Come salvarsi dalla contemporaneità
Un uomo in un gigantesco hangar. Una volta ci mettevano gli aeroplani. Adesso è vuoto. L’uomo si volta verso di noi, sorride. Stanno arrivando i camion. Ecco il primo. Scendono due elefanti, un motociclista su una Guzzi. Tredici poliziotti inglesi e otto italiani. Degli operai sono già al lavoro. Entro un paio di giorni avranno ricostruito un colosseo in scala, che toccherà il soffitto dell’hangar. L’uomo dà indicazioni, si sbraccia, grida. “Il morto! Dov’è?” urla verso il secondo camion. Scende un ragazzo con la maglietta lacerata. Si salutano. Poi il ragazzo va a sistemarsi in un angolo, chiude gli occhi. È lui, il morto. Da un pullman lentamente fanno capolino uomini con maglie e pantaloni e scarpe da calciatori. Raggiungono la sezione di prato sintetico e restano così, immobili. Noi osserviamo in silenzio. L’uomo ci sorride ancora. Da una gru vengono calati otto gigantesche pale eoliche, anche se il vento non c’è.
L’uomo finalmente si avvicina e ci consegna un foglio stampato. Lì, su quel foglio, è spiegato tutto. L’uomo si chiama Mark. Sta ricostruendo informazioni. Così c’è scritto.
“Ricostruisce informazioni se abbiamo capito bene”.
L’uomo si massaggia per un attimo il naso e poi dice: “ le colleziono come opere d’arte”.
Noi lo fissiamo perplessi e lo seguiamo all’interno di una stanzetta con le pareti del colore di una zucca slavata. Sullo schermo di un computer ci mostra i suoi prossimi progetti di ricostruzione.
“Che cosa la spinge a fare questo? Lei è un artista?”
“Credo che questo sia l’unico modo per salvarsi”.
“Salvarsi da cosa?”
“Dalla contemporaneità”.