Il sorriso del gatto di Fassbinder
Fassbinder scrisse Sangue sul collo del gatto poco più che ventenne, in piena contestazione, in un periodo di grande impegno: di poco prima (1968) è Katzelmacher, storia di razzismo ai danni di un lavoratore straniero. Come per la carriera cinematografica, Fassbinder brucia le tappe e in un anno e mezzo con il suo gruppo Anti-Theater dirige una dozzina di opere teatrali; di un terzo è anche autore. Cosa vuol dire riportarlo a teatro oggi, nel trentesimo anniversario della morte? A Roma oltre all’Accademia degli Artefatti di Fabrizio Arcuri (prodotto da Monaco in collaborazione con lo stabile capitolino, presentato al teatro India) ci ha pensato la rassegna Trend, ideata da Rodolfo di Giammarco, nella versione tedesca. Ma, anniversari a parte, passato il Sessantotto, gli anni di piombo e catapultati in un presente dove l’impegno politico è parcellizzato, frammentato e liquefatto tra Facebook e la piazza, tornare a misurare la temperatura di quel sangue che zampilla dal collo dell’operaio allora come oggi è fondamentale e lo specchio del teatro di Fassbinder ne è un moltiplicatore fenomenale.
Non a caso Orazi e Curiazi, spettacolo della scorsa stagione dell’Accademia, cominciava proprio nelle macerie dell’impegno politico, tra le bandiere e i manifesti di una lotta il cui rosso era sbiadito e demenzialmente commovente, insomma proprio tra i resti di quella stagione nella quale l’autore e regista tedesco scrisse la pièce. Anche in questo caso Arcuri - ormai conteso tra Germania, Francia e Russia per vari progetti - trova il motore della rappresentazione nell’ironia del testo, quasi a volerne dichiarare l’assoluta irrappresentabilità fuori dai canoni di una certa comicità volutamente “facile”.
D’altronde l’utilizzo del paradosso è già dichiarato nel plot: Fassbinder racconta di un’aliena, Phoebe Zeitgeist, mandata sulla terra per studiare la nostra vacillante democrazia, che si ritrova a essere testimone silente del decadimento morale di una società che sembra non aver imparato nulla da quella guerra terminata neanche 25 anni prima. Un poliziotto tutto d’un pezzo, con tanto di moto parcheggiata in un angolo, incapace di gestire la ragazza aliena senza documenti (“tutti hanno un passaporto, non esiste uno che non ha un passaporto. Questo mi hanno insegnato”), un triste gigolò di quartiere, un macellaio che si scopre inadatto a giochini sadomaso, un soldato ubriacone e potenzialmente violento, una donna divorziata alla ricerca di carezze, un’altra emotivamente instabile e col vizio di rubare, un altro sempre pronto a scrutare la fine abitano in quello che sembrerebbe un set cinematografico dove si girano frammenti di una sceneggiatura anni ‘60, tranci di American graffiti che montati insieme potrebbero trasformarsi in uno di quei videoclip da post-punk anni ‘90.
I personaggi “giocati” - mai come in questo caso occorre derubare inglesi e francesi di quel significante per evidenziarne parte del significato - dagli attori degli Artefatti sono i protagonisti “plastificati” di questo microcosmo urbano in miniatura, si amano, senza sentimenti, si accendono per nulla, hanno paura di se stessi e degli altri. Illuminati da due set di luci di taglio, uno rosso e uno verde, si mettono in mostra, il pubblico è privato e viceversa, fuggono da qualsiasi forma di solidarietà o di interesse verso l’altro e volteggiano insieme alle loro piccole passioni su di un girevole (il grande assente dei palcoscenici italiani) che ben rappresenta il centro delle aspirazioni borghesi occidentali: la casa in cui possiamo spiare e un prato verde sul quale all’occorrenza si può svenire oppure morire con una bandiera americana come lenzuolo.
Arcuri si trova a proprio agio non solo nelle liriche ma anche negli approcci teorici ed estetici dell’autore tedesco, tanto da utilizzare proprio una sua riflessione come incipit delle note di regia: “L’esperienza che feci con Straub, quella sua serietà un po’ comica di lavorare e di rapportarsi agli altri, è stata davvero affascinante. Ci faceva recitare e poi ci chiedeva: come vi sembra di aver recitato? Ed era giustissimo fare così, cioè abituarsi a un certo atteggiamento: osservarsi mentre si recita; è lui che ha messo a punto questa nuova tecnica che impedisce un’identificazione totale tra il ruolo e l’attore”. D’altronde come non ritrovare, soprattutto nella parte finale di questa considerazione, tanto del lavoro della compagnia romana. Dichiarata è pure l’ispirazione nei confronti di un certo cinema (anzi di una certa tv cinematografica potremmo dire) proprio rispetto alla celebre serie Berlin Alexanderplatz.
Il merito di Arcuri, con tutti i rischi del caso, è quello di percorrere la sua strada con convinzione e sincerità, senza paura di osare: da qui gli omaggi musicali alla cultura pop, come Starman di Bowie o il Michael Jackson finale, e quel meccanismo comico - arma a doppio taglio proprio perché esasperato e forse non sempre capace di far presa sul pubblico. Arcuri sembra voler cercare l’elisione tra i confini opposti (amarezza e sorriso), il risultato è una risata che risuona nel vuoto dell’incomprensione. Il finale vede Phoebe, nonostante l’incapacità di capirne il contenuto, appropriarsi di frasi ascoltate dagli altri ricreando un discorso di disperazione e decadenza, prima di affondare ancora una volta nel vuoto col simulacro più rappresentativo del trash contemporaneo: l’omaggio agli zombi del Re del pop, proprio lui, icona della società delle apparenze.