The History Boys
Cosa rende mezzi di rappresentazione come il teatro o il cinema veicoli di un sentimento nazionale? Cosa intendiamo quando spesso parliamo dell’assenza di una drammaturgia nazionale? Un corpus di testi che riesca a tradurre in scena quegli intrecci di atmosfere, sentimenti, atteggiamenti sociali e politici rappresentativi, per natura in modo incompleto o mistificato, di un’epoca. Bene se intendiamo anche tutto ciò per drammaturgia nazionale, e non solo il fatto che la produzione avvenga all’interno dei nostri confini, la creazione anglosassone degli ultimi decenni è in questo senso una emblematica ragione di invidia.
Al Teatro India di Roma è appena terminato il fortunato ciclo di repliche del pluripremiato The History Boys, dramma di Alan Bennett messo in scena da Elio De Capitani e Ferdinando Bruni, con un gruppo di giovani e bravi attori. Spettacolo con il quale Teatridithalia sembra riuscire a eguagliare il successo ottenuto qualche stagione fa con Angels in America, anche in quel caso drammaturgia di lingua inglese, ma di provenienza americana, autore Tony Kushner. Pure gli anni presi in considerazione erano pressoché gli stessi, ovvero gli anni 80. Decisamente diversi, però, temi, forme, colori ed emozioni nei due drammi. Entrambi sembrano rispondere con risultati diversi - l’epicità di Angels accompagnata dall’impietoso sguardo sulla storia lo rendono un capolavoro irraggiungibile - alle domande che ci siamo posti. Interpretano l’epoca di un paese facendo attraversare la grande Storia da piccoli rivoli di umanità; il meccanismo, non più di semplice immedesimazione, si articola nell’attrazione e respingimento dello spettatore, nella perenne ricerca di una parola che influenzi anche la prassi scenica articolando complessi lavori di montaggio drammaturgico e di compiti recitativi.
Capite che testi del genere nelle mani di artigiani della scena come Bruni e De Capitani rischiano di trovare una confezione e una resa irresistibili. In The History Boys il centro propulsore è la scuola, da subito però l’istituzione scolastica si trasforma in metafora per ragionare sulla società intera. Sono gli anni 80 in Inghilterra, gli anni degli yuppie, della Thatcher e di uno spietato arrivismo, inculcato a forza nelle menti dei giovani studenti. Li troviamo subito dopo il diploma, in un liceo il cui preside, un divertentissimo Gabriele Calindri, si trova a dover portare risultati come fosse l’amministratore delegato di un’azienda. Da tempo la sua scuola non riesce a far iscrivere nessuno alle due più blasonate università del paese, Oxford e Cambridge. Per avere un nome e dunque i finanziamenti bisogna invertire la rotta. Urge un corso post diploma che prepari gli studenti ai test di ammissione. Bennet inserisce da subito nella tessitura un subplot che ben presto diventerà principale. All’estroverso e anarchico professore di letteratura, Hector, interpretato sempre sopra le righe (ma con metodo) da Elio De Capitani, si accosta il classico neolaureato, giovane e proveniente proprio da Oxford, Irwin (Marco Cacciola). Avrà il compito di rendere appetibili le conoscenze dei giovani, di metterli insomma sul mercato; rimarrà, però, stregato da uno di loro. La sua vita ora è a un bivio, nella relazione col ragazzo e nel metodo d’insegnamento: sacrificare etica e verità per raggiungere successo e piacere immediati, oppure il contrario, costringere il piacere e la voglia di un futuro migliore all’interno di un recinto di regole che però sembra essere giusto?
La forza dello spettacolo è nel trattamento di tematiche di tali importanza con una forma dirompente. Di fatto è uno show, i ragazzi con l’eccentrico e malizioso professor Hector - il quale al contrario del collega novizio ha già fatto la propria scelta lasciandosi andare a ingenui flirt con i propri studenti - sono dei piccoli e gioiosi play within the play. Ovvero il teatro nella sua forma più basilare, quella dell’imitazione, dello scimmiottamento, oppure della coralità musicale diventa il mezzo con cui Hector riesce a instillare nei giovani la passione per la letteratura, la filosofia e l’arte, tanto da far loro imparare a memoria interi brani. Per rimando, questa fibrillazione passa da subito al pubblico, il quale si trova nel mezzo di una infallibile macchina scenica.
Se gli spettatori del Teatro India, trent’anni dopo gli accadimenti narrati, in un paese lontano per approccio all’istituzione scolastica inglese, sono letteralmente impazziti per The History Boys, non è motivabile solo con la maestria della compagnia. È di questa capacità di raccontare il proprio tempo di cui si ha bisogno, della messa in crisi delle istituzioni sociali, del teatro insomma come camera oscura dove sviluppare istantanee nelle quali dietro la quotidiana storia degli uomini si intravede un’epoca.
Andrea Pocosgnich