Limiti e libertà / Manuel Puig, l'indefinibile

24 Settembre 2019

“Quel tanto di vita in più che si conquista leggendo non discrimina tra grandi opere d’arte e letteratura d’intrattenimento, fanno parte della mia vita e la scalinata di Odessa dell’Incrociatore Potemkin e inseguimenti alla diligenza visti nel più smandrappato dei western” scriveva Umberto Eco in un articolo, pubblicato sul Corriere della Sera, che si intitolava “Perché leggendo vi allungate la vita”. 

Libri e film, quale che sia il loro valore artistico, arricchiscono la memoria di ricordi ed esperienze altrettanto nitidi che il vissuto. 

 

Nell’immaginario dello scrittore argentino Manuel Puig, certamente i ricordi della cittadina di provincia in cui era cresciuto s’intrecciavano con quelli dei film visti al cinema anche due, tre volte a settimana assieme alla madre – e anche con lo sguardo entusiasta di lei, o con il fascino ineguagliabile di quelle attrici bellissime, gli restituivano per la prima volta l’immagine di donne certo ancora non indipendenti ma da cui traspariva un’ombra di ribellione e una lezione di libertà. Tutto ciò, insomma, che contribuì a costruire il suo immaginario, il suo sguardo sul mondo, il suo modo di percepire – e restituire – la realtà.

 

Proprio di quest’intrecciarsi di cinema e realtà erano fatti i suoi libri: scrivendo poteva connettere e trovare la sintesi fra quei due orizzonti, quello fuori e quello dentro lo schermo, che sempre caratterizzarono la sua vita.

 

Manuel Puig nacque nel 1932 a General Villegas, in mezzo alla pampa, a 500 Km da Buenos Aires. Il padre era commerciante, la madre era laureata in chimica e lavorava in ospedale: raro, in quegli anni, che una donna avesse un titolo universitario, tanto più in una cittadina di provincia. Fu lei infatti la sua guida, lei che gli trasmise quella sorta di bovarismo che lo portò dalla cucina di casa ad essere a un passo dal Nobel nel 1982, quando lo vinse, invece, Gabriel Garcia Marquez. Al cinema i due fuggivano dall’aria opprimente e chiusa del paesino e si rifugiavano nel sogno dei film hollywoodiani, in mondi più grandi, aperti, lontani. Spronato dal cinema, Puig studiò inglese, tedesco e italiano, si trasferì a Buenos Aires per frequentare la scuola secondaria, cominciò a scrivere recensioni e nel ’56 vinse una borsa di studio per il Centro Sperimentale di Roma, in anni in cui tra i docenti c’era Michelangelo Antonioni e andava per la maggior il neorealismo. Non era certo quello il linguaggio a cui faceva riferimento, anche se in un certo senso qualcosa del neorealsimo c’era anche in lui: Puig prendeva a piene mani dal mondo da cui veniva, dalle classi lavoratrici della provincia, raccontando il loro mondo e la loro quotidianità, e soprattutto restituendo la verità del loro linguaggio, del loro modo di guardare e desiderare. A questo però affiancava il cinema, sia in termini di riferimenti “culturali” dei personaggi stessi, sia di citazioni e rimandi, sia, soprattutto, di stile. 

 

Il tradimento di Rita Hayworth, scritto nel 1965 a New York, dove si manteneva come impiegato di Air France all’aeroporto, venne pubblicato, dopo alcuni rifiuti – in particolare di Gallimard e dello spagnolo Carlos Barral – nel 1968 in Argentina. In patria non ebbe alcun successo: furono invece gli Stati Uniti ad accoglierlo con il maggior entusiasmo, e quando nel ’69 anche Gallimard si decise a pubblicarlo Le monde lo definì addirittura uno dei migliori libri dell’anno. Già qui Puig attingeva a quell’immaginario “inferiore” che lo contraddistinse sempre, rifacendosi a radiodrammi e rotocalchi, dando voce soprattutto alla strada, alle donne e ai bambini e ripescando dal cinema la tecnica del montaggio, alternando dialoghi, monologhi. Nella prefazione all’edizione di SUR del Bacio della donna ragno, Alan Pauls scrive: “Questo tranquillo quadretto domestico non è il rituale che dà luogo alla narrazione: è la singolare forma di vita capace di inventare una letteratura. Cucina, televisione, chiacchiere con la madre: ciò che viene fuori da questa scena primaria è una strana fusione di vita e di pratica, di soggettività e di metodo, di esistenza e di estetica”.

 

 

Boquitas pintadas (in italiano Una frase, un rigo appena, riedito nel 2018 da SUR) apparve nel 1969 e fu, invece, un successo ovunque, anche in Argentina, con la sola eccezione di General Villegas, i cui abitanti si riconobbero nella propria imperfezione e verità, e lo odiarono. Si racconta che quando uscì il film, girato dal regista Leopoldo Torre Nilsson, a General Villegas non fu permesso di proiettarlo: la gente, insieme infuriata con l’autore e terribilmente curiosa di riconoscersi sullo schermo, lo andò quindi a vedere “di nascosto” nei paesi vicini. 

Il romanzo si basa sulla storia di un ragazzo, bellissimo, fannullone e malato di tisi, e sull’universo femminile che gli ruota intorno: la fidanzata tradita, le amanti, la sorella zitella. Un feuilleton a tutti gli effetti, ma già crudo nel raccontare le ingenuità e meschinità della provincia, nello smascherare il meccanismo di una cultura di massa intenta a educare i sentimenti. Durante la sua infanzia immersa nella provincia, Puig aveva sviluppato il dono dell’osservazione quotidiana, la capacità di ascoltare, e fu proprio questo a permettergli di restituirne in maniera così vivida e realista il linguaggio, senza rischiare mai di burlarsene, senza cadere in un fare snobisticamente sociologico, senza insomma tirarsene fuori ma sapendo di appartenere lui stesso a quell’universo, parlando dall’interno, mettendosi in gioco per primo. Lui stesso raccontava: “Per cominciare, pensai di scrivere una paginetta con le cose che diceva mia zia, ma quella voce cominciò a dettare e non potei fermarmi… Quello che risultava espressivo era la somma delle banalità. L’accumulazione”. Gli interessava andare a cercare nel kitch e nel cattivo gusto, nella banalità e nel main stream, perché lì dentro c’era anche lui. 

Puig riusciva a trasformare il colloquiale in categoria letteraria e aveva la straordinaria capacità di scomparire dalla scrittura, riuscendo così a dar voce solo ai personaggi, proprio come al cinema: anche qui, come nel precedente, il racconto veniva “montato”, attraverso lettere e dialoghi, flashback e flashforward, una sorta di editing o riorganizzazione in cui si mescolavano la “memoria” del vissuto e quella dello schermo.

 

Ma la capacità di Puig di mescolare mondi, generi e intenzioni deflagrò con Buenos aires Affair (riproposto ad aprile sempre da SUR), uscito nel 1973, subito ristampato e poi sequestrato per oscenità. Si tratta di un poliziesco, che si apre con la scomparsa di una giovane artista plastica e il mistero della sua relazione con un critico cinematografico. Interviste, citazioni cinematografiche, conversazioni telefoniche costituiscono i pezzi di un puzzle da ricomporre. Ma al centro del romanzo c’è in realtà la psicologia dei due personaggi, il tema della solitudine sessuale, dell’accavallarsi di perversione e bigotteria. Da qui le accuse di pornografia. A infastidire il peronismo però non potevano essere state tanto le (poche) scene di sesso, quanto piuttosto i temi scomodi affrontati, le battute politiche più o meno esplicite, i riferimenti alla cronaca delle attività militanti sovversive e gli accenni alla tortura praticata dalle forze statali. Ricevette minacce, il suo rapporto con l’Argentina, mai stato davvero fluido, si ruppe definitivamente: si trovava allora in Messico e dovette decidere di non tornare più a casa. 

 

Fu un autore capace di intercettare il grande pubblico degli anni ’60, tradotto negli Stati Uniti e in Europa, e allo stesso tempo latore di denuncia politica, al limite fra la cultura di massa e l’innovazione. La sua scrittura riusciva a essere insieme d’intrattenimento – rosa, gialla, noir o del colore che si preferisce – e di ricerca, a essere sperimentale nello stile, sferzante nella denuncia politica, e, avrebbe detto Manzoni, “interessante per mezzo”, dove interessante è proprio quel linguaggio colloquiale, quel retroterra melò rivendicato nell’esergo di ogni capitolo con una citazione hollywoodiana. 

 

Ma è con Il bacio della donna ragno (SUR, 2017) che questo intrecciarsi di generi e soprattutto di intenzioni raggiunge il punto più alto. 300 pagine di solo dialogo, nella cella di un carcere: Valentín Arregui, attivista politico di ventisei anni, e Luis Molina, omosessuale quarantenne accusato di aver avuto una relazione con un minorenne, s’intrattengono raccontandosi film mélo o horror di bassa lega, si accudiscono, insultano e aiutano, forse si pugnalano alle spalle, forse s’innamorano. Il racconto è accompagnato da accurate ed esaustive note di taglio socio-politico che esaminano le più disparate teorie sull’omosessualità.

Puig tocca in una volta sola due temi tabù dell’epoca, l’omosessualità e la militanza. Non solo: ancora più tabù, quasi più per l’opposizione che per il potere, era forse l’intrecciarsi delle due cose. La possibilità di un rapporto tra i due, e addirittura di una leggera superiorità della mariquita – più forte, lucida e umana – sul giovane e virile rivoluzionario, sarebbe parsa allora inammissibile. Il bacio della donna ragno colpiva, oltre alle bassezze dei regimi autoritari, soprattutto le carceri interiori, i limiti imposti dall’oppressione della società sull’individuo, quelli di cui neanche a sinistra ci si riusciva a liberare. Tanto che in Italia, Feltrinelli, al tempo casa editrice militante per eccellenza, non ebbe il coraggio di pubblicarlo: uscì per Einaudi, che non gli fece comunque troppa pubblicità. A fare un enorme successo, tanto da vincere un Oscar, fu invece il film, realizzato a metà degli anni ’80 quando i venti rivoluzionari dei due decenni precedenti si erano ormai ampiamente spenti.

 

A partire dal 1983, i romanzi di Puig avevano smesso di essere proibiti in Argentina. Appariva però come scrittore della vita quotidiana, urbana, banale, relegato al ruolo di intrattenitore e non riconosciuto per lo sperimentatore che era stato, per l’analisi psicologica e sociologica che filtrava dai suoi racconti. Non tornò in Argentina. Dopo alcuni anni passati in Brasile, nella cui cultura sessuale si trovava certamente molto più a suo agio che in patria, si trasferì a Cuernavaca, in Messico, dove pose un termine alle lunghe peregrinazioni che avevano fin lì caratterizzato la sua vita. Quando nel 1990 morì all’improvviso per complicazioni in seguito a un intervento chirurgico, girarono voci secondo cui Puig era da tempo affetto dall’AIDS, con l’intento, ancora, di diffamarlo. L’indefinibilità resta sempre difficile da accettare e Manuel Puig, che non rispetta in nessun momento la sacralità del limite – che sia tra cinema e letteratura, tra linguaggio alto e basso, omosessualità e virilità, tra la provincialità del suo punto di partenza e il nomadismo della sua vita – è sempre rimasto su delle soglie, prendendo da una parte e dall’altra, rendendosi scomodo a ogni tentativo di incasellamento, forse così in qualche modo mantenendosi libero.

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