Esistenza / Maurice Sachs, Parigi, inizio Novecento

26 Dicembre 2020

L’estate del 1919 fu caldissima. A stento a Parigi ce ne si rendeva conto: c’era troppo altro a cui pensare o da dimenticare.

I cinque anni precedenti erano stati cupi, risuonavano le armi e le grida dei morti della Prima Guerra mondiale, cui si era poi sovrapposta una violentissima pandemia, l’Influenza Spagnola, che non aveva risparmiato nessun continente, aveva ucciso decine di milioni di persone e aveva dato il più violento colpo di coda proprio quell’inverno. 

Così in quella calda estate del 1919 la gente prese a uscire di casa, e a riversarsi nelle strade e nelle notti di Parigi. All’inizio con una certa vergogna – poi quasi senza ritegno – sentiva crescere un disperato desiderio di ricominciare a vivere, di essere frivoli, di non pensare a nulla e di divertirsi, divertirsi senza posa e riconquistare tutta la vita perduta, ballare, toccarsi, scoprirsi. Per dieci anni, l’alta società parigina non fece nient’altro, e forse tornò a casa una mattina del 1929, ancora ubriaca da questa notte infinita, e venne risvegliata dal crollo di Wall Street, ad annunciare l’alba di un decennio tutto diverso, che avrebbe visto fascismi e nazismi prender piede nei paesi limitrofi e infine un’altra terribile guerra far risuonare di dolore i cieli d’Europa. 

 

Sono questi i due decenni vissuti e raccontati da Maurice Sachs.

Nato, probabilmente, il 16 settembre del 1906, ma forse qualche anno prima, era bello, elegante, seducente, povero e senza scrupoli. Mentiva con nonchalance, rubava con destrezza. 

Ebreo di nascita, anticlericale di famiglia, prima si convertì al cattolicesimo, poi entrò in seminario e se ne fece cacciare per aver ceduto all’amore di un ragazzo, infine, trasferitosi negli Stati Uniti, entrò a far parte della chiesa presbiteriana per sposare un’americana di cui si stufò presto e che lasciò, insieme alla fede protestante, per rientrare in Francia con un giovane californiano. Omosessuale a un occhio superficiale, s’innamorò di diverse donne, oltre che di diversi uomini. 

 

Trovandosi a 17 anni a doversela cavare da solo, in seguito all’abbandono dei genitori e ad alcuni anni passati tra un collegio e l’altro, riuscì a introdursi nel mondo pregno di nuovo pensiero, nuove idee e voglia di vivere che animava la Parigi degli anni ’20. Cocteau, Gide, Max Jacob, Coco Chanel avevano tutti qualche decina d’anni più di lui: erano nati tra gli anni ’70 e ’80 dell’Ottocento e avevano cominciato a costruire la loro fama già prima del conflitto mondiale. Ora erano nel pieno della loro popolarità e della loro riuscita, godevano l’eccitazione di una guerra alle spalle e di un presente innaffiato dai soldi tedeschi del trattato di Versailles. Le loro poesie passavano di bocca in bocca e di salotto in salotto, mentre i loro spettacoli venivano messi in scena magari dal Gruppo dei Sei, magari al teatro degli Champs-Élysées come avvenne ad esempio per Les Mariés de la tour Eiffel, e tutti volevano assistervi, e tutti li commentavano e ne discutevano. 

Sachs li guardava, li ammirava, un po’ li detestava. Era giovanissimo e si nutriva di loro. Era il loro segretario, il loro amante. Ne cercava l’amicizia e ne otteneva la guida vanitosa e distratta, la condiscendenza tipica di chi si sente già arrivato. Si faceva invitare alle feste, rubava gioielli da rivendere, trafficava quadri e falsi manoscritti. E poi scriveva, e scriveva di loro. Prima, nel diario Ai tempi del Bœuf sur le Toit, recentemente tradotto da Federico Zaniboni per la casa editrice Lindau, poi nel Sabba (Adelphi, 2011) e nella Chasse à courre.

 

 

Descrive quegli anni esaltandone l’entusiasmo, ma mostrandone insieme lo squallore della frivolezza, come trucco che cola, come il down di una droga. 

Racconta del cinema, la grande novità che sembra riempire tutti di un’euforia nuova, l’arte che racchiude tutte le altre, con cui si potrà dire qualcosa di ultimo e superiore, e che invece viene presto a noia: anche qui, come una droga, bastano dieci anni perché affiorino debole indifferenza e delusione.

E scruta la Germania, questa Germania che paga il divertimento della Francia e porta in sé il germe del pericolo. 

 

Con sguardo lucido vede luci e ombre di un tempo di cui con la scrittura si fa testimone e con la vita protagonista. 

 

Non si avvicina mai al centro della ribalta di quegli intellettuali e artisti un po’ più grandi di lui che con lui vanno a letto, che lo chiamo Maurice la Tante (la checca), che gli permettono di sopravvivere, e che lui tradisce, che usa per nutrire i suoi scritti irriverenti, forse proprio così tenendogli testa.

 

Non si avvicina mai al centro di quella ribalta, al conclamato riconoscimento artistico, ma vive, percorrendo ogni sogno e religione, attraversando tutto, anche il nazismo. 

 

Nel ’40 conduce un programma radio su Paris Mondial con l’obiettivo di convincere gli USA a entrare in guerra contro la Germania, viene inserito nelle liste nere dei nazisti, si nasconde, si dà al mercato nero. 

Nel ’43 si offre alla Gestapo come spia e agente provocatore, immergendosi nell’ambiente omosessuale e fra i trafficanti di Amburgo, a volte denunciando, a volte proteggendo e dunque infine facendosi arrestare lui stesso, incarcerare, poi uccidere nel ’45 durante una marcia della morte, quando una pallottola tedesca pone fine al suo “veloce volo”. 

 

Pare privo di una coscienza da sporcare o da lavare. Sembra non essere inibito da una morale che lo costringa a stare dalla parte giusta, a mantenere pulite le mani, né ai propri occhi né agli occhi altrui. In realtà nel Sabba descrive un animo spesso frastagliato di dubbi e pentimenti, eppure è sempre uno slancio puro e immediato a spingerlo nelle cose, poi a portarlo altrove.

 

La sua scrittura non lascia prigionieri: racconta un decennio il cui fascino risplende ancora oggi nel firmamento della nostalgia del non vissuto, come ben racconta Woody Allen in Midnight in Paris, e sembra con la penna farvi un buco e mostrarne il vuoto. In Ai tempi del Bœuf sur le Toit svela con indifferenza e forse un lieve malessere di fondo la mancanza di senso che attraversa tanto la cupezza della guerra quanto la frivolezza della pace. Si può vivere al centro della Terra, al centro della Storia e dell’arte e sapere che un giorno non resterà altro che la tristezza del mascara sciolto sul volto di tutti. E pure, insieme, scandagliare con purissima passione quante più pieghe possibili dell’esistenza. 

Con uno sguardo straordinario, Maurice Sachs scopre virtù, debolezze e meschinerie dei protagonisti di quel tempo, senza essere mai fedele a niente e a nessuno, nemmeno a se stesso, ma capace di grandi slanci di entusiasmo e di affetto. E forse proprio per questo affascina chi oggi si imbatte in lui: visto ora, da lontano, fuori dai rancori e giudizi contingenti che possono averlo accompagnato in vita, scansa ogni etichetta di vittima o carnefice, si mostra nella sua ammirevole capacità di essere tutto e richiede un altrettanto ammirevole ma fondamentale capacità di sospendere il giudizio. Lui stesso scrive, a proposito di Gide ma in fondo anche di se stesso: “voleva tutto ciò che più era in contrasto, perché la vera intelligenza è fatta di costante opposizione”.

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