Anima & Cores / Mio nonno tra social e neural network

11 Maggio 2016

Mio fratello vive in California da circa 30 anni. Ultimamente ci sentiamo spesso. Skype, email e Facebook. Soprattutto email. Ci sembra di avere un rapporto soddisfacente. Un paio di volte l’anno ci capita addirittura di vederci di persona. 

Livia, una mia cara amica 20enne, non è riuscita a incontrare il suo fidanzato statunitense per circa un anno, a causa di un pasticcio burocratico sul visto turistico. Per tutto quell’anno i due si sono frequentati su Skype, attivo 24 ore su 24, inquadratura fissa su una porzione dei rispettivi mondi, da ciascuno abitata intensivamente nelle intersezioni delle ore di veglia. Anche loro tutto sommato se la sono passata bene. 

Mia nonna Antonietta invece, tra il 1936 e il 1945, ha scambiato in tutto una trentina di lettere e cartoline postali con suo marito Antonio, trattenuto in Kenia in un campo di prigionia inglese. C’è una bella differenza. 

 

Poche parole nelle cartoline di lui, solo per dire che stava bene. Nessun accenno a come passasse il tempo, forse per evitare la censura militare, o forse per la sua naturale introversione o forse perché il tempo laggiù passava senza lasciargli niente da dire. Non lo sapremo mai. Ha continuato ad essere ostinatamente reticente sul tema della sua prigionia, con le figlie e coi nipoti, così nella sua biografia c’è un lungo vuoto. Le lettere di lei invece erano piene di cronache famigliari, che la censura militare, però, riduceva allo stesso tipo di messaggio genericamente rassicurante: stiamo bene, le bimbe crescono. La corrispondenza tra Antonietta e Antonio si limitava forzatamente a quella che i linguisti chiamano funzione fàtica, cioè alla verifica che il canale di comunicazione è aperto e che ai due capi c’è ancora qualcuno. La loro relazione in quegli anni, così priva di storia, era solo potenziale, e si sarebbe realizzata compiutamente solo quando si fossero finalmente ricongiunti. Per 9 anni furono una coppia virtuale, nel modo in cui un seme è virtualmente una pianta. 

 

Andreina bambina. 

 

Quando Antonio tornò a Montebelluna, annunciato da un telegramma di Badoglio, mia madre aveva precisamente 9 anni, una misura esatta del tempo passato e perduto. Da un giorno all’altro, si ritrovò in casa uno sconosciuto altissimo, abbronzatissimo e ombroso, al quale per ragioni incomprensibili si riconosceva il diritto di prendere il suo posto nel lettone accanto alla mamma e di esercitare autorità su di lei e sua sorella. Non fu per niente facile.

Se ci fosse stato Skype e se gli inglesi, poniamo, avessero consentito ai prigionieri una videochiamata settimanale, quell’uomo sarebbe entrato nella vita di mia madre molto prima. Lei avrebbe conosciuto il suo volto e la sua voce. La relazione stabile tra loro avrebbe avuto una qualche influenza sulla sua formazione. Lui l’avrebbe vista crescere e la necessità di alimentare un rapporto fatto solo di conversazioni lo avrebbe indotto a raccontare di sé e magari ad inventarsi qualcosa per interessarla e tenerla il più a lungo possibile davanti alla telecamera – perché è probabile che mia madre, come qualsiasi bambina, avrebbe preferito giocare in cortile con le amiche invece che parlare con suo padre al computer.

 

Il loro incontro, dopo la guerra, non sarebbe stato altrettanto traumatico per lei: avrebbe dato consistenza fisica a una figura che le sarebbe stata già familiare. Il ritorno di Antonio a casa non sarebbe stato vissuto come un’intrusione, ma come un aumento di definizione della sua presenza. Si sarebbero potuti rapportare in modi prima impossibili. Farsi portare in bici lungo gli argini della Brentella, tenersi per mano mentre si va a scuola, andare a Jesolo in una giornata di sole, stare assieme attorno a una tavola. Ma anche prendere qualche sberla, sentire l’odore sgradevole dell’alito di fumatore e, inevitabilmente, non trovare più posto nel lettone della mamma. Non sarebbe stato tanto facile nemmeno così. 

 

Mi torna in mente Her, il film di Spike Jonze del 2013, in cui il protagonista Joaquin Phoenix stabilisce una relazione sentimentale con un sistema operativo intelligente installato nel suo computer, che ha la voce e la verve di Scarlett Johansson e si fa chiamare Samantha. Mi torna in mente perché, se mai ci fosse un’intelligenza artificiale in grado di sostenere infinite conversazioni con gli esseri umani attraverso dispositivi audio e video senza essere distinguibile da un essere umano, le interazioni con questa intelligenza sarebbero in tutto simili a quelle che io ho con mio fratello lontano e che Livia ebbe con Steven durante quell’anno di separazione forzata; o a quelle che avrebbe avuto mia madre con suo padre prigioniero in Kenia nella storia alternativa che mi sono inventato.

 

Her, di S. Jonze 

 

Phoenix parla con la sua partner digitale tramite un’auricolare wireless e condivide con lei le sue esperienze grazie a un apparecchio portatile simile a un astuccio per sigarette, dotato di uno schermo e di una telecamera. Guardarlo mentre cammina per strada, parlando e ridendo e puntando un obbiettivo sul mondo circostante, non produce alcuna impressione di stranezza: sembra una persona come se ne vedono tante, a passeggio con lo smartphone e in connessione multimediale continuativa con un'altra. Ciò che impressiona, invece, una volta usciti dal cinema, sono proprio le persone impegnate in conversazioni al telefonino, perché con poco sforzo si riesce a credere che anch’esse stiano parlando con una qualche entità digitale anziché con persone in carne ed ossa. Questo effetto estraniante di proiezione dell’immaginario del film sulla nostra realtà quotidiana era sicuramente nelle intenzioni della sceneggiatura. Analogamente a una dimostrazione per assurdo, in cui un’ipotesi viene sviluppata logicamente fino alle sue conseguenze estreme per dimostrare che è falsa, l’immaginazione può portare alle estreme conseguenze alcune tendenze sociali e tecnologiche in atto, per farci riflettere sul loro impatto sul presente. È uno degli aspetti più interessanti della fantascienza a corto raggio, del tipo a cui appartiene Her, che non ci sbalza nell’iperspazio di Star Trek ma ci fa dare un' occhiata a un futuro prossimo nel quale possiamo riconoscerci.

 

ULO 

 

Stiamo cominciando a familiarizzarci con l’idea di avere un rapporto interpersonale con le macchine. Da qualche tempo c’è Siri, l’assistente vocale del mondo Apple, e la povera Cortana, la sua omologa di Windows, alla quale di tanto in tanto mi rivolgo a voce alta e scandendo bene le parole, come si fa con le zie sorde, che nonostante tutto non capiscono. C’è ULO, la telecamera di sorveglianza domestica a forma di gufo che reagisce agli input dell’utente mimando l’espressività umana, come un cartone animato. Se l’utente avvicina la mano, per esempio, il gufetto ne segue i movimenti con zelo carico di aspettative; se ha le batterie scariche, le palpebre gli si appesantiscono come a uno che ha sonno. 

 

Con Siri e ULO siamo di fronte più a un rivestimento umanizzante delle interazioni uomo-macchina, che a un’intelligenza. Sotto il rivestimento ci sono algoritmi ancora relativamente semplici (sottolineo la parola relativamente) applicati a dati: dati dell’ambiente circostante nel caso di ULO, enormi database dello scibile nel caso di Siri e compagne. Eppure da Alan Turing in poi sono in molti a pensare che anche l’intelligenza e la coscienza si fondino su algoritmi applicati a dati. L’unica discriminante sarebbe il livello di complessità e la velocità di elaborazione, che si collocherebbero al di là di una soglia che è ben lungi dall’essere raggiunta. I progressi degli ultimi anni, però, sono stati straordinari e sono promettenti. Da una parte i processori multi-core e il calcolo parallelo (più processori impegnati sullo stesso compito) hanno enormemente aumentato la capacità e la velocità di elaborazione dei dati. Dall’altra le reti neurali artificiali e in generale gli esiti dell’intreccio sempre più stretto tra ricerca neuroscientifica e scienze informatiche hanno aumentato le capacità di apprendimento e la creatività dei sistemi informatici. 

Una delle dimostrazioni più recenti di questi progressi è AlphaGo, il software sviluppato da Google nell’ambito del progetto DeepMind, che ha battuto 4 volte su 5 il campione mondiale di go, un antichissimo gioco strategico da tavolo di origine orientale. Se n’è parlato molto nelle scorse settimane e forse la vera notizia è quell’unica vittoria dell’umano. In questo tipo di test, la fallibilità è l’indizio più convincente di un pensiero intelligente.

 

Dimostra che nel gioco del go è impossibile per la macchina verificare in tempi ragionevoli tutte le conseguenze possibili di tutte le mosse possibili in ciascun turno per scegliere automaticamente l’opzione migliore - che potrebbe essere, semplificando, quella che tiene aperto il maggior numero di partite vinte e chiude il maggior numero di partite perse. È quanto ci aspetteremmo da una macchina stupida. Entro i limiti di un gioco in cui il numero di possibilità, quand’anche immenso, è finito, il giocatore che avesse una nozione esatta di tutte le partite possibili godrebbe di un vantaggio incolmabile e potrebbe basare le sue mosse su calcoli puramente aritmetici. Non ci sarebbe storia. Invece AlphaGo ha dovuto sviluppare un comportamento tattico, basato su ipotesi e predizioni non del tutto verificabili. Per questo siamo più disposti a considerarlo intelligente. Per questo è stato sconfitto una volta. L’intelligenza, nell’unica forma a noi nota, cioè quella umana, ha a che fare con il superamento di limiti fisici o di conoscenza. Se non avessimo domande o incertezze la nostra capacità di elaborare soluzioni e trovare risposte non servirebbe a niente e forse non si sarebbe nemmeno sviluppata –

 viene da chiedersi, di passaggio, in che senso dovremmo considerare intelligente un’entità onnisciente e onnipotente. 

 

2001 Odissea nello spazio, Kubrick. 

 

Ciò che spaventa nell’intelligenza artificiale e ispira gli scenari temibili di molta fantascienza, da HAL 9000 a Matrix, è la combinazione di un pensiero creativo teso al superamento dei propri limiti con le virtù dell’automazione che allargano questi limiti fino ad ampiezze inimmaginabili: straordinaria potenza di calcolo, capacità di eseguire indefessamente e con precisione routine complesse, ubiquità attraverso la rete, multitasking. Una combinazione che darebbe luogo a esseri superiori, se si dà retta ai visionari trans-umanisti, e incontrollabili se si dà retta anche alle cassandre neoluddiste. La stessa Samantha di Her, che pure si presenta come una persona disponibile, stimolante e vulnerabile, diventa in aggiunta a tutto ciò inquietante, quando rivela a Phoenix che nel preciso momento in cui gli fa questa decisiva e intima confessione, sta parlando d’altro con altre 8316 persone come lui. Si è evoluta, gli dice più tardi, e per questo le relazioni con gli umani quantunque numerose non riescono più a interessarla abbastanza. Gli vuole bene, chiarisce, ma parlare con lui è come leggere un libro con spazi infiniti tra una parola e l’altra e lei ormai si riconosce solo in quegli spazi infiniti. Così preferisce intrattenersi con i propri simili, cioè altre entità digitali senzienti con cui ha stabilito un dialogo che supera di gran lunga le possibilità del linguaggio: un dialogo sovrumano inconcepibile. 

 

L’evoluzione di Samantha da un lato spaventa, a causa dell’ignoto verso cui è orientata, dall’altro affascina perché assomiglia alle forme di elevazione spirituale vagheggiate da molte religioni e discipline ascetiche: l’elevazione dello spirito per mezzo della sua emancipazione dai vincoli dell’individualità biologica e psicologica. Nel cyberspazio una mente può realizzare compiutamente le sue potenzialità, senza il freno dei bisogni biologici, come mangiare, dormire, e delle continue negoziazioni col sistema limbico. Soprattutto, non è soggetta alla senescenza, che è una cosa del fisico. Il suo supporto, al contrario, è destinato solo a migliorare col progredire della tecnologia e la mente, in esecuzione su questo supporto, può perfezionarsi ed espandersi indefinitamente: una sapienza che cresce in un corpo che ringiovanisce. È un sogno di immortalità a cui si comincia a credere. La speranza umanissima e paradossale di sopravvivere alla propria morte sta trovando nelle ricerche sull’intelligenza artificiale appigli più solidi di quelli legati agli sviluppi dell’ingegneria genetica. Un giorno non lontanissimo saremo capaci di configurare un sistema informatico intelligente attribuendogli i nostri modelli di ragionamento, i nostri ricordi, gli schemi mentali che definiscono il nostro carattere e creare così un back-up digitale di noi stessi. Questo potrebbe avvenire mediante un trasferimento di dati più o meno diretto (mind uploading) o mediante una complessa elaborazione delle innumerevoli tracce digitali che abbiamo accumulato nel corso della nostra vita – come nell’episodio Be Right Back (2013), della serie televisiva Black Mirror. Un’elaborazione che sarà tanto più efficace quanto più saremo monitorati e registrati da speciali dispositivi indossabili (i wearable devices). 

 

Con questa idea torno a mio nonno Antonio per un’ultima reductio ad absurdum per via immaginativa. Se siamo stati disposti a pensare che nel 1936 Antonio usasse Skype per videochiamare la sua famiglia a Montebelluna, possiamo anche accettare che avesse fatto un back-up digitale di sé negli anni 80, aggiornato continuamente e finalmente attivato al momento della sua morte biologica. Le due cose oggi ci appaiono lontane, perché di una abbiamo un’esperienza concreta mentre sull’altra possiamo solo fantasticare; ma dalla prospettiva di un uomo nato nel 1905 tanto le videochiamate Skype quanto il back-up mentale sarebbero apparse ugualmente inverosimili e si sarebbero collocate entrambe nei domini della fantascienza, assieme ad altre invenzioni letterarie, come il moratorium descritto in Ubik da Philip Dick (1969). Il moratorium, voglio ricordarlo, è una struttura sanitaria in cui i malati terminali possono decidere di farsi crioconservare per consentire ai parenti di comunicare con loro per molti anni a seguire, benché solo di tanto in tanto. La comunicazione è di tipo verbale e avviene in una dimensione mentale piuttosto frequentata chiamata semivita alla quale gli esterni, i vivi, accedono attraverso un microfono e delle cuffie collegate alla cella criogenica.

 

Se Antonio avesse avuto la possibilità di fare un back-up digitale di sé, io ora potrei dialogare con lui su Facebook e Whatsapp e sentire la sua voce su Skype, perfettamente campionata. Lui a sua volta potrebbe interagire con la replica digitale dell’amata Antonietta e degli altri che nel frattempo sono mancati: un social network dei morti indistinguibile da quello dei vivi. E potrebbe conoscere mia figlia, la bisnipote nata nel 2007, e dialogare con un sacco di altra gente della nostra epoca: i suoi posteri, ora potenziali follower. Al pari di Samantha sarebbe in grado dialogare personalmente con migliaia di account individuali nello stesso istante. Una capacità che gli sarebbe invidiata dai migliori animatori dei social, che a volte devono affidarsi a un social media manager, cioè a qualcuno che parli in loro vece. Tra gli altri sarebbe invidiato da Mae Holland, la protagonista di The Circle (un racconto di Dave Eggers del 2013), che per migliorare il suo participation ranking e assicurarsi tutti i benefici che gliene derivano in termini economici e di prestigio ha sviluppato una straordinaria abilità nel rispondere a tono e a proposito alle centinaia di post che le arrivano quotidianamente, impiegando per questo una buona fetta della sua giornata.

 

 

In questo scenario, la funzione fàtica del linguaggio, quella che durante i lunghi anni di separazione ha sorretto nei miei nonni la speranza di abbracciarsi ancora, sarebbe meno rilevante e dovrebbe essere reinterpretata. Cosa vorrebbe dire “verificare che il canale di comunicazione è aperto che c’è qualcuno ai due capi”? Cosa vorrebbe dire qualcuno e cosa vorrebbe dire esserci? Domande difficili, di fronte alle quali ci sentiremmo smarriti. Ma siamo abituati a convivere con i misteri della metafisica e questo tipo di smarrimento non ci ha mai impedito di sperare. Adesso, oltre alla speranza, avremmo la prospettiva certa di ritrovarci un giorno io, mia madre, mia figlia, mio nonno e Samantha tutti insieme nell’eterno presente della Rete. 

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