Shakespeare e la patafisica
Bianca scatola con due timide aperture ai lati, scena simmetrica e svuotata, territorio algido della mente, foglio bianco da riempire cominciando con una luna pastello, grande, sullo sfondo. In linea col boccascena un oggetto lungo e nero, parallelepipedo minimale che ben presto rivela la sua funzione di piastra da cottura disilludendo le aspettative taumaturgiche. Attorno alla piastra, accesa e collegata alla corrente, si ritrova una comunità. Anche se in penombra i volti da subito rivelano fattezze difformi da quelle umane, così come le conosciamo. A metà tra uomini e primati, questi esseri sembrano i protagonisti di una distopia da Pianeta delle scimmie, una realtà altra e senza tempo. Ma non c’è volontà mimetica alcuna, il mistero dura poco e la maschera mostra ben presto la sua natura posticcia.
Come sempre accadrà in questo Ubu Roi, messo in scena da Roberto Latini in una coproduzione Fortebraccio e Metastasio, l’alta speculazione si mescola con la più ironica demenzialità: le strane creature di bianco vestite (sotto la cintola un sospensorio alla Arancia meccanica devia l’estetica orientale) con delle specie di canne di bambù iniziano a far dondolare sulla piastra bollente salsicce che non mangeranno mai. Il grasso sfrigola amplificato dal microfono che Latini porta in scena con sé, feticcio tra i feticci, segno di una poetica che ha accompagnato l’artista per anni durante le sue peregrinazioni solitarie.
Questo spettacolo racconta due mondi: quello di provenienza testuale e letterario dell’Ubu Roi scritto nel 1896 da Alfred Jarry e il mondo del teatro secondo Roberto Latini, riverberando perciò una serie di riferimenti (il termine citazione gli va a mio avviso stretto) cari al regista. Lo stesso personaggio che Latini si ritaglia, in un eterno a parte, è la punta dell’iceberg di questo ragionamento. È un Pinocchio con la catena al collo che immediatamente rimanda a Carmelo Bene, ma anche a quell’Ubu incatenato che per Latini rappresentò un’importante tappa di alcuni anni fa. Osservatore e contraltare straziante della vicenda, porta nell’universo patafisico dell’autore francese quel dolore di cui parallelamente si alimenta l’altro percorso di Latini, quello che ancora una volta lo vede solo in scena - ma senza microfono - nella rappresentazione della noosfera, ovvero la sfera della mente. C’è l’amato Shakespeare, non solo il Macbeth che dell’Ubu Roi è il nucleo, ma anche Amleto, Giulio Cesare, Romeo e Giulietta, La tempesta, quest’ultima torna pure con un cenno alla celebre versione di Strehler grazie a l’utilizzo di un velo rosso che dalle quinte viene risucchiato via lasciando sul palco solo uno scheletro nero.
Aldilà dei livelli di comprensione ai quali vuole puntare, lo spettacolo visto al Teatro India di Roma, è prima di tutto un meccanismo teatrale a tratti infallibile per ritmo, connotazione visiva, ricerca sulla recitazione - alimentata da decine di registri differenti - e sonorizzazione della scena, quest’ultima affidata, come sempre accade nei lavori di Latini, alla funambolica costruzione musicale di Gianluca Misiti. D’altronde il complesso tessuto di segni, che va necessariamente a comporre le ragioni e il ripensamento di un percorso artistico, si scontra e si fonde con la scalata al potere di Padre Ubu, con una scena viva e divertente - alimentata da attori e performer di altissimo livello - rappresentando perciò proprio una di quelle soluzioni immaginarie che la Patafisica di Jarry avrebbe voluto.