Le montagne pensano?

30 Gennaio 2024

Evidentemente è proprio una fissazione. Nostra, intendo, di noi umani, quella di immaginare che il resto del mondo ci assomigli, o una maniera di averne meno paura attribuendo allo sconosciuto cose che conosciamo, come il pensiero, per esempio. Conosciamo per modo di dire, perché provate a chiedere a uno scienziato come funziona il pensiero: innanzi tutto, a chi dovreste chiedere? Neurologo? Psicologo? Psichiatra? Psicoanalista? Neuroscienziato? Auguri. Perché le montagne e le foreste non pensano lo spiega molto bene Meschiari qui ma almeno dal 2013, quando è uscito How Forest Think: Toward an Anthropology Beyond the Human di Eduardo Kohn, arrivato in Italia nel 2021 con il titolo Come pensano le foreste grazie alle edizioni Nottetempo, alcuni nostri intellettuali si sbizzarriscono ad attribuire pensieri e grattacapi tipicamente umani a sassi, alberi, fiumi e affini. 

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Nelle prime pagine di Mare e Sardegna di David Herbert Lawrence troviamo un’immagine della montagna che ne coglie un aspetto fondamentale: “Ma l’Etna, l’Etna delle nevi e dei mutevoli venti segreti, è dietro un muro di cristallo. Quando lo guardo, basso, bianco, stregato sotto il cielo, lentamente esala il suo filo di fumo arancione e a volte emette quei suoi aliti di fiamma rossastra, allora devo distogliere gli occhi dalla terra e volgerli all’etere, al basso empireo. E là, in quella remota regione, l’Etna è solo. Se vuoi vederlo devi stornare gli occhi lentamente dal mondo e muovere, nudo visitatore, verso la strana camera dell’empireo. Piedistallo del cielo. (…) Bisogna attraversare il confine invisibile. Tra ciò che è in primo piano e che è nostro e l’Etna, perno dei venti del cielo inferiore, c’è una linea divisoria. È necessario mutare spirito, cambiare stato d’animo. Una metempsicosi. Inutile pensare di poter vedere e cogliere l’Etna e ciò che è in primo piano insieme, con un unico sguardo. Mai. L’uno o l’altro.” 

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Fra noi umani e la montagna c’è una linea divisoria, la montagna è dietro un muro di cristallo impenetrabile che ci permette di vederla ma non di poterla toccare, fa parte di un altro mondo, quello degli dei, a noi escluso. La montagna come sede degli dei, come asse del mondo che collega i diversi livelli la ritroviamo in tutto il lavoro di Mircea Eliade. Nel suo Dizionario dei simboli curato insieme a Joan Couliano, leggiamo che “Come centro del mondo che unisce cielo e terra e dal quale si dipartono le direzioni cardinali, la montagna spesso funge da axis mundi, da pilastro centrale del mondo; è una montagna cosmica, il fondamento dell’ordine e della stabilità del cosmo. (…) Dispensatori di vita, i monti sono l’origine dei fiumi e, per questo, l’origine della fertilità.” Di Mircea Eliade è finalmente uscito a novembre 2023 per Castelvecchi Racconti fantastici, il primo volume di una selezione della sua opera narrativa, l’arrivo del secondo volume è annunciato per la fine del 2024. Questo primo volume raccoglie in ordine cronologico due romanzi brevi e dieci racconti molti dei quali completamente inediti in Italia. L’apparizione in italiano dell’opera narrativa di Eliade non mancherà di scombinare le carte di chi vorrebbe limitare il fantastico a una serie di varianti dell’idea di weird, ribadendone limiti e parzialità. Nel racconto Il litomante troviamo un uomo in grado di leggere la pietra, parte costitutiva della montagna, rivelandone la sua profonda relazione con il tempo. 

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Fra gli scrittori di casa nostra la montagna ha particolarmente successo. Fra le ultime uscite, La conca buia di Claudio Morandini, pubblicato da Nottetempo nel luglio 2023, dove la montagna, protagonista di altri suoi lavori, fa da base alla vicenda raccontata, una base solida, presente, imprescindibile e che sembra permeare del suo imponderabile silenzio selvaggio coloro che del mondo solo lei conoscono e ne risultano duri, violenti, sorprendenti nelle azioni verso il mondo degli umani che da lei vorrebbero staccarsi. Diversi anni prima, nel 2015, Matteo Meschiari aveva fatto uscire per Fusta Editore Tre montagne, dove nel racconto “Primo Appennino” troviamo una delle maniere più appropriate ma meno usate per avvicinarci alla potenza della montagna: l’epica. L’autore parte dalla storia di Gilgamesh e ne segue la traccia facendo rivivere i protagonisti fra le genti dell’Appennino della Seconda Guerra Mondiale. A gennaio 2024 è uscito per Piano B Atlante Appennino. Un’ecobiografia di Elisa Veronesi. Una scrittura che segue la traccia che lo stesso Meschiari aveva puntualizzato in Landness, dove narrazione e saggistica si alternano e vivificano a vicenda fino a rendere evidente che ogni scrittura è una narrazione che sgorga inevitabilmente dal vissuto di chi la pratica “per aprire orizzonti e disegnare le carte del mondo che vorremmo attraversare, che altri dovranno abitare”, si legge nella quarta di copertina del libro della Veronesi. Paolo Cognetti è un altro cantore della montagna e non a caso è stato scelto per redigere la prefazione a Pensare come una montagna di Aldo Leopold, uscito per Piano B nell’ottobre 2023. Il titolo che l’editore ha scelto è quello di uno degli scritti contenuti nel libro, che quando uscì nel 1949 si chiamava A Sand County Almanac: And Sketchs Here and There

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Leopold è uno dei primi che inizia a usare nei suoi scritti il termine wilderness. Scrive Cognetti nella prefazione: “Nel 1935, insieme a un pugno di studiosi e attivisti, Leopold fondò la Wilderness Society, dedicata a proteggere ed espandere le aree naturali in America. Fu grazie all’azione di questa lobby che nel 1964 sarebbe stato varato dal governo Johnson il Wilderness Act, che recita: – Un’area wilderness, in contrasto con quelle in cui l’uomo e le sue opere dominano il paesaggio, è qui definita come un’area dove la terra e la sua comunità vivente non sono ostacolate dall’uomo, e dove l’uomo stesso è un visitatore di passaggio. –” Il concetto di wilderness è oggi particolarmente importante e va ben oltre la definizione che ne dà il Wilderness Act. Interessanti a questo proposito le considerazioni dello psicanalista Claudio Risè in Il maschio selvatico che la mette in relazione non solo con l’inconscio, ma con la parte paleolitica che sopravvive in ognuno di noi: “Attraverso la wilderness noi ricordiamo e siamo portati a casa di nuovo. La wilderness è un andarsene dalla casa-ufficio di tutti i giorni, ricordare-ritrovare la storia perduta dell’uomo, trovare infine un luogo più profondo, più personale di appartenenza. (…) L’interdetto contro la wilderness, scagliato dalla civiltà delle buone maniere, oggi tecnologicamente avanzata, fa sì che il lato selvatico, o addirittura animale dell’uomo, non più espresso nella relazione con la natura o con l’istinto, venga ricacciato nell’inconscio. Da lì tende a prendere il potere, proprio mettendosi alla guida degli aspetti più tecnologicamente avanzati di questa civiltà.”

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Leopold divide il testo in tre parti: la prima è una sorta di diario di ciò che lui e la sua famiglia vedono dalla loro fattoria del Wisconsin, sono visioni di paesaggi, racconti di caccia, diari; nella seconda troviamo episodi di vita e racconti di finzione, mentre nella terza cerca di esporre le sue idee in maniera più sistematica. In particolare nella seconda parte troviamo, accanto a episodi di caccia che oggi farebbero arrossire gli ambientalisti dell’ultima ora, alcune perle narrative estremamente efficaci per proiettarsi nella dimensione temporale estesa che ogni ragionamento ecologico deve possedere per essere profondo ed efficace. Il racconto Odissea ha come protagonista un atomo. “X attendeva la sua ora nell’altipiano calcareo, dopo che i mari paleozoici avevano ricoperto la terra. Il tempo non passa mai per un atomo imprigionato in una roccia. La sua liberazione arrivò quando una radice di quercia si fece strada in una fessura e iniziò a forzare e a succhiare. Nel lampo di un secolo la roccia si disgregò, e X fu gettato nel mondo delle creature viventi. Aiutò a costruire un fiore, che divenne una ghianda, che ingrassò un cervo, che nutrì un indiano, tutto in un solo anno.” Attraverso le peripezie dell’atomo vedremo arrivare anche gli umani e la loro azione di impoverimento della terra. Dilatare il tempo narrativo di migliaia di anni serve anche a prendere coscienza della dimensione del Tempo Profondo in cui l’Antropocene ci ha, volenti o nolenti, proiettato. Leopold ha diversi di questi episodi in cui rivela una tecnica narrativa non semplice da controllare. 

Un’altra dimensione presente in questi testi è la caccia. Caccia come modello esistenziale, comune ad altri scrittori americani come Faulkner e che Shepard spiega diffusamente nel suo Teneri carnivori. L’imbarazzo e l’incomprensione che molti ambientalisti provano verso questo tema è evidente nel successo di una delle immagini più citate di tutto il libro, quella dello sguardo che Leopold intercetta della lupa morente per la sua fucilata precisa. Si suole far risalire simbolicamente a questa empatia fra uomo uccisore e bestia morente la “conversione” dell’autore al rifiuto della pratica venatoria. “A quel tempo ero giovane, e sempre ansioso di sparare; pensavo che meno lupi significasse più cervi, e che nessun lupo equivalesse al paradiso dei cacciatori. Ma quando vidi spegnersi quel fuoco verde intuii che né il lupo, né la montagna, erano d’accordo con una tale visione. (…) Oggi sospetto che proprio come un branco di cervi vive nella mortale paura dei lupi, così la montagna vive nel mortale terrore dei suoi cervi. E forse per un motivo migliore: perché mentre un cervo ucciso dai lupi può essere rimpiazzato in due o tre anni, un rilievo eroso da un numero eccessivo di cervi potrebbe non essere sistemato in altrettante decadi. Lo stesso accade per le mucche. L’allevatore che elimina i lupi dal suo territorio non si rende conto di sopprimere il lavoro del lupo, che consiste nel riportare le mandrie alle dimensioni adeguate all’estensione del territorio: non ha imparato a pensare come una montagna.”

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