Bobi Bazlen: io non sono qui
Spero che chi si accingerà a leggere Bazleniana, abbia visto già I’m not there di Todd Haynes e Oren Moverman.
Un libro e un film che parlano, entrambi, di personalità inafferrabili – a chi piacciono coincidenze e corrispondenze farà piacere notare che entrambe queste personalità inafferrabili sono nate sotto il segno zodiacale dei gemelli e hanno addirittura lo stesso nome. Per farlo, per provare a carpire quest’inafferrabilità, libro e film trovano lo stesso, giustissimo, escamotage: raccontano lui usando tutti i volti tranne il suo, tutte le voci tranne la sua, tutte le sue incarnazioni tranne quella “vera” perché una sola, vera, non c’è.
I’m not there è dedicato a Bob Dylan: il film allude alla sua vita, sei attori diversi fra cui Christian Bale e Cate Blanchett lo interpretano, le sue canzoni, che accompagnano il film, sono delle cover, lui appare solo nel video in bianco e nero di un suo concerto. È l’unico film su di lui che Dylan abbia approvato e non stupisce per un personaggio che dice di se stesso “I’m a man of contradictions, I’m a man of many moods, I contain moltitudes”. Non cercando di definirlo, non chiudendo il pugno, questo racconto polimorfo lascia soffiare sul proprio palmo le mille forme, contraddizioni e moltitudini di Dylan.
Bazleniana è una raccolta di racconti, brevi saggi, riflessioni, ricordi. Un tributo a Roberto Bazlen, Bobi, pubblicato dalla casa editrice Acquario – forse essa stessa di ispirazione bazleniana, per quanto recente, perché personaggi così sfuggenti si sottraggono al passare del tempo e continuano a seminare sempre la loro visionaria e scomposta curiosità.
Bobi Bazlen è di quei personaggi elusivi, che scelgono come palcoscenico il dietro le quinte, “ossimorici, che continuamente vengono definiti attraverso una giustapposizione di definizioni in contrasto (…): triestino e transfuga, invidioso e generoso, attivissimo e pigrerrimo, scrittore e non-scrittore, oltre che, ultima, fondamentale dicotomia, occidentale versus orientale. Perché Bazlen, in Italia, è quello che ci ha aperto la strada mitteleuropea prima che diventasse un cliché, che ci ha dato Rilke, Musil e Kafka e ci ha resi più europei, ma in un certo senso ci ha dato anche Nietzsche e il suo Oriente, è stato uno dei primi ad aprire a Jung, agli junghiani e alle loro suggestioni yogiche, ci ha messo a disposizione la Vita di Milarepa, ci ha lasciato un corposo manoscritto, Il capitano di lungo corso, in cui la figura del saggio cinese è ricorrente almeno quanto lo era nei suoi sogni e di cui i suoi disegni recano testimonianaza. E infine ci ha portato l’I-King”. Con queste parole lo racconta Riccardo Cepach in uno dei contributi a Bazleniana.
Nato a Trieste, vissuto a Roma e morto a Milano, di lingua più tedesca che italiana, Bobi Bazlen ha passato gran parte della sua vita a leggere, molto tempo a girare per bettole e tutto il resto a tessere incontri – fra persone, letterature, immaginari e case editrici: di queste (in particolare Einaudi) fu consulente perché portassero in Italia autori e mondi, affinché attraverso i libri circolassero idee e pensieri lontani fossero tradotti, importati, mescolati, immagazzinati. Fu lui stesso traduttore, disegnò e sognò molto, scrisse infinite note sempre senza testo, dalla sua mente nacque l’Adelphi come Atena nacque dalla testa di Zeus. I più non lo sanno, eppure la loro cultura, la migliore, più aperta e vasta cultura italiana, è pregna di Bobi Bazlen. Per quanto la maggior parte dei lettori non lo conoscano, leggono libri che lui ha suggerito, o versi di Montale che lui ha influenzato, o lanciano le tre monete dell’I Ching con cui lui ha cominciato qui a interpretare il suo presente.
In Bazleniana alludono a Bobi voci, ricordi personali. Marco Belpoliti scrive: “Per Bobi la vita era qualcosa di troppo complesso per poterla racchiudere nelle parole di un’opera”. Lui certamente è fatto di moltitudini e straborda e l’unico modo di parlare di lui è questo.
C’è chi racconta di averne fatto un amico immaginario e chi restituisce qualcosa di lui attraverso certi esagrammi dell’I Ching come “la verità intrinseca”. C’è chi ne estrae una goccia d’essenza immaginando un dialogo fra lui, uno psicanalista e un gatto e chi invece studia i suoi interventi più o meno diretti sulle poesie di Montale e le poesie che a Montale ha richiesto mandandogli solo, come materiale, la foto delle gambe della giovane austriaca Dora Markus.
C’è lo splendido racconto dell’allora giovanissimo e aspirante attore Gian Pietro Calasso, che ripercorre i primi momenti della loro amicizia e momenti bizzarri nel castello di un invisibile Ezra Pound. Ci sono i luoghi della sua vita, tante domande senza risposta sulla Trieste della sua infanzia, e la casa di Roma in via Margutta 7 – la sua tana, che tanti ricordano, che faceva da perno alla sua vita da trottola e senza la quale forse perse l’equilibrio. Ci sono memoir personali ma pieni di figure assurte ad archetipi – l’Ex Bambino, il Padre Letterario, l’Uomo di Tutti i Libri. Si trova qualcosa di lui nella sua “Lotta con la macchina da scrivere”, su cui o dentro cui Edoardo Camurri dialoga con Bazlen in un duello fra lettere commerciali, carbone e Bodhisattva. C’è persino il suo respiro, affannoso e poetico.
Ci sono lettere che avrebbe potuto ricevere, se solo avesse vissuto un po’ di più, e che parlano di LSD e dei Beatles, e altre che ha inviato lui alla sua Ljuba, scocciate e vivissime nel loro preludere alla fine. Ci sono anche foto, scattate da Gian Pietro Calasso, e una deve aver rischiato quasi di rubargli l’anima. E infine, a ogni capitolo, c’è la sua voce profonda che passa dai disegni e dai sogni. Disegni folli, onirici, magici e mistici, tanto semplici da non poter smettere mai di guardarli.
I titoli dei libri che lui ha scritto o che sono stati scritti su di lui dicono tanto di questa figura un po’ magica, densa e anonima, ambigua, randagia. Diritto al silenzio, Note senza testo, l’Editore nascosto. Per questo il titolo del film dedicato a Bob Dylan si addice perfettamente anche a Bazlen, e a questa raccolta: “I’m not there”, quel non essere qui perché se provi ad afferrarlo svanisce. Emblematiche alcune sue frasi che vengono qua e là riportate: “D i s a g i o di fronte a tutto ciò che ha già un nome” e “Tutto ciò che è già stato non lo sopporto più”.
Essere senza nome e senza tempo è la libertà più grande. Sfuggire alle definizioni altrui ma anche e soprattutto non definirsi e non definire. Non esserci – oggi poi, che non esserci è difficilissimo.
Fra le pagine di Bazleniana, Chiara Mattioni scrive: “Il capolavoro del non. Irreale, antimaterico. Eppure, eterno. Fondamentale. Infatti, ha inciso nella vita, nel cervello, nel cuore, nelle opere di tanti. L’utilità del non essere che apre le strade dell’infinito attuale”.