Pensiero e azione pubblica / Hammarskjöld: la Buona politica

19 Ottobre 2021

Il 18 settembre del 1961, in un incidente aereo molto sospetto e mai chiarito, vicino all'aeroporto della città di Ndola, dove si stava recando per cercare una soluzione alla crisi provocata dall'insurrezione indipendentista del Katanga dopo la dichiarazione d'indipendenza del Congo, morì l'allora Segretario Generale delle Nazioni Unite Dag Hammarskjöld. Sull'incidente non è stata ancora fatta chiarezza, nonostante la pubblicazione in anni recenti di un'accurata ricerca (cfr.Susan Williams, Who Killed Hammarskjöld? The UN, the Cold War and White Supremacy in Africa, 2011) abbia spinto l'ONU ad aprire una nuova indagine. Negli anni Sessanta, d'altra parte, non ci si facevano molti scrupoli ad eliminare personaggi scomodi, come ad esempio il monaco trappista Thomas Merton, grande e influente oppositore della guerra nel Vietnam, morto nel 1968 in un inspiegabile incidente ancora avvolto nel mistero. Un mistero che ancora avvolge la morte di Enrico Mattei nel 1962 e gli assassinii tutt'altro che chiariti dei due Kennedy (1963 e 1968), di Martin Luther King (1968) e di Malcom X (1965), per citarne alcuni. Capitava allora che, col pretesto di difendere dei grandi ideali, organizzazioni segrete appoggiate dai vari Stati procedessero senza molti scrupoli morali alla soppressione degli avversari economici o politici, o alla destabilizzazione di interi Paesi… ma certo oggi non accade più. 

 

E, comunque, esiste un modo diverso d'intendere la politica internazionale, perché c'è un codice etico a cui si deve e si può informare ogni azione politica e ci sono uomini politici che ancora concepiscono la loro attività come una responsabilità e un servizio da rendere all'umanità. Tra questi va annoverato Dag Hammarskjöld. Di lui e del suo modo d'intendere la politica tratta il saggio di Roger Linsey, Hammarskjöld: etica e politica uscito presso l'editore Qiqajon che già ne aveva pubblicato diversi anni fa il diario personale (Tracce di cammino, a cura di Guido Dotti). L'autore, studioso e biografo di Hammarskjöld, in questo libro vuole evidenziare il legame che emerge – nei suoi discorsi e negli scritti, sia pubblici che privati, qui citati ampiamente – tra la vita interiore di Hammarskjöld e la sua azione politica. Ma vuole anche, come appare più chiaramente nel titolo in lingua originale del libro, Politics and Conscience. Dag Hammarskjöld on the Art of Ethical Leadership, presentare ai lettori la visione di Hammarskjöld, lungimirante e ancora molto attuale, riguardo alle caratteristiche personali e umane necessarie a un leader che voglia agire seguendo principi etici e non soltanto interessi di parte.

In quanto capo di un'organizzazione internazionale volta ad evitare che si ripetessero tragedie come quelle delle due guerre mondiali, trovandosi ad agire in un'epoca di grandi incertezze, in piena Guerra Fredda, sotto la minaccia incombente di una catastrofe nucleare, Dag Hammarskjöld riteneva suo compito assoluto promuovere il dialogo tra le nazioni e la pace.

 

Perseguiva questi obiettivi, sottolinea Lipsey, con i tradizionali strumenti dell'azione diplomatica – pazienza, perseveranza, astuzia – aggiungendovi, come elemento non secondario e strumentale, ma come parte sostanziale dell'attività legata al suo ruolo politico internazionale, una serie di attitudini e atteggiamenti che nell'insieme venivano a delineare un vero e proprio codice etico al quale riteneva dovesse conformarsi ogni azione politica. E le radici di questo codice dovevano trovare il proprio fondamento nella qualità della vita interiore della persona, perché una buona politica non può prescindere dalle qualità morali dei leader.

 

 

Coraggio e prudenza, ma anche maturità intellettuale e psicologica, conoscenza di se stessi e consapevolezza delle proprie debolezze e delle proprie forze, riteneva fossero tutte caratteristiche ugualmente necessarie a chi si voleva impegnare nel vischioso campo della politica. «Il nostro lavoro per la pace – affermava in un discorso del 1953 – deve iniziare dal mondo privato di ciascuno di noi. Per costruire per l’uomo un mondo senza paura, non dobbiamo avere paura noi. Per costruire un mondo di giustizia, noi dobbiamo essere giusti. E come possiamo batterci per la libertà se non siamo liberi nella nostra mente? Come possiamo chiedere agli altri di sacrificarsi se noi non siamo pronti a farlo?». 

 

Una buona politica deve essere etica e non può limitarsi a difendere qualche interesse, né può essere garantita «in un mondo dove il valore di mercato di un politico alla borsa dell’opinione pubblica sale e scende in base all’effetto che fa ogni giorno attraverso i titoli dei giornali» o, diremmo oggi, dei like che accumula sui social. Per una buona politica occorre conoscere e comprendere l'uomo e la sua psiche, perché solo così «saremo in grado di diminuire i pericoli della paura e del sospetto e del comportamento irrazionale che ne deriva». Alcuni nella società hanno una responsabilità per la quale è necessario molto di più dell'intelligenza, bisogna avere a cuore il bene degli altri, volere prendersi cura del mondo, ognuno nel suo ambito, piccolo o grande che sia: «Chi è chiamato a essere insegnante o leader può trarre profitto dall’intelligenza, ma può solo giustificare la sua posizione con l’integrità». 

 

C'è un codice morale a cui attenersi. Ogni epoca, ogni civiltà ha il suo, ma chiunque comprende senza difficoltà che vi sono anche valori e atteggiamenti che stanno alla base di ogni codice, che travalicano tempo e culture. Perché altrimenti ci sembrerebbero ancora importanti i discorsi di Pericle sulla democrazia? O come ci potrebbero sembrare ancora significativi gli scritti di Marco Aurelio, il cui spirito riecheggia nella risposta data da Hammarskjöld a un giornalista che gli domandava quali fossero, secondo lui, le principali qualità di un funzionario internazionale: «Dovrebbe darmi un po’ di tempo per pensarci. Di primo acchito, però, direi che tra queste qualità ci sia una consapevolezza acuta e una quiete interiore. E anche una certa umiltà…». 

 

Dag Hammarskjöld si era formato, come persona e come uomo politico, leggendo «un insieme di testi formidabili, che plasmarono il suo approccio all’identità umana e gli insegnarono a vivere la sua vita pubblica a partire dalla sua interiorità»: la Bibbia, i mistici medievali, i testi religiosi classici dell'india e della Cina, i saggi di Albert Camus e di Martin Buber, il filosofo del dialogo e suo grande amico. Uomo d'azione ed esperto di dottrine politiche, Hammarskjöld ricorda quei grandi politici, rari nel passato e forse ormai scomparsi, per i quali pensiero e azione pubblica erano tutt'uno; o, meglio, la cui azione era ispirata e diretta da profonde convinzioni interiori e da obiettivi che andavano ben al di là dell'immediato, non di rado al di là del limite della loro vita.

 

Un'apertura sul futuro, tipica di chi ama i grandi orizzonti dello spirito, che gli fece intuire, ben prima della globalizzazione, l'interdipendenza degli uomini e delle nazioni. Le Nazioni Unite, sosteneva, «dovranno capire – e sfidare – la paura che motiva gran parte dell’azione umana, la paura che è il nostro peggior nemico, ma che, per qualche ragione, sembra contaminare qualche angolo del cuore di ogni uomo». Che pessima consigliera si sta dimostrando anche nei nostri anni la paura! E tuttavia il mondo può cambiare, piano piano; in fondo bastano pochi giusti in ogni generazione per provocare un contagio dell'eccellenza che faccia da contraltare al contagio della corruzione, un contagio della ragione che argini l'irrazionalità, della fiducia che sconfigga la paura. «Coloro che non osano affrontare i fatti fondamentali dell’interdipendenza internazionale si perdono. Coloro che permettono alle sconfitte di spaventarli sino a farli tornare a un punto di partenza di stretto nazionalismo si perdono. Si perdono, infine, coloro che sono così spaventati da una sconfitta da disperare per il futuro. Per tutti questi possono essere giustificate le buie profezie». Ma non per noi.

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