Elogio della crescita felice / Che cosa è la transizione ecologica?

30 Marzo 2021

Da quando il sistema industriale a caccia di guadagni è arrivato nei paesaggi dell’ecologia ha cambiato suo linguaggio, ha posto il proprio fine al centro e l’ecologia ha iniziato a esprimersi solo in termini di economia e di tutto ciò che la riguarda. Risparmio, riciclo, produzione sono diventate le direttive riconosciute. Naturalmente il risparmio è energetico, il ricliclo è dei materiali, la produzione è sostenibile. Così oggi – eco – viene a evocare più l’idea di eco-nomia che quella di eco-logia. Oggi in Italia si parla molto di transizione ecologica, e non ci sarà da stupirsi se la logica sarà quella eco-nomica piuttosto che quella eco-logica. 

 

Ma ormai la sostenibilità è diventata una base comune, tanto che Chicco Testa, nel suo Elogio della crescita felice, contro l’integralismo ecologico, uscito per Marsilio nel settembre 2020, chiama ambientalista collettivo colui che “è impregnato da un insieme di manifestazioni, credenze, comportamenti, emozioni, facile informazione, esagerazioni, stereotipi culturali e spesso fake news mai verificate, che travalicano dalle pagine dei notiziari, delle tv, dai vari social network e dalle chiacchiere fra amici e conoscenti in uno zibaldone confuso in cui problemi grandi e piccoli vengono sovrapposti senza gerarchie né valutazioni critiche.” Insomma, l’ecologia è diventata un argomento comune con i suoi miti e leggende. Testa, ambientalista di lungo corso, già presidente di Legambiente e di Enel, in questo piccolo testo che ha i toni di un pamphlet militante, cerca di mettere i puntini sulle i nel probabilmente vano tentativo di dare informazioni corrette a tutti e in particolare al nostro ambientalista collettivo

 

 

Nel libro Testa fa il punto su molti argomenti, che visti da un’altra prospettiva assumono caratteri completamente diversi. Per esempio, riporta un rapporto della Dia, la Direzione Investigativa Antimafia, che basterebbe a confermare i dubbi che spesso vengono osservando la grande quantità di azioni che si sono create con l’affermarsi della raccolta differenziata. “È assolutamente necessario ridurre il più possibile l’intera filiera e fare in modo, così, che la chiusura del ciclo possa avvenire in prossimità del luogo di produzione del rifiuto, al di là della sola logica del conferimento in discarica. I trafficanti lo sanno bene: più rifiuti, più passaggi, più chilometri, più affari in vista.” Testa si scaglia anche sull’inutilità degli incentivi alle rinnovabili, nota come il raggiungimento degli obbiettivi di minor inquinamento negli stati ricchi spesso significa semplicemente spostare la produzione negli stati del cosiddetto terzo mondo, senza spostare di una virgola la reale incidenza dell’inquinamento. 

 

In mezzo a una serie di argomenti trattati con grande competenza e finalmente in maniera diversa dal solito, mi sono chiesto perché si parli di un altro grande tema dei nostri tempi, l’olio di palma, omettendo completamente il vero motivo per cui oggi si tende a non utilizzarlo. Testa ci dice cose verissime e che è necessario ribadire, cioè che è sano, lo si usa da sempre, non ha nessuna controindicazione, ma forse nella foga della difesa si dimentica di menzionare il vero motivo per cui si cerca di limitarlo, che non ha nulla a che vedere con la sue qualità organiche, ma che deriva dal fatto oggettivo che per coltivare le palme da cui proviene si sono disboscate intere aree in particolare dell’Indonesia dove solo tra il 1990 e il 2015 sono stati rasi al solo 24 milioni di ettari di foresta pluviale con conseguente impoverimento della biodiversità e come questa distruzione sia la causa principale degli incendi che ogni anno colpiscono le foreste dell’Indonesia.

 

“Da un punto di vista ambientale dovremmo erigere un monumento alla plastica” dice Testa nel capitolo relativo, e riesce ad argomentare in maniera talmente chiara che forse stavolta anche l’ambientalista collettivo più incallito potrebbe mostrare segni di cedimento. Dal fatto che le materie sintetiche abbiano consentito di sostituire quelle naturali, alcune ormai rare come l’avorio o l’olio che derivava dalla caccia alle balene, fino alla considerazione che in casi estremi, come quello della pandemia in cui ci troviamo, le materie di sintesi chimica costituiscono un aiuto indispensabile e i problemi non vengono da loro in sé, ma dalla maniera in cui vengono trattate e smaltite. 

 

 

Ma oggi, presa coscienza di limiti e opportunità, è il momento di fare un salto di qualità nella considerazione delle materie di sintesi. La ricerca scientifica sta aprendo orizzonti che mettono in discussione l’idea stessa di vita come l’abbiamo sempre considerata, tanto che in un articolo pubblicato nel 2020 sulla rivista “Life” gli astrobiologi Stuart Barlett e Michael Wong hanno proposto una diversa definizione del concetto di vita, definendola lyfe, che in una traduzione italiana potrebbe suonare vyta. È Laura Tripaldi a parlarcene, nel suo Menti parallele, edito da Effequ nel novembre 2020. “Secondo gli autori, se la vita terrestre è un particolare fenomeno fisico-chimico che si manifesta in presenza di acqua liquida, basato su molecole organiche a base di carbonio e che mantiene il proprio ordine interno attraverso la dissipazione di energia, possono esistere molte diverse forme di vita, o meglio di vyta, dotate di caratteristiche molto diverse. La definizione di vyta si articola attorno alle quattro caratteristiche fondamentali di dissipazione, autocatalisi, omeostasi e apprendimento.” 

 

Questa differente visione ci permette di guardare con occhi diversi alle proprietà dei materiali che fino ad ora abbiamo considerato inerti, in particolare a quelli di sintesi che vengono definiti smart material, i materiali capaci di rispondere a stimoli ambientali. La Tripaldi fa l’esempio, tra gli altri, del comportamento collettivo di un insieme di nanoparticelle sferiche di polistirene disperse in acqua e racchiuse fra due vetrini trasparenti. Quando vengono colpite da un raggio laser, le particelle si aggregano spontaneamente in strutture organizzate che si assemblano e disassemblano spontaneamente ogni volta che viene acceso il laser, formando una grande varietà di strutture diverse in grado di auto replicarsi, auto ripararsi e di entrare in competizione fra loro finché non prevale la struttura capace di replicarsi più rapidamente. Detto in altri termini, manifestano comportamenti che consideriamo esclusivi degli organismi viventi. L’uso di polimeri capaci di rispondere a stimoli ambientali ha molte applicazioni, uno degli ambiti più innovativi è quello dei soft robot, automi privi di parti dure, simili a molluschi, che potrebbero essere utilizzati in ambito medico per svolgere compiti delicati e precisi. Già esistono idrogel capaci di accrescere la propria massa dopo uno sforzo, proprio come fanno i nostri muscoli. 

 

Lasciamo sbizzarrire i filosofi sulla presenza o meno della coscienza negli idrogel, quello che è certo è che qui, come del resto nelle piante, non c’è uno degli organi a cui noi umani siamo più affezionati, il cervello, che manca anche in un bizzarro organismo chiamato physaurum polycephalum, popolarmente ribattezzato melma policefala o muffa mucillaginosa. È una semplice muffa giallastra grande dai 10 cm al metro. Quello che fa impazzire gli scienziati è che questa muffa, pur essendo apparentemente priva di centro di controllo o di sistema nervoso, si muove con un’intelligenza sorprendente raggiungendo sempre i suoi obbiettivi con il minor sforzo possibile. Uno degli esperimenti più noti è stato quello di riprodurre la mappa di Tokyo mettendo fiocchi di avena, di cui è ghiotta, nei punti nevralgici. Il gruppo di scienziati che ha condotto l’esperimento sta ancora chiedendosi come diavolo abbia fatto a riprodurre con una esattezza inquietante la mappa della metropolitana di Tokyo. 

 

 

La maniera di espandersi nello spazio della muffa mucillaginosa fa pensare immediatamente a una rete con una serie di nodi. È una metafora che ultimamente ricorre piuttosto spesso, fra i pensatori. Bruno Latour ci si avvicina con il suo concetto di attante. Al filosofo francese, tra i più noti del pensiero ecologico, è dedicato il piccolo volume di Mariano Croce edito da DeriveApprodi nel dicembre 2020 e che ripercorre il suo pensiero attraverso cinque parole chiave. Una di queste, è proprio Attante. Latour sostiene che “non esista cosa, e tantopiù persona, che non sia l’effetto di un concatenamento di nodi entro una rete.” Croce dispiega il pensiero di Latour notando come il concetto di attante nasca nell’ambito della semiotica di Julien Greimas e indica “colui che compie o subisce l’atto, indipendentemente da ogni altra determinazione. Sono attanti gli esseri e le cose che, a qualsiasi titolo e in qualsivoglia maniera, anche a titolo di semplici comparse e nella maniera più passiva, partecipano al processo.”

 

Qualche anno prima, Raimon Panikkar nel testo La pienezza dell’uomo, edito in Italia da Jaca Book nel 2003, dice: “Si può descrivere la persona come un nodo in una rete di relazioni. In questa prospettiva l’individualità è soltanto il nodo astratto, reciso da tutti i fili che di fatto concorrono a formare il nodo. I nodi senza i fili non sono nulla, i fili senza i nodi non potrebbero sussistere. I nodi hanno una funzione molto pratica: essi consentono modi efficienti di riferirsi all’attività umana, dalle carte d’identità ai diritti umani dell’individuo stesso. Ma un nodo è un nodo perché è fatto di fili legati insieme con altri nodi per mezzo di un reticolo di fili. I nodi non sono reali ma nemmeno lo sono i fili. La rete forma costitutivamente un tutt’uno. Questa similitudine, per quanto spaziale e materiale, mostra però come non possa esistere un nodo individuale, e come tutti i nodi si implichino l’un l’altro e si mantengano uniti. La realtà è la rete, la realtà è relazionale.” Panikkar prosegue notando come in ogni essere siano rappresentati tutti gli altri, ogni nodo rispecchia tutti gli altri nodi, quindi l’alius non esiste, non c’è io senza un tu e viceversa, la persona è relazione e la coscienza personale non è uno spazio recintato, ma un’agorà comune dove gli esseri interagiscono. 

 

La società umana come muffa policefala, una rete che si genera come fa la ragnatela dal corpo del ragno ed è il ragno a tutti gli effetti, il confine fra vita e non vita che si dissolve alla scala in cui operano le nanotecnologie lasciandoci orfani non solo del primato della coscienza, ma anche di quello della vita, il cui concetto si espande in altre dimensioni possibili. Questi sono temi di cui la neoecologia inizia ad occuparsi, cercando quel salto che la porti oltre. 

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