Anna Maria Ortese in difesa degli animali / Un giorno l’agnello parlerà

26 Aprile 2016

Talvolta i libri si vedono prima che prendano corpo. Quattro anni fa, quando approdai all’Archivio di Stato di Napoli per consultare il Fondo Anna Maria Ortese, mi trovai a sfogliare un malloppo di documenti – Garboli direbbe un «cartame» – dove vidi subito, distintamente, un libro possibile. Anzi ne vidi due. In verità, stavano già acquattati nell’inventario redatto dagli archivisti napoletani; bastava scorrere le scarne didascalie del regesto per rendersi conto che, nella sezione «Testi diversi», c’erano due filoni tematici da riscoprire, due capitoli della vicenda biografica e artistica della scrittrice da riaprire: uno di impegno civile intorno alla pena di morte e alle vicende dei criminali nazisti detenuti in Italia, che all’epoca sollevarono polveroni polemici, al delitto Moro e all’aborto; l’altro intorno a questioni ambientaliste e animaliste.

 

È sempre più difficile che questi libri fantasmatici abbiano la fortuna di divenire cosa salda, specie se si devono cucire, confezionare a partire da pezze, ritagli, scarti. Tale è infatti lo stato dei documenti ortesiani in questione, per lo più dattiloscritti con aggiunte e correzioni autografe non sempre di facile lettura, privi di data, incompiuti o con stesure plurime e senza l’ultima revisione.

 

Ma, oggi, uno di quei due libri vagheggiati arriva in libreria con il titolo Le Piccole Persone. In difesa degli animali e altri scritti, per i tipi dell’editrice Adelphi, e a mia cura. 

 

Il volume raccoglie alcuni interventi giornalistici pubblicati e mai raccolti, e una scelta di testi inediti o dispersi tra i molti conservati nell’archivio napoletano. Gli scritti convergono su istanze naturalistiche o di militanza animalista, e fanno emergere un aspetto meno noto del carattere e dell’attività della scrittrice, il suo misconosciuto impegno sul fronte ecologico-ambientale, ben più ampio e ossessivo di quanto non appaia scorrendone la bibliografia o le opere. L’interesse per questi temi ha origini lontane, negli scritti d’esordio degli anni quaranta; ma raggiunge l’acme tra gli anni settanta e ottanta quando il destino delle «Piccole Persone» diviene per lei un interesse prioritario e pressoché esclusivo, il «pensiero più grave» – come lo definisce Ortese medesima – della sua appartata esistenza a Rapallo.

 

È una Ortese che legge con scrupolo quotidiani e riviste, specie la posta dei lettori, e pone attenzione ai casi di cronaca sugli abusi subiti dagli animali; un’Ortese che vorrebbe partecipare al dibattito politico sui referendum anticaccia o sulla vivisezione, che grida contro le corride, i macelli, le stragi delle foche (da qui l’ammirazione per Brigitte Bardot); e scrive e riscrive, più e più volte, i pezzi da mandare alle testate nazionali e provinciali ma che in gran parte saranno destinati a rimanere nel cassetto, anche per il timore di apparire inadeguata, per la sensazione di essere disambientata, fuori contesto. Così confessa all’inizio del documento registrato nell’inventario con il n. 1230: «Scrivere, pubblicare, soprattutto scrivere un articolo, intervenire su qualche argomento, mi sembra cosa non più mia, difficilissima. È che dietro ogni argomento si alza sempre, invisibile, e quando cominci a pensarlo ancora muta, non so che contestazione, che minaccia. Dietro ogni tuo possibile intervento – e timido interrogativo – senti già pronta, all’erta, una muraglia di opinioni già approvate, accettate, riconosciute… starei per dire onorate.

 

Sono cosa implacabile… non ti permettono di alzare un filo di voce. Di lì non si passa. Così, ecco, ogni giorno le vecchie e accorate interrogazioni, penose domande ti si accostano… vorrebbero aver voce, affacciarsi, e la timida ragione sempre risponde: no, non va bene – questo è superfluo, questo non è richiesto… questo può anche irritare e stupire la gente semplice».

 

Le Piccole Persone vuol ridare fiato a questa Ortese recalcitrante ma capace di reazioni incontrollate, di scatti d’ira, di posizioni radicali, estreme. Tra i numerosi documenti che per diversi motivi non sono potuti entrare nel libro, offriamo qui un testo rappresentativo della seconda sezione, quella più engagée. 

 

Si tratta del documento n. 1234 databile alla fine del mese di giugno 1980. L’occasione dell’intervento è infatti la notizia del decreto ministeriale dell’11 giugno 1980 in merito all’art. 4 della legge n. 439 del 1978 apparsa in un articolo firmato P.L.F., Lecito macellare vitelli e agnelli secondo i riti ebraico ed islamico (occhiello: Decreto ministeriale per favorire le esportazioni), in «Corriere della Sera», 28 giugno 1980, p. 9. 

 

Per contestualizzare l’affermazione, altrimenti poco perspicua, «parlate male del fascismo», risulta utile citare un passo del documento n. 1233, che pure verte sul medesimo decreto e va anch’esso ascritto ai giorni successivi al 28 di giugno 1980: «Senza andare lontano, dico, e grido che la deroga a questa legge che protegge in qualche modo la reale – non negabile e trascurabile se non da mascalzoni – sensibilità animale, la deroga a questa legge mi sembra una decisione spaventosa. Dunque, torniamo indietro! Più in là del fascismo, che pure permise, già nel 38, la Protezione Animali?!». Inoltre, l’accenno alla fotografia del capretto, in realtà un agnello, è da ricondurre al box dal titolo Arrivarono qui per fuggire i turchi («Secolo XIX» 4 maggio 1980, p. 3) sulla comunità albanese di Acquaformosa in Calabria; al centro delle due colonne del trafiletto l’immagine che ha colpito Ortese: un agnello legato a un cavalletto, scuoiato, sgozzato, il sangue raccolto in un secchio dal macellaio.

 

Angela Borghesi

 

 

 

Un giorno l’agnello parlerà

 

Siamo un paese senza fronte. O con due dita di fronte. Non posso commentare in altro modo la tranquillità con cui è stata accettata una recente decisione del ministero della sanità. D’ora in poi, vitelli e agnelli italiani, destinati ai mercati del Medio Oriente, verranno uccisi, in Italia, con un rito antico, che garantisce a quelle popolazioni di non essere contaminate (e vedere compromessa la salvezza finale dell’anima) dal sangue animale. Se vogliamo vendere a quei mercati (e l’Italia vuol vendere) bisogna non vendere anche il sangue. Il sangue animale sia versato, ma non contamini la purezza delle anime antiche. Si sa bene che il dolore dato non contamina: dunque, si preferisca il dolore, e si eviti la contaminazione del sangue. Per arrivare a questo risultato, che non resti nel corpo animale traccia di sangue, il rito è antico, quindi efferato: ma il denaro è denaro, la Salvezza è la Salvezza: prevalga il buon accordo.

 

D’ora in poi in alcuni reparti dei nostri macelli potrebbe entrare – a rifornitura dei mercati del cinema di cultura sadica – anche la macchina da presa. Ne conseguirebbero altri affari, ed altra calata della fronte nazionale. Sembra che questa perdita della fronte sia un bene: sempre meno riconosceremo per buono il disprezzo della civiltà europea.

 

Certo, dovunque l’uomo è antico, e quindi infame: i riti, o l’indifferenza, sono la sua salute, in questo mondo e nell’altro. Ma una Europa nuova c’è, un mondo moderno esiste, che vede l’infamia, e preferisce salvare la sua fronte a costo della sua salvezza finale. Ricordo a questo proposito una donna: sette-otto anni fa parlò alla televisione, una buona mezz’ora, parlò di quanto aveva fatto (o cercato di fare) a favore degli animali a Parigi. Come visitò i macelli, e si oppose. Cosa fece – e forse ottenne – a favore delle piccole foche canadesi. Era stata, ed era ancora, una donna famosa per beltà e paganesimo. Era adesso un ministro della natura, la mente più alta e più giovane della Francia. (Nome: Bardot, e questo nome la gente non lo dimentichi!).

 

La natura, si dice, è stata fatta per l’uomo, e gli animali per imbandire la mensa del migliore, dell’Immortale. In nome di questa discriminazione, delitti innominabili, privati, religiosi, di massa, a scopo di gioco e di nutrimento, vengono commessi ogni giorno, da millenni, dalle atroci mani dell’umanità. C’è a questo proposito tutta una informazione storica, ma è dispersa qua e là; e una informazione popolare, o di mercato: ma è sotto i nostri occhi, e per questo non la vediamo.

Quando si sente parlare di diritti della vita, sempre il cuore di taluni è in ascolto. Si vorrebbe – una volta sola nella storia umana – sentir parlare dei diritti del vitello e l’agnello. Ma non ci sono. Agnelli e vitelli e tante altre specie della misteriosa e non delittuosa vita animale non hanno diritto al diritto. Di questi esseri muti che sono gli animali, si può fare ciò che si vuole. Ogni giorno è prigione, ogni alba è massacro, ogni esecuzione è l’inferno. Ho immagini che non oso più guardare, pubblicate, fino ad anni fa, con scandalo: la morte del lupo in gabbia, a disposizione dell’aguzzino abruzzese, l’agonia del cane in un laboratorio a conduzione familiare. Sembrava il peggio. Tre mesi fa un giornale ligure pubblicò la prima foto (credo) di un capretto legato e intento a versare il suo sangue. A edificazione della vita domenicale, perché il giornale uscì proprio di domenica.

 

La fronte va sempre più giù. L’orgoglio, al contrario, sale. Siamo i migliori. Vitali, qualche peccatuccio, certo, ma guardate la salute, guardate la cura con cui rimpinguiamo l’industria farmaceutica, e la ricerca scientifica, in ogni luogo! Come non abbiamo scrupoli quando si tratta di rifornire la mensa, e avvezzare il neonato a nutrirsi con ingordigia di un altro neonato. E la chiesa sopravvive! Chi, a Pasqua, non si nutre (siamo più larghi, noi cristiani) della carne e anche il sangue del piccolo agnello? E qualcuno mai non è stato attratto dalla agonia del maiale? Perfino grandi registi. Ciò rende uomini. Patrioti in qualche caso.

 

Uomini, va bene. Patrioti anche. Ma senza fronte. Scrivete libri, sparate, parlate male del fascismo, difendete diritti! Ma fate uno sciopero, perdio, a proteggere i macelli dalla scimitarra e dai mercati. Assalite i laboratori a conduzione familiare. Fate pagare cara, al signore con macchina, diretto a questa bella estate, l’abbandono, sull’autostrada, del cane.

 

Questi cavalli e bovini che viaggiano assetati, stremati, in vagoni chiusi, verso la morte, che fanno udire il loro grido alle stazioni isolate, non vi ricordano niente? Via i lager nazisti e russi, naturalmente, ma i vostri sono veramente immortali?

 

Gli dei non sanno parlare, scoperse Borges. Noi abbiamo troppi dei, il primo è l’uomo. Perciò non sappiamo più parlare. Durerà ancora? Fin quando splenderà il sole e il pianeta riceverà la grazia, ogni giorno, dell’alba? E la meritiamo, questa grazia? Andiamo, vediamo un po’ chi siamo.

Parlerà l’agnello, un giorno! Griderà il cane. Non vedremo più uccelli. Le nostre azioni, ormai di massa, la tortura senza più freno, stanno disponendosi contro di noi, e avanzano. Non parlo qui di nubi nel cielo. Il cielo non è solo a disposizione dell’uomo. Ma la cosa che chiamavamo umanità e civiltà, e pura ragione – e anche tutte le bandiere e le cattedrali –, solo dall’uomo dipendevano. E dalla sua fronte! Ora budella e salvezza vivono insieme! Chi ci riporterà la nostra fronte?

Siamo salvi, e sazi. Ma dov’è la nostra fronte?

 

 

Oggi nelle librerie il volume Adelphi, si ringrazia l'editore per l'anteprima.

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