Maria Nadotti, Sesso&Genere
Era il 1995 quando Saggiatore pubblicò per la prima volta Sesso&Genere di Maria Nadotti: sono passati quasi trent’anni, il dibattito sul tema si è intensificato, modificato, è arrivato alle orecchie e alla consapevolezza di molti, nel nostro vocabolario è giunto un termine che forse spezza il discorso stesso e consente un possibile e non scontato salto.
“Gender fluid”, “agg. Detto di persona che rifiuta di riconoscersi in un’identità sessuale definita e definitiva”: così Treccani descrive questo termine che negli ultimi anni è entrato nel linguaggio comune. Una bella spiegazione veniva data anche da Anita Romanello su queste pagine alcuni anni fa: “… millennial e postmillennial stufi dell’infinita e confusionaria categorizzazione sessuale (Lesbian, Gay, Bisexual, Trangender, Queer, Intersex, Intersex maschio, Intersex femmina, Questioning, Asexual, Alleato della casa LGBT) hanno invece deciso di sposare l’idea di gender fluid”. Una possibilità di scartare, di sfilarsi dal discorso, dal bisogno incessante di definirsi e dunque anche di essere definiti (dagli altri, dalla società). Forse – ma ci sono diversissime opinioni e desideri in merito – addirittura la possibilità di svicolare dal pantano della grammatica se è vero, come scriveva Tiziano Scarpa qualche mese fa su “Domani”, che “voler essere rappresentati dalle parole è un’illusione che può trasformarsi in un errore politico. Le parole non ci rappresentano. Nessuna parola, mai. Nella diffidenza verso le parole, lì sta la nostra possibilità, il nostro posto nel mondo: che non è dentro le parole, ma nell’ombra che le parole gettano di fianco a sé stesse”. Fluidi, immuni da definizioni di sorta, non saranno la grammatica e la burocrazia a imbrigliare il complicatissimo essere in continuo movimento che siamo. “‘Cause there’s a million thing to be”, avrebbe aggiunto Cat Stevens.
Siamo arrivati fin qui, a questa possibilità di smarcamento – che è solo una possibilità, vedremo cosa ci riserverà la Storia e quanto si riuscirà, spingendo dall’interno, a scalfire una società ancora così binaria – ma il groviglio è ancora ben intricato. Anzi, è intricatissimo e accoglie mille ramificazioni di discorsi.
Per questo, credo, Mimesis Edizioni ha deciso di ripubblicare, a marzo 2022, Sesso&Genere: si tratta di fare il punto e riordinare le idee, guardare alla genesi del discorso per trovare strumenti e punti di riferimento.
Se da una parte la società “pensa” in modo ancora profondamente binario e refrattario a ogni tipo di “terzità”, nonostante la sempre maggior differenziazione delle scelte degli individui, dall’altra anche all’interno del dibattito permangono sacche di confusione e incomprensione.
In questo volume, di nuovo attuale perché riporta alle origini di questo dibattito, Maria Nadotti percorre la Storia e la percezione del maschile e del femminile e della separazione fra sesso e genere.
In tutte le società, nota l’autrice, si è sempre scelto di ripartire gli individui in maschi o femmine, differenziazione che incontra quindi un pieno accordo transculturale. Questa demarcazione primaria basata su elementi “naturali” ha portato però a interpretazioni e valenze spesso discordanti. Così a partire dagli anni ’70 il movimento femminista nordamericano ha voluto marcare una differenza fra sesso – biologico, differenza naturale e “oggettiva” – e genere, ossia le implicazioni sociali e culturali ma non naturali a cui l’assegnazione di un sesso ci sottopone: un modo, insomma, di storicizzare differenze e ruoli dati per scontati e metterli in discussione.
Guardando indietro Nadotti racconta come in realtà a lungo la percezione sia stata – più che di due sessi distinti ognuno con sue peculiarità e di conseguenza ruoli assegnati – di un unico sesso, quello maschile. Il sesso femminile veniva visto come un maschile per difetto (non per niente Eva viene dalla costola di Adamo): senza pene, passivo, imperfetto, sempre e comunque in relazione al maschile, disegnato, pensato, disprezzato ma anche (forse peggio ancora) idolatrato e divinizzato dal maschile. Difficile raccontare a un uomo il fastidio che possono suscitare oggi frasi come “le donne sono tutte… bellissime/misteriose/enigmatiche/divine”.
L’autrice mostra come poi lo sviluppo degli studi anatomici nell’800 abbia portato all’effettivo riconoscimento dei due sessi e giustifica in questo modo l’assegnazione di diversi ruoli.
A guardar bene però la demarcazione non è così netta, tanto che Freud vedeva l’ossessiva demarcazione di genere come una risposta al turbamento che produce il fatto che in realtà, biologicamente, questa demarcazione sia sottilissima o addirittura non sussista.
Anche Laqueur, post-strutturalista foucaultiano, si opporrà alla visione “essenzialista”, sostenendo che il sesso non sia significante fino al momento in cui non entra in gioco il genere.
Tutto lo sviluppo di questo dibattito ha portato alla luce e cominciato a scardinare automatismi e assoluti in cui pochi decenni fa la società era completamente imbrigliata. Ma Nadotti arriva a porre una questione fondamentale: “dopo un trentennio di uso politico della distinzione teorica tra sesso e genere (…) ostinarsi a mantenerla in vita rischia oggi di produrre un pericoloso effetto boomerang”.
Mostra così, ad esempio, come i transessuali siano i “massimi difensori del duale e rigido sistema dei generi di cui sembrerebbero essere le prime vittime. (…) Se non si avesse in mente un modello ottimale di femminilità, stereotipicamente o normativamente appiattito a un insieme di comportamenti, immagini corporee, performatività, come si farebbe infatti a liberare – e da cosa – la donna ‘rinchiusa nel corpo maschile’?”. Nadotti mette in guardia dall’approccio postmoderno che inviterebbe ad “abbandonarsi ironicamente a una strisciante e ingovernabile strategia della confusione e della contaminazione. Gli stereotipi sessuali e/o di genere verrebbero disattivati e polverizzati (…). La spettacolarizzazione della transitabilità dei sessi e dei generi attraverso l’esibizione di un reversibile uso ad infinitum dei loro significati si costituisce in pratica leggera, smitizzante, decostruttiva”, mostrando infine come questi slittamenti di identità sessuali siano, sì, rivoluzionari sul piano individuale, ma rischino addirittura di rafforzare gli stereotipi tradizionali di maschile e femminile, quando il problema è proprio questo sistema di categorizzazione binaria. Ciò che non è consentito, dice l’autrice, è il “pendolarismo” fra maschile e femminile: non è (o non era) consentito essere di passaggio.
Da allora, se formalmente si è andati oltre il mero binarismo, ci si è forse incartati in un’infinità di etichette, che a volte sovrappongono disordinatamente differenze basate sul genere e differenze basate sull’oggetto del desiderio sessuale (l’LGBTQIA+ citato da Romanello).
Il concetto di gender fluid sembra invece un possibile punto di arrivo di tutto questo discorso. Soprattutto se inteso come quella stanchezza di fronte a etichette e categorizzazioni e un punto di partenza per essere liberi di mutare in continuazione, come tutto muta continuamente nell’essere umano.