A Bloomsbury e altri racconti / La controversa Mary Butts

23 Marzo 2019

Poco prima di quello che Roberto Calasso ha chiamato nel suo Innominabile attuale il più grande e ben riuscito tentativo di autoannientamento che il mondo abbia compiuto, in Europa si aggirava una delle generazioni più colte, aperte e cosmopolite della storia. Lo racconta, per esempio, Klaus Mann nel suo La svolta (Saggiatore, 2016), oppure Annemarie Schwarzenbach in romanzi come Gli amici di Bernhard (L’Orma, 2014) e nei suoi scritti di viaggio in cui riporta, quasi come se niente fosse, quei mesi tra il 1939 e il ‘40 in cui se ne andava in giro in macchina con la svizzera francese Ella Maillard per la Turchia, la Persia e l’Afghanistan. Per non parlare dei diari di Anaïs Nin, delle memorie di Simone de Beauvoir e dell’immaginario che tutti abbiamo della Parigi di quegli anni. Una generazione di giovani che si spostavano fra Londra, Parigi e il mondo mitteleuropeo, che parlavano sempre il francese, molto spesso l’inglese e altrettanto il tedesco, che godevano di una libertà sessuale che negli anni precedenti e negli anni seguenti sarebbe parsa inimmaginabile, spesso politicamente impegnati (si pensi alla giovane Erika Mann che girava per la Germania a dissacrare Hitler con il suo cabaret politico Die Pfeffermüle, “il macinapepe”, inaugurato a Monaco proprio nel 1933), tesi tra la loro profonda libertà e un’Europa sempre più vicina a spezzarsi.

 

Di quella generazione faceva parte anche l’autrice inglese Mary Butts, mai pubblicata prima d’ora in Italia (e solo negli anni ’80 riscoperta nel mondo anglosassone), di cui è uscito a fine febbraio per l’editore romano Safarà A Bloomsbury e altri racconti.

Mary Butts era la quintessenza di questa cultura: era cresciuta in mezzo ai dipinti di Willliam Blake, di cui il nonno era stato grande amico, e aveva studiato alla London School of Economics; durante la prima guerra mondiale stava a Londra con la sua prima fidanzata e nel ’18 si era sposata con il poeta ed editore ebreo John Rodker, fervente pacifista, con cui divorziò una decina di anni più tardi per sposarsi con l’artista omosessuale Gabriel Aitkin; negli anni ’20 stava soprattutto a Parigi, nel ’21 aveva passato tre mesi a Cefalù nell’Abbazia di Thélema (Villa Santa Barbara), tempio della comunità di adepti dell’occultista Aleister Crowley (anche lui bisessuale, laureato in filosofia a Cambridge, aveva viaggiato in Egitto, Messico, Cina e Stati Uniti e negli anni ’30 si sarebbe trasferito a Lisbona dove sarebbe diventato grande amico di Fernando Pessoa). A Parigi Mary Butts aveva conosciuto Cocteau, che aveva illustrato alcuni suoi racconti, e fin dai tempi di Londra era stimata da Ezra Pound. Virginia Woolf trovava invece i suoi racconti sconvenienti e la reputava maligna. 

Nel 1928 venne pubblicato Armed with Madness, romanzo che ruota attorno alla leggenda del sacro Graal. Negli anni ’30, con Gabriel Aitkin, visse tra Londra e New Castle e infine si stabilì a Sennen in Cornovaglia. I due divorziarono nel ’34 e lei morì tre anni dopo, nel ’37, di ulcera allo stomaco.

 

 

In questa sua prima edizione italiana Mary Butts viene presentata come (e in effetti fu) pacifista, bisessuale, occultista ed ecofemminista ante litteram. Tuttavia, a guardare con più attenzione queste definizioni, si comprende perché fu già all’epoca estremamente controversa.

 

Rimasta sempre sentimentalmente legata alla campagna del Dorset dove era nata, amava la natura incontaminata in quanto luogo di spiritualità, e già si batteva ferocemente contro l’inquinamento e l’invasione dell’urbanizzazione e del primo turismo di massa da parte di un popolo cittadino che invadeva le campagne nel tempo libero senza essere in grado di rispettarne la natura. Questo suo impegno ecologista, visto più da vicino, apre la questione che la rende così controversa e che spiega perché la sua opera rimase sconosciuta fino agli anni ’80: non, infatti, perché fosse stata dimenticata, ma perché la figlia Camilla, avuta dal matrimonio con l’ebreo Rodker, non volle per diversi decenni che gli scritti della madre fossero pubblicati. 

Se infatti, come parte di questa generazione aperta e cosmopolita, Mary Butts è certamente un esempio di donna emancipata, che fu in grado di vivere oltre ogni pregiudizio sociale, la dedizione all’occultismo la rende più complessa e ambigua di personaggi come i fratelli Mann o Anaïs Nin. Il pensiero magico-religioso, a maggior ragione in un periodo storico già in odor di nazismo, sottende una certa tensione a certe forme di razzismo o quanto meno elitismo. Tornando per esempio all’impegno ecologista della Butts, non si può non raccontarne anche l’altra faccia della medaglia: il mito cioè di una presunta tradizione inglese pre-cristiana legata al culto di una dea madre, all’idea di contatto con la terra come tramite per ricongiungersi alla divinità, e a un’eredità di lignaggio matriarcale che legherebbe a questo passato di purezza al quale bisognerebbe tornare. Ecologismo e femminismo non perdono per questo di forza o d’interesse, ma assumono un’ambiguità che pone il suo pensiero su un confine labilissimo (perché il ragionamento non è poi così dissimile dal mito di quella razza ariana di stirpe divina proveniente dall’Asia, che passando per Madame Blavadsky arriva fino al nazionalsocialismo), mentre già ai tempi veniva accusata di classismo nei confronti del proletariato visto come orda devastatrice della campagna incontaminata.

 

In qualche modo, la spinta verso studi e interessi magico-religiosi, che in quel periodo in particolare appartenevano a intellettuali che ora definiremmo di destra e che si avvicinavano, volontariamente o meno, al pensiero e alla mitologia che stanno alla base dei fascismi e in particolare del nazismo (René Guenon, Julius Evola…) rende Mary Butts ancora più ammirabile per la sua indipendenza e libertà di pensiero, ma non possono non essere presi in considerazione.

 

A Bloomsbury, raccolta di sei racconti estrapolati dal più ampio A Complete Story (McPherson & Co, New York, 2015), sono la prima occasione di entrare in contatto con questa poliedrica autrice. 

Il primo, da cui il libro prende il titolo, narra l’incontro di cinque fratelli londinesi con i loro due cugini, mai conosciuti prima e cresciuti in Sud Africa. Prima a Parigi, poi a Londra e infine in una casa di campagna il rapporto passa attraverso una sana curiosità reciproca per arrivare a una diffidenza senza prove in cui i primi accusano i secondi di aver ucciso un fratellastro nato da madre bantù e dunque di pelle nera. Così la Butts in un colpo solo colpisce il razzismo insito nel colonialismo (è chiaro il disprezzo che i cugini sud africani provano per il loro fratello di sangue bantù, morto da poco e che comunque avrebbero evitato di portarsi in Europa) da una parte, e dall’altra i pregiudizi dei londinesi colti e aperti, che finiscono per fermarsi anche loro alle apparenze e per accusare senza prove gli “altri”, i cugini venuti da lontano, di un delitto che forse non è nemmeno stato commesso: «Si può essere talmente inclini ai pregiudizi...», «Sapevamo ora come l’ignoranza e la crudeltà avessero coltivato la paura, e la paura un omicidio, e l’omicidio nuova paura, così che il desiderio che li aveva spinti a uccidere due volte non si era mai potuto manifestare» dicono i loro i fratelli londinesi, impauriti dall’idea di ospitare in casa due assassini di tal sorta e pronti a cacciarli senza lasciar loro il tempo di ribattere. Come a chiedersi – e quanto è attuale in questo la Butts! –, a cosa servono allora «un’educazione ammirevole» e tante sfumature intellettuali, se poi ci si fa imprigionare a propria volta da paure e diffidenza? 

 

In Dall’altare al soprammobile del camino, troviamo invece una descrizione dell’amore per Parigi, i suoi vicoli e i suoi boulevard che dovevano provare gli artisti e intellettuali che vi confluivano all’epoca, e insieme però apre a un’altra Parigi, nascosta in alcuni salotti, fatta di eleganti fattucchiere, di sette esclusive, di intrattenimenti “formali e molto ricercati”, in cui si cullano segreti “condivisi e noti a tutti” ma taciuti e chissà, forse inesistenti (come non pensare qui al Pendolo di Foulcault di Umberto Eco?) che però possono inghiottire e distruggere qualche giovane anima troppo entusiasta e influenzabile. 

In Con e senza bottoni e in Brightness falls si rimanda ad avvenimenti sovrannaturali, magia, pratiche occulte, in A Baysewater ad amori omosessuali tra due o forse tre uomini e ad oscuri rapporti di potere all’interno di una famiglia. 

 

Con una prosa a volte molto poetica, l’autrice sembra voler mantenere un tratto di elusività (forse acuita da una traduzione non sempre precisa) che rende talvolta alcuni dialoghi o passaggi d’azione sfuggenti o confusi. Come se, in qualche modo, la Butts volesse insieme criticare e aderire tanto nei temi quanto nello stile a certi caratteri di quell’occultismo, a quella tensione esoterica al segreto e al non detto – e come se, allo stesso tempo, fosse in grado di vederne le falle con lucidità e d’altra parte portata a perdercisi e scivolarci dentro. 

 

Mary Butts è un personaggio emblematico di quella generazione sospesa al limite del baratro proprio perché contiene in sé due anime, quella che in tanti altri scrittori e scrittrici dell’epoca guardava al marxismo, e quella, infinitamente affascinante ma estremamente pericolosa, che ha portato a fare un passo di troppo, e a lanciarsi senza freni in quel tentativo di autoannientamento che ci è mancato poco riuscisse – rischio che non è poi così lontano da noi, oggi.

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