Un libro di Paolo Ventura / Autobiografia di un impostore

12 Maggio 2021

In copertina si vede il volto di un uomo che fuma una sigaretta. Una spira di fumo si alza verso la sua fronte, la attraversa come un pensiero. Va oltre il suo capo, sembra perdersi nello spazio. Un altro alito di fumo, invece, si sovrappone al suo volto, ricorda una ruga attorno alla bocca. Carne e fumo sembrano composti della stessa materia. Le labbra sono chiuse, l’uomo non sta aspirando, la sigaretta è solo un piccolo tunnel dentro cui soffiare le parole. Fumare è lasciare che una parte di sé esca con il fumo, come una storia.  L’uomo è Paolo Ventura, l’immagine è un autoritratto, il libro si intitola Autobiografia di un impostore narrata da Laura Leonelli (Johan & Levi, 2021). 

 

© Paolo Ventura.


Inizia, come spesso accade, dal momento della nascita: “se devo dire il giorno in cui sono venuto al mondo, il giorno vero della mia nascita, quello in cui ho inventato la mia storia, dico che sono nato una domenica d’inverno, a Milano, alle undici di mattina, 

in via Domenichino”. “Una domenica d’inverno” non è solo una spia temporale, è anche un modo di osservare tutto ciò che accadrà in seguito. Si sa, la domenica è un giorno strano. La “sera del dì di festa” appartiene al passato e, dopo, non resta che il tempo presente, la noia, il vuoto da colmare. Tutto sembra grigio, ma è proprio da questo colore che arrivano i ricordi e le storie. Il grigio è il velo da cui emergono le immagini di Ventura, che è un fotografo. O meglio: un fotografo-pittore che racconta storie. 

 

© Paolo Ventura.


La sua autobiografia è costellata di immagini e sembra dipinta su una lunghissima tela. L’infanzia ha la forma di una meringa che ricorda un cappello, ma anche una fiamma dalla luce opaca, di quelle che si vedono nei cimiteri. Quasi un fuoco fatuo. Occupa l’intera pagina, forse perché è l’unica cosa piacevole del pranzo domenicale a casa della nonna e delle zie zitelle. A tavola si mangia e si racconta, ma solo gli adulti possono parlare. I ragazzini devono stare in silenzio oppure rispondere alle domande che vengono loro rivolte. Il padre, Piero, è un famoso illustratore di libri per bambini, Andrea è il fratello gemello, Marco l’altro fratello; poi ci sono le zie Mariuccia e Antonia e lo zio Franco. Ciò che li unisce, e che rende unico il rito domenicale del pranzo in famiglia, è qualcosa di insolito. Tutti parlano sempre e solo di guerra. O, meglio, della Seconda Guerra Mondiale, che tutti in diverso modo hanno vissuto drammaticamente. Eppure ogni ricordo è nutrimento, anche se il sapore, a differenza delle meringhe, è amaro e le storie sono tristi. Una materia difficile da digerire per un bambino, ma non per il futuro artista, che condensa questi racconti nella statuina di una madonna senza testa, ritrovata tra le macerie della palazzina a fianco, posta sulla credenza della sala da pranzo. Questa immagine, assieme alle altre trentatré, è stata realizzata apposta per questo libro. 

 

© Paolo Ventura.


Un gesto apotropaico? Forse. Come accade con i santini, anche le immagini possono esorcizzare la paura, e persino allontanare i demoni. Sono piccole invocazioni a cui aggrapparsi. L’importante è saperle distaccare dall’oblio, o dall’inconscio, come si fa da bambini con una filastrocca di cui non si ricordano le parole. Per questo la sensazione visiva che si percepisce nelle immagini di Ventura è una sorta di vaghezza, un pathos della distanza, che le rende familiari e inafferrabili, velate da quel grigio-azzurro, che è sempre presente, anche se talvolta non appare ed evoca il momento della nascita, ovvero il colore delle domeniche d’inverno a Milano. Ma anche quello dei sogni, delle ombre, dei fantasmi. “La sospensione magica di Hopper e il dramma poetico di Sironi”, dice Ventura. Qualcosa che appare e scompare, come accadeva ai pranzi dalle zie: “verso le 17 tornavamo a casa per seguire Novantesimo minuto. (…) Era come se qualcuno avesse sgonfiato gli abitanti di quella casa e li avesse messi in una valigia, chiusa nello sgabuzzino insieme alla prolunga del tavolo, alla cerata, al feltro, alla tovaglia”. 

 

Se la guerra faceva da scenario, il padre era il nemico da abbattere. Ventura lo descrive con gli occhi di un ragazzino, come se fosse il doppio di Mangiafuoco. Una figura ingombrante che “odiava la vita, odiava se stesso, odiava gli altri”, ma che è anche il motore di ogni azione. Appassionato di storia medievale, il padre inventa lunghissime e complicate narrazioni, con lui si gioca a fare la guerra, che è diventata il suo mondo. “Mi sembrava naturale essere in guerra, ascoltavo racconti di guerra, mi muovevo come in guerra, c’erano le imboscate, gli attacchi, le punizioni, gli ordini, la reclusione. Mio padre se la prendeva soprattutto con me, perché io l’affrontavo a viso aperto, a modo mio, da bambino”.

Il padre è anche il carceriere che costringe i figli a trascorrere ogni estate in una casa isolata, in mezzo al bosco, sui monti sopra Arezzo, in una località chiamata Spilino. L’artista la paragona a “una sorta di Black Mountain College, una Bauhaus privata” perché tutti sapevano disegnare e dovevano farlo, ma in realtà ricordava una prigione. Era costruita con il materiale di una vecchia chiesa e, racconta, “da bambino mi bastava scavare un po’ e trovavo mandibole, denti, pezzi di cranio, monetine dell’anno Mille fino al Cinquecento, conferma che per almeno cinque secoli i morti hanno avuto il passaggio nell’aldilà pagato e assicurato”. Un aldilà che lo ossessiona, ma che saprà trasformare in qualcosa di diverso dalla paura, grazie a Giulia, la nonna materna, l’unica capace di proteggerlo dal padre. 

 

Nata nel 1912 a Triches, tra le montagne sopra Belluno, era quasi analfabeta, le piaceva vestire i morti, e credeva nel massariol, “lo spirito dei boschi, un fantasma dispettoso, vestito di rosso, che aveva la capacità meravigliosa di trasformarsi. Poteva diventare un vecchio, un gatto, un serpentello. Alle donne dava i pizzicotti e ai bambini disubbidienti tirava i piedi di notte”. A Natale portava i nipoti a vedere il circo: “mi piaceva questa visione, la nebbia, il tendone del circo pieno di toppe e al massimo vedevo un cavallo, o un asino, legato a un palo. Mi piaceva quel mondo, quella gente che vagava in una precarietà continua, come sulla corda del funambolo”, ricorda Ventura. 

 

Gli aveva trasmesso una naturale “confidenza con la morte”, diversa da quella tenebrosa della guerra, simile invece al passo leggero del funambolo sospeso nel vuoto, o dei morti da vestire, a cui voler bene, proprio come era abituata al suo paese. Il circo è il luogo dell’infanzia, in cui forme e colori possono sbizzarrirsi, in cui le pose, i costumi, i drappeggi possono variare all’infinito. Al circo, scrive Jean Starobinski, “l’uomo si trasforma insieme in qualcosa di più e qualcosa di meno dell’uomo: un genio alato e un rospo”.

 

Paolo capisce che la morte può diventare un gioco e l’artista può sentirsi un saltimbanco. I clown, i pagliacci, i soldatini dei suoi lavori futuri, come il circo, sono il suo personale “ritorno del rimosso”, ma anche la promessa di una “liberazione estetica”. Può finalmente passare dalla goffaggine all’agilità acrobatica. La guerra è lo scenario dove ambientare le proprie battaglie. Il padre si combatte con le sue stesse armi: la fantasia. Come Alice nel paese delle meraviglie, Ventura si inventa la propria voragine, che non si spalanca più su un abisso di noia, ma conduce dritta al sogno. 

 

Per Ventura il buco è quello di una pozza d’acqua dove si abbeveravano le pecore a Spilino. “Quella pozza era la mia trincea. Piantavo i pali, tiravo il filo spinato, il resto era già pronto, avevo trovato gli oggetti, li avevo dipinti, mimetizzati. Le divise erano vecchi cappotti e le munizioni erano quelle della Seconda guerra mondiale, anche se la scena che immaginavo apparteneva alla Guerra del ’15-’18. A quel punto toccava ad Andrea, che protestava, ma poi si arrendeva e accettava. Lui non sapeva fotografare, io ero il fotografo e lui il modello. Lo vestivo, lo sdraiavo nel fango, come fosse un soldato colpito in azione e abbandonato dai compagni che avevano continuato la marcia. (…) Adesso toccava a me creare la scena”.

 

Il “fotografo-impostore” ha preso il sopravvento sul ragazzo impaurito: “avevo capito che la fotografia aveva il dono di imbrogliare nel modo più straordinario, rendendo credibili non solo le cose che erano avvenute, ma quelle che non erano mai esistite. La fotografia riportava in vita l’invisibile, i ricordi che restano nella memoria delle persone e nei luoghi dove è passata la storia”. 

 

L’impostore è colui che impone le cose, le manipola, le sovrappone l’una all’altra.  Ventura imposta la sua realtà sulla finzione.  La fotografia rende credibile i suoi mondi fantastici, cancella il discrimine tra vero e illusione, come sarà per War Souvenir (2005), Winter Stories (2007-2009) o per Behind The Walls (2011). 

 

Sarà così anche nei dieci anni in cui farà il fotografo di moda a Parigi per importanti riviste come Amica, L’Uomo Vogue, Glamour UK. Eppure la moda era troppo “debole, troppo bella, troppo altrui perché potessi affidare quei ricordi. La moda non la volevo più, la fotografia sì”. Superata quella che sembra una frontiera, compiuta quella che ha l’aria di una iniziazione, decide di lasciare Parigi. Raggiunge il fratello Andrea a New York e inizia la sua ricerca di artista. Alcuni incontri fortunati, come quello con la visual editor del New Yorker Elisabeth Biondi, che lo presenta a Melissa Harris, direttrice di Aperture, gli consentono di far conoscere la sua ricerca a livello internazionale. 

 

La sua è un’opera in cui tutto procede idealmente al meglio, il negativo convive con il positivo. Attraverso le immagini riesce a spingersi oltre il conflitto con il padre, sconfigge la sua ossessione, ovvero la presunta superiorità della figura paterna, attraverso una fuga reale, a New York, e una fuga artistica, dentro i ricordi e le storie che avevano popolato la sua infanzia. Vale per tutte la storia dell’orologiaio e del suo automa, una di quelle inventate dal padre. L’aveva ambientata ad Amsterdam, durante la Guerra dei trent’anni. Ventura riprende i personaggi ma ne cambia la città: “avevo scelto Venezia nell’inverno del 1943. Il mio orologiaio era un vecchio ebreo, un uomo solo che vede il ghetto svuotarsi di fronte alla minaccia degli arresti e della deportazione (…). Allora il vecchio decide di costruirsi un automa, qualcuno che gli faccia compagnia, in attesa che vengano ad arrestare anche lui. L’automa è un bambino di nome Nino”. 

Il libro termina con la nascita del figlio che si chiama Primo. Sicuramente un omaggio onomastico, ma ancor più un numero ordinale, un punto e a capo che necessariamente coincide con la conclusione di un altro discorso per troppo tempo aperto. 

Il figlio ha dovuto uccidere il padre, è diventato padre. 

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