovo mondo o ai giovani ebrei di Scesopoli, raccontati da Luzzatto, che dall'Europa approdano alla terra dei padri in Palestina. Hanno l'inferno alle spalle ma anche le armi pronte in pugno. 

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