Lavia e Lo Monaco. La Roma del Pirandello eterno

14 Febbraio 2012

A oggi Luigi Pirandello contende la palma di autore più frequentato a Goldoni e Shakespeare. Come ha ricordato Sergio Lo Gatto, nella cronaca della conferenza stampa di presentazione del Centro Nazionale di Drammaturgia Contemporanea, tentativi come quello del dismesso Idi (Istituto per la Drammaturgia Italiana), nato all’indomani della seconda guerra mondiale, troppo poco hanno fatto per dare dignità ai nuovi autori teatrali. Quello che differenzia ancora l’autore dei Sei personaggi rispetto agli altri due monumenti è l’intoccabilità. Ovvero è praticamente impossibile, se non molto difficile, trovare sulle scene italiane, anche quelle più sperimentali, lavori teatrali che partendo dai testi del siciliano mettano in scena esempi di riscrittura autonomi per linguaggio e drammaturgia. Il risultato è quasi sempre una monumentalizzazione di quei testi, sguardi certamente rispettosi, ma che ne hanno rovistato ormai da infinite angolazioni le possibilità. Di certo uno dei problemi fino a poco tempo fa era quello dei diritti, ma ora che i fatidici settant’anni sono scaduti e il Siciliano è stato strappato dalle grinfie della Siae ecco che dovrebbero aprirsi ulteriori e più interessanti riflessioni sceniche sull’autore di Agrigento.

 

 

Recentemente Roma ha visto ben due Pirandello in scena, molto diversi, ma accomunati da quel postulato di cui abbiamo parlato: Tutto per bene per la regia di Gabriele Lavia al Teatro Argentina e Il berretto a sonagli messo in scena da Sebastiano Lo Monaco- riprendendo la regia di Mauro Bolognini del ‘96 - al Teatro Eliseo. In entrambi i casi gli spettacoli si reggono principalmente su due aspetti: l’interpretazione debordante, istrionica e accentrante dei due mattatori e l’utilizzo di una scena che potremmo definire di “costruzione”.

 

 

Il direttore del Teatro di Roma punta tutto sull’ambientazione espressionista, sia per l’uso delle mastodontiche scene che ricostruiscono i palazzi dell’alta borghesia dove spariscono i Lori e i Manfroni di turno, sia per l’atmosfera black  nella quale i chiaro scuri a elevato contrasto disegnano l’umore del protagonista elevando la sua vedovanza a emblema del dramma e divenendo il corrispettivo visivo di una recitazione pronta a scoppiare in lacrime e follia senza riserbo. Intorno al momento della scoperta da parte di Martino Lori di quella maschera che tutti lo accusavano di portare - i suoi conoscenti credevano lui sapesse dei tradimenti della moglie e li nascondesse solo per facilitare la propria carriera - si costruisce lo spettacolo di Lavia, portando così lo spettatore quasi allo sfinimento prima che il meccanismo si innesti e l’intervallo porti con sé un ritmo finalmente godibile. A rimarcare ancor di più la propria firma il regista inserisce come incipit ed epilogo estratti dell’omonima novella del 1906 e gela lo spettacolo in due o tre occasioni nelle quali viene sospeso il dramma; qui i personaggi, come statuine di un surreale carillon, indietreggiano lentamente quasi a far intendere la loro passività rispetto al fato.

 

 

Di segno opposto per colori ed atmosfere è lo spettacolo di Lo Monaco. Tutto si svolge nel grande cortile: la facciata della villa sovrasta il palco e traccia uno spazio diagonale con due sdraio, alti alberi e un tavolino addobbato da un bel cesto di arance. I personaggi entrano ed escono dal grande portone esprimendo quella solarità che la scenografia vorrebbe evidenziare. Se Lavia è il centro propulsore di un meccanismo di sofferenze e taciute menzogne Lo Monaco sin dall’inizio veste i panni del fool indossando metaforicamente quel berretto a sonagli che alla commedia dà il titolo. La ricerca della leggerezza sembra essere la corda con cui l’attore vuole interpretare e declinare l’opera. E non ci sarebbe nulla di male in un acuto uso dell’ironia se non fosse che il livello si ferma a giochi di parole e ripetizioni sempre uguali a se stessi. Anche qui l’obiettivo è chiaro ed è quello di trascinarsi – senza risparmiare gag e intramontabili cliché – fino allo snodo drammaturgico: la denuncia del marito da parte di Beatrice(Marina Biondi) che di rimando fa di Ciampa (Lo Monaco) un becco e dà il là all’ultimo grande e passionale monologo dell’attore. D’altronde perché cercare altre strade, significati e linguaggi se il nipote stesso di Pirandello si alza dalla platea dell’Eliseo per regalare una copia del testo con dedica al “miglior interprete dell’arte del nonno”?

 

Andrea Pocosgnich (Teatro e Critica)

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