Mappe, confini e orizzonti

3 Ottobre 2024

Possiamo immaginare un gruppo di uomini che durante il Pleistocene si sposta, cammina attraverso savane, boschi, foreste, sale su catene montuose, le attraversa e continua ad andare avanti, quando incontra un ostacolo lo supera e poi avanti, sempre avanti, come direbbe Cercas nelle ultime parole dei Soldati di Salamina, fino a quando, annunciato da voli di uccelli diversi e da qualche cambiamento nella vegetazione, si trovano davanti il primo, vero, insormontabile confine. Sono arrivati al mare. Non si può camminare oltre. Sì, avevano incontrato qualcosa di simile fatto d’acqua, fiumi, laghi, ma avevano sempre trovato il modo di guadarli o girar loro intorno. Qui no. Questa lunga striscia di confine impedisce di andare oltre camminando come hanno sempre fatto. E alzando lo sguardo, vedono quell’acqua formare qualcosa che ancora non avevano mai visto: una linea perfettamente retta. Un confine invalicabile e la linea retta sono in qualche modo vicini, legati fra loro, forse, in ogni caso inseparabili. 

Orizzonte e linea retta si collegano da allora nella nostra mente, ci si può chiedere se la predilezione per le linee rette che abbiamo coltivato dal Neolitico non derivi dalla nostalgia dell’orizzonte. Uso “coltivato” non a caso: è nel tracciamento dei confini dei campi coltivati il germe di tutti i confini successivi, dal gesto fisico di ritagliare la terra, di separarla, di chiuderla per difenderla, per dare visibilità all’appartenenza, da quel gesto sono generati i confini delle città e degli stati. Orizzonte sublimato nella linea retta di demarcazione della terra? Trasformato nel suo contrario? “Cammina, cammina, l’orizzonte sarà sempre alla stessa distanza” aveva scritto Kafka. Orizzonte e confine sono incompatibili ma almeno in mare partecipano della stessa forma: la linea retta. 

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Se sviluppiamo l’idea dell’incontro col mare come primo confine vediamo che è esattamente quel confine che dà la forma al mondo. Quando siamo arrivati noi Sapiens per conoscerlo l’abbiamo percorso a piedi, in groppa ad altri animali e abbiamo costruito strumenti per navigare oltre il confine della terra, verso quell’orizzonte che rimaneva sempre alla stessa distanza. La storia della navigazione coincide con quella della scoperta del mondo e con l’immenso e fantastico immaginario che si porta dietro. Qual è la forma del mondo? Ce lo siamo chiesti da sempre e abbiamo iniziato a disegnarlo. Le prime mappe che conosciamo risalgono al III millennio e ci piace pensare che sia stato Anassimandro di Mileto nel 541 a disegnare la prima mappa della terra, anche se lo sappiamo solo dai racconti di altri. Quello che è certo è che quella forma, quelle linee che tracciavamo erano sempre il confine fra l’acqua e la terra. La storia della forma del mondo è quella dei confini fra terra e mare che tracciavano i primi navigatori, una storia di resoconti di viaggi reali o immaginari, di libri persi come Sull’Oceano di Pitea il Marsigliese di cui Strabone e Polibio dicevano si fosse inventato quel viaggio che verso il 350 a.C. l’aveva portato fuori dalle colonne d’Ercole, a Nord attraverso il Mare Esterno fino al mare di latte di quella che non si chiamava ancora Groenlandia. 

Ma la ricerca della realtà che non procede in linea retta verso la verità, fa balzi in avanti, brusche frenate e passi indietro che durano millenni spesso grazie a potenti immaginari che qualcuno chiama religioni. Così l’idea che la terra su cui camminiamo fosse una sfera venne probabilmente a Pitagora nel V secolo prima di Cristo. Qualche centinaio d’anni più tardi, intorno al 240 a. C., a Eratostene, che a quel tempo dirigeva il museo e la biblioteca di Alessandria, venne la curiosità di calcolare quanto fosse grande quella sfera. I viaggiatori raccontavano che a Siene, la cittadina lungo il Nilo che divenne Assuan, ci fosse un pozzo dove i raggi del sole scendevano dritti fino in fondo a mezzogiorno del 21 giugno. Erastotene pensò che se a mezzogiorno del 21 giugno fosse riuscito a misurare l’angolo di un’ombra ad Alessandria, sarebbe riuscito a calcolare le dimensioni della terra. La distanza fra le due città la conosceva: cinquanta giorni a cammello e un cammello percorre circa cento stadi al giorno. Non gli restava che aspettare il 21 giugno. Così fece e il calcolo risultò essere di 250.000 stadi, che in misure a noi più note dà 46.250 chilometri. Forse considerava un cammello troppo lento o troppo veloce, sta di fatto che la circonferenza della terra è di 40.075, un’approssimazione di 6.000 chilometri, niente male per quei tempi, considerato che Aristotele aveva sparato 68.000 e Archimede 48.000. Qualche anno dopo Aristarco di Samo se ne uscì con l’idea che non fosse il sole a girare intorno alla Terra, ma il contrario, insieme agli altri pianeti. Insomma, duecento anni prima di Cristo, sapevamo che la terra è una palla che gira intorno al sole e sapevamo anche quanto fosse grande. 

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Ma quasi cinquecento anni più tardi, nel secondo secolo d.C. arriva Tolomeo, scrive la Geografia e la definisce: “La Geografia è la rappresentazione tramite immagini dell’intero mondo conosciuto e dei fenomeni in esso contenuti.” Un’ottima definizione che sfida la prova del tempo. Tolomeo fonda di fatto la geografia e la cartografia di impostazione scientifica, inventandosi metodi di rappresentazione sul piano di una realtà sferica, ma, nessuno è perfetto, pensa che le idee di Aristarco siano bizzarre e riporta al centro del cosmo la Terra. Ma questo è nulla rispetto a quanto successe nel 391 d.C., quando una folla di cristiani diede fuoco alla biblioteca di Alessandria distruggendo in una notte gli sforzi di conoscenza di secoli. Nello stesso secolo del rogo della conoscenza, Caio Giulio Solino, un grammatico romano dalla spiccata propensione al plagio e alla fantasticheria, scrisse un’opera che divenne fondamentale per tutto il Medio Evo e oltre, il Polyhistor. Scopiazzando da Plinio il Vecchio e soprattutto inventando di sana pianta, costruì un’immagine del mondo che resse secoli. Suoi sono gli uomini dal piede equino e le orecchie lunghissime, cacciatori con un occhio solo, uomini con una sola gamba e un piede tanto grande da servire come parasole, grifoni sanguinari, uccelli dalle penne fluorescenti, formiche giganti, fiumi fiammeggianti e altre piacevolezze. I cartografi erano entusiasti di raffigurare sulle proprie carte le mostruosità documentate da Solino, così le mappe si riempirono di illustrazioni fantastiche che le rendevano più vivaci. 

Degni compari di Solino, ma molto più convinti, furono gli studiosi della topografia cristiana, tra i quali spicca per purismo un monaco del sesto secolo, Cosma. Nonostante la sua precedente attività di mercante che lo aveva fatto viaggiare, divenuto monaco decise che la questione della forma del mondo era semplicissima da risolvere, anzi, era già risolta, bastava leggere la Bibbia. Paolo nelle lettere agli Ebrei descrive il tabernacolo come “santuario terreno” e allora era tutto chiaro: il candeliere rappresentava la luce del cielo, la mensa era la Terra, una tavola piatta dove al centro c’era naturalmente Gerusalemme, come confermato da Ezechiele: “Questa è la Gerusalemme che io fondai in mezzo alle genti e le loro terre intorno a lei”. Uomo dalle idee chiare, Cosma indicò anche la posizione del Paradiso, che come tutti sanno è a Oriente. Un secolo più tardi Isidoro di Siviglia fu ancor più preciso sull’ubicazione del Paradiso e sulla forma esatta del mondo che si stabilizzò assomigliando a una T iscritta in un cerchio. Il semicerchio in alto era occupato dall’Asia, in quello in basso stavano Europa e Africa. 

Per fortuna non c’erano solo cristiani al mondo. Ruggero II, re normanno di Sicilia, dal 1139 al 1154, si dedicò a cercare di conoscere il più precisamente possibile i confini del suo reame poi, non pago, volle conoscere tutto il resto: com’era fatto il mondo? Consultò libri, viaggiatori e i più noti geografi dell’epoca, ma le versioni contrastanti che ne riceveva lo irritarono al punto che decise di cercare uomini che conoscessero per pratica vissuta quei paesi, li fece venire a Palermo, chiamò in aiuto Muhammad al-Idrīsī o Edrisi, uno dei più autorevoli geografi di cultura musulmana, e insieme a lui li interrogò. Al-Idrīsī aveva il compito di trasformare quella miriade di racconti in una sola narrazione e da quelli compilare una carta geografica completa, un lavorio che durò quindici anni. Fu così che nacque il Nuzhat 'al mustàq fi ihtiràq 'al 'àfàq, titolo che è stato tradotto Libro del piacere di chi anela varcare gli orizzonti e conosciuto come Il libro di Ruggero. Il libro, oltre alla narrazione del mondo, conteneva varie carte geografiche particolari e la Tabula Rogeriana, uno dei primi mappamondi che divenne la più autorevole immagine del mondo per i tre secoli successivi. Che trasformazione ebbero quei luoghi passati dagli occhi dei navigatori e trasformati in racconti e disegni fino ad arrivare ad Al-Idrīsī che per scriverne avrà dovuto reimmaginarli? Qual è il confine fra resoconti di viaggio e letteratura fantastica? Cos’hanno visto i viaggiatori e cosa inventato o immaginato di vedere? 

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Pare che neppure i marinai del tempo fossero particolarmente praticanti e propendessero più per avere notizie utili a evitare naufragi e indicazioni sicure di porti in cui trovare mercanzie e donne, che dare retta a monaci che si basavano su un libro di mitologia. Intorno al 1300 in ogni porto degno di rispetto si poteva trovare la bottega del cosmografo. Costoro erano personaggi singolari che passavano il tempo a parlare coi capitani delle navi annotando descrizioni di porti, coste e rotte marine per preparare carte nautiche delle coste ogni volta più precise e piene di indicazioni. Furono probabilmente i primi a considerare la cartografia un mestiere. Tra loro, l’italiano Pietro Vesconte elaborò una mappa del Mediterraneo che funzionò a meraviglia per secoli. In quel periodo arrivò la bussola e le carte si fecero più sofisticate, ma la svolta fu l’arrivo in Italia di un turco. Verso la metà del Quattrocento, un diplomatico turco arrivò in visita in Italia portando, fra gli altri doni, un libro che abbiamo incontrato all’inizio della nostra storia, la Geografia di Tolomeo, rispuntata a Costantinopoli qualche tempo prima. 

Geografia, limiti, confini, orientamento e forma del mondo sono elementi che hanno viaggiato sempre insieme fino alla trasformazione del mondo in un sistema industriale globalizzato. Le città, ad esempio, hanno sempre avuto fra le proprie caratteristiche la delimitazione e l’orientamento, elementi che l’industrializzazione ha abbandonato perché non rientranti nei nuovi criteri organizzativi. Il nuovo sistema adottato è una griglia ad espansione indefinita che non ammette confini e quindi centro. Viene dimenticata una delle caratteristiche che fa da sottofondo a tutta la vita delle società tradizionali, come sottolinea Mircea Eliade: la contrapposizione tra il territorio abitato, considerato sacro e reale e lo spazio circostante, sconosciuto, indeterminato, caotico. Il Mondo si genera da questa frattura. Il villaggio e la città nella tradizione hanno dei limiti che vanno continuamente preservati e ribaditi a mezzo di riti appropriati. Non necessariamente il limite è qualcosa di fisico come il Terminus romano, molti confini sono continuamente posti in discussione e ridefiniti dal comportamento rituale, come nella regione di Karnataka, nell'India meridionale, dove viene sistemata sulla testa di una persona giudicata pura una lampada di farina e burro. La persona, seguita da una processione, cammina dal centro del villaggio in direzione dello spazio selvaggio, il limite viene stabilito dal punto in cui la fiamma si spegne.

In occidente generalmente consideriamo lo spazio come qualcosa di libero, sgombrato, reso accessibile all'interno di un limite. I Greci ci hanno insegnato che il limite è il punto in cui qualcosa comincia ad essere: ciò che è dentro al limite esiste, il resto è zona selvaggia, inconoscibile, pericolosa, la foresta. Il limite greco è qualcosa di positivo, la realtà che resta chiusa nel recinto è abbastanza varia per poter essere dibattuta per secoli dimenticando la foresta. Il villaggio esiste nel momento in cui se ne stabiliscono i limiti, che individuano contemporaneamente anche uno spazio esterno sconosciuto. L'alternanza tra interno ed esterno, l'esistenza di confini e di uno spazio al di fuori dei confini è una condizione basilare. Alla radice indoeuropea alius, alter, ille, l'altro, è collegato il termine sanscrito che indica la foresta, aranya, da arana, strano. Fuori dai confini del villaggio c'è l'altro, la foresta, da cui il nostro forestiero, lo straniero. 

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Il confine presuppone l’altro. Se diventa soglia c’è scambio e osmosi, va verso la vita, la crescita. Se diventa blocco, chiusura, va verso la morte. Tutti i conflitti che sfociano in guerre, si basano sulla contesa di confini. Ai vari tipi di confine è dedicato il libro di Maxim Samson Linee invisibili, i confini e le frontiere che disegnano il mondo, uscito per Laterza nel maggio 2024. Samson, geografo, tratta non solo dei confini geografici, ma anche e soprattutto di quei confini invisibili dati dalle lingue o da fattori culturali o storici. Uno dei confini più suggestivi è quello dato dal recinto rituale dell’eruv, letteralmente un filo che permette agli ebrei di Manhattan di soddisfare le condizioni talmudiche e spostarsi durante il sabato all’interno di uno spazio preciso, “ciò fa sì che qualsiasi spazio in genere considerato pubblico (strade, parchi, marciapiedi) diventi privato per gli ebrei strettamente osservanti, a condizione che i confini dell’eruv non vengano violati. Ogni settimana, prima dello Shabbat, un rabbino o un’altra autorità comunitaria ispezionerà l’intera lunghezza dell’eruv per assicurarsi che nessuna parte del filo sia caduta o si sia rotta.” Questione molto diversa è per esempio quella dei confini dell’Europa. Dove finisce l’Europa e dove inizia l’Asia? Geograficamente si tratta di un solo continente ma la storia esiste e fa dell’Europa un’idea imprescindibile ma geograficamente pressoché impossibile da definire. Gli Urali sono stati a più riprese considerati come la separazione, ma tutt’ora la questione rimane aperta. Tra gli altri esempi, nel testo troviamo l’isola di North Sentinel nell’Oceano indiano, dove abita uno degli ultimi popoli non raggiunti dalla modernità e il governo indiano cerca di difendere con un confine immateriale, un divieto di avvicinamento, quelle popolazioni. L’analisi di Samson durante tutto il testo è molto vasta e competente, ma il suo essere profondamente inglese si rivela quando affronta l’Australia. Il suo occhio è irrimediabilmente quello dei suoi conterranei e vede solo ciò che gli inglesi hanno visto di quella terra, cioè una vasta landa pressoché desolata, deserta e piena di insidie. Riesce a dirci della Dingo Fence, che con i suoi 5.614 chilometri è la recinzione più lunga al mondo, costruita nel 1880 per proteggere le greggi di pecore e altre piacevolezze costruite dai coloni e poco altro, sempre di fattura britannica. Ci dice che “l’Outback e il bush non sono solo, o principalmente, dei nomi di luoghi geografici, ma, soprattutto, dei concetti densi di afflato emotivo” ignorando completamente l’idea che dell’Australia ha chi in quelle terre abitava prima dell’arrivo dei coloni britannici. In un solo passaggio ammette che le “comunità indigene dell’Australia, nonostante vivano da queste parti da oltre 50.000 anni sono state a lungo esotizzate e denigrate, e le loro rivendicazioni in materia di terra regolarmente ignorate.” 

Ragionare sull’idea di confine oggi è più che mai utile, in un clima che vede le rivendicazioni nazionaliste sempre più presenti, capire le origini e le vere ragioni dei limiti può aiutare a trasformarli non in chiusure mortali ma in opportunità di scambio con il diverso e di crescita comune. Ragionare sui confini riporta in primo piano il nostro rapporto con la terra e l’orizzonte, perché “Cammina, cammina, l’orizzonte sarà sempre alla stessa distanza.” 

In copertina, Tabula Rogeriana, 1929, Italia, Konrad Miller.

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