Gianfranco Marrone nel Semiocene

1 Giugno 2024

Il rapporto con gli altri esseri viventi e non, presenti o estinti, è uno dei temi a cui più si dedica la nostra cultura in questi anni, sviscerandone aspetti, trovando sentieri, indicando soluzioni in ogni disciplina umana e non. Come ogni letteratura di anticipazione che si rispetti, la fantascienza ha già battuto questi territori più di quaranta anni fa. Nel 1974 esce il racconto di Ursula Le Guinn The Author of the Acacia Seed (and Other Extracts from the Journal of the Association of Therolinguistic) in cui appare per la prima volta il termine Terolinguistica. Quarantasette anni dopo, nel 2021, Vinciane Despret pubblica Autobiographie d’un poulpe et autres récits d’anticipation, dove sviluppa il seme lanciato mezzo secolo prima dalla Le Guin in un libro in equilibrio fra scienza e invenzione pubblicato nel 2022 in Italia da Contrasto con il titolo Autobiografia di un polpo e altri racconti animali, perché è proprio di animali, o meglio, di esseri viventi che stiamo parlando. La radice thér in greco antico indica l’animale selvaggio, la Terolinguistica allora “designa il ramo della linguistica che si è dedicato allo studio e alla traduzione delle produzioni scritte dagli animali (e in seguito dalle piante), nelle forme letterarie del romanzo, della poesia, dell’epica, del pamphlet, o ancora dell’archivio.” Così leggiamo nel testo della Despret, che è filosofa della scienza e insegna nelle Università di Liegi e Bruxelles. Dalla Terolinguistica alla Teroarchitettura, l’architettura del selvaggio, il passo è breve: la Teroarchitettura “si riferisce non solo allo studio degli habitat, ma anche a quello delle differenti infrastrutture create dagli animali (strade, cunicoli, segnaletiche, monumenti, corridoi migratori, ecc.) ed è particolarmente interessata alle dimensioni artistiche, simboliche ed espressive di questi artefatti.” L’idea di una Teroarchitettura è feconda e apre universi inesplorati o quasi, perché sulle costruzioni animali esistono studi notevoli come quello di James Gould e Carol Grant Gould, L’architettura degli animali, uscito per Raffaello Cortina nel 2008, ma è la prospettiva e soprattutto l’aver nominato una nuova possibile disciplina a cambiare le cose. 

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Sono inciampato nella Teroarchitettura verso la fine di una lettura scoppiettante e variegata come non mi capitava da tempo, forse perché l’autore, Gianfranco Marrone, appartiene a quella categoria di intellettuali figli della semiotica, disciplina imperante negli anni settanta e oltre, che occupandosi di segni e linguaggi, finisce per occuparsi un po’ di tutto e nelle menti più raffinate permette brillanti disquisizioni degne di Pindaro che rimbalzano dal pop all’erudito nello spazio di una stessa riga di testo. Il libro si chiama Nel semiocene, è uscito nel 2024 per la Luiss University press ed è uno di quei testi simili a scrigni preziosi contenente semi che quando arrivano in terreni pronti iniziano a germogliare creando piste nuove per il pensiero e l’azione. All’inizio del primo capitolo troviamo un’idea che percorre un po’ tutto il libro, quella di multinaturalismo, introdotta da una gustosa quanto fulminante sintesi: “l’idea di natura è secentesca, quella di cultura ottocentesca, di modo che il gran partage fra le due ha potuto svilupparsi quasi spontaneamente – e ingenuamente – entro il paradigma novecentesco delle scienze umane e sociali. L’idea che da una parte, quella della cultura, ci stiano gli umani e le loro forme di aggregazione, mentre dall’altra, quella della natura, ci stiano i non umani governati da leggi sempiterne nel tempo e nello spazio, è tipica del nostro Occidente naturalistico; in molte altre culture non si dà: umani e non umani vivono entro la medesima società. Regolati da leggi che sono insieme antropologiche e biologiche. Ne deriva che, così come ci sono molte culture differenti fra loro, analogamente si danno molte nature: idea insensata, se non blasfema, per alcuni, eppure assai ragionevole per molti altri. Viveiros, a questo proposito, ha riscontrato in alcune etnie amazzoniche vere e proprie forme di multinaturalismo, termine che da un po’ di tempo in qua inizia a esser preso molto sul serio.” 

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Viveiros de Castro, Ingold, Descola, Latour sono i raffinati e selezionati compagni di viaggio che ci accompagnano spesso durante il cammino del testo, che mi ha fatto pensare a un viaggio in cui si attraversano diversi territori e ci si ferma, si scende, si passeggia, si parla con la gente e si riparte con la voglia di restare ancora un po’ ma già gli occhi alla prossima meta, mentre ascoltiamo le opinioni del gruppo di compagni tra i quali l’autore fa da mediatore dando la parola all’uno e all’altro, appaiono molti animali ma soprattutto molti punti di vista che sgretolano le nostre piccole certezze occidentali. A un certo punto del viaggio, Eduardo Viveiros de Castro, uno dei nostri compagni più chiacchieroni, citando la Historia de las Indias, scritta nel 1526 da Gonzalo Fernandez de Oviedo ci racconta come “Gli spagnoli, incuriositi dagli abitanti di quei luoghi, istituivano commissioni d’inchiesta per decidere se gli indios avessero o meno un’anima, e se si potessero considerare a tutti gli effetti persone umane. Come noi. Gli indios, dal canto loro, immergevano i prigionieri bianchi sott’acqua, per esaminare con grande attenzione le trasformazioni fisiche dei loro cadaveri, in modo da capire se quei corpi andassero o meno in putrefazione; e se, per questo, si potessero considerare a tutti gli effetti persone umane. Come loro.” 

Prosegue Marrone: “non esiste la natura, non esiste la cultura, così come, più che altro, non esiste una maniera univoca di separare questi due ambiti. Per noi occidentali la natura è una e una sola, base fisica e biologica a partire da cui le varie culture si costituiscono come altrettanti modi per distaccarsi da essa. Per molte altre etnie le cose non stanno però così. Per loro ad essere univoca è la cultura, mentre molteplici sono le nature.” Parlando del prospettivismo, concetto chiave del pensiero di Viveiros de Castro, emerge l’idea che “siamo tutti o prede o predatori (oggetti mangiati o soggetti mangianti, come ha tradotto il grande matematico francese René Thom). Da cui la molteplicità e la variazione costante dei punti di vista, i quali a loro volta dipendono dalla posizione e dal ruolo dei corpi in circostanze date.”

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Dopo l’apparizione di René Thom che si porta dietro la teoria delle catastrofi mancherebbe solo l’altro grande francese, Edgar Morin con la sua complessità, per rendere il gruppo uno dei più fecondi per lo sviluppo del pensiero dei prossimi anni, visto che ognuno di loro aggiunge un tassello verso l’abbandono dei modelli di riferimento che ci hanno accompagnato negli ultimi secoli. Tra le cose che stiamo certamente abbandonando c’è l’idea antropocentrica del mondo di cui stiamo scoprendo tutte le più nascoste sfumature e in questo abbandono (anche Dio ormai è una nostalgia) è come se cercassimo consolazione nella nuova famiglia a cui ci scopriamo appartenere, quella di tutti i viventi e in particolare in quella dei nostri più vicini, i mammiferi. È con una specie di sollievo che li vediamo sempre più simili a noi, anche nelle passioni scatenate dalla gelosia, uno dei sentimenti che credevamo esclusivi dell’uomo. Marrone prende spunto da un delitto passionale accaduto fra oranghi nel luglio 2014 nella selva del Borneo indonesiano, per analizzare come questo fatto sia stato raccontato sia dalla comunità scientifica che dalla stampa. Kondor, una femmina quindicenne, ha assalito e ucciso Sony matura trentacinquenne, perché Ekko, il maschio con cui aveva una relazione, l’ha avvicinata e annusata nei punti sbagliati. L’analisi di Marrone prende pieghe varie e inaspettate, dal ruolo attivo delle due femmine in barba a tutte le teorie sui maschi alfa fino alla contrapposizione fra i testi giornalistici a quelli scientifici. Un altro primate, quello del racconto di Kafka “Una relazione accademica”, è protagonista di uno dei capitoli del libro, dove una scimmia di fatto si prende gioco degli uomini che le hanno insegnato a parlare e comportarsi come loro. A di là delle minuziose e gustose considerazioni di Marrone, trovo significativa la preponderante presenza del discorso sugli animali che pervade tutto il testo. 

Ma fra tutti i semi che Marrone ha gettato a piene mani quello che in me ha iniziato immediatamente a germogliare è certamente quello della Teroarchitettura. L’architettura del selvaggio ha dato un nome a una serie di approfondimenti che da tempo sto elaborando e che coinvolgono molti dei compagni di viaggio che ci hanno accompagnato nel testo di Marrone insieme ad altri. Ma questa è un’altra storia. 

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