Éric Chevillard / Ma che diavolo è Palafox?

19 Marzo 2019

Éric Chevillard è un autore da molti anni attivo sulla scena contemporanea francese. Vecchio alunno dell'École supérieure de journalisme de Lille, comincia a pubblicare per Les Éditions de Minuit, casa editrice che si distingue per la cura e l’attenzione che dedica agli autori di letteratura sperimentale, a fine anni ottanta. Al giorno d’oggi ha collezionato una vasta produzione narrativa (soprattutto romanzi), al centro della quale spicca, per sagacia e intelligenza, un’opera curiosa, reperibile online: L’Autofictif. Ogni giorno, esattamente alle 00.02, Chevillard vi scrive tre brevi frammenti, vivaci, pungenti. L’impresa va avanti dal 18 Settembre 2007, tanto che la casa editrice L’arbre Vengeur ne ha già fatti uscire tre massicci volumi, che raggruppano tutte le puntuali riflessioni dell’autore, che spaziano dalla vita privata alla letteratura, non mancando di soffermarsi su quel fondamentale interstizio dove le due sovrapponendosi si toccano.

Ecco come ne parla l’autore:

 

«Nel settembre del 2007, senza altra intenzione che quella di distrarmi dalla scrittura di un romanzo, ho aperto un blog, che brutta parola, ebbene ho aperto un brutto blog e gli ho dato per di più un brutto nome (…). E ben presto ho preso gusto, anzi un gusto estremo, a questo esercizio quotidiano d’intervento nel secondo mondo che costituisce oggi Internet, e a queste piccole scritture del tutto libere da ogni ingiunzione. Qui la mia identità di diarista è fluttuante, ingannatrice, proteiforme (…). Non mi proibisco nulla, è il principio, né la sincerità né la malafede, né all’occasione l’omicidio. Queste pagine potranno essere lette come la cronaca nervosa o irrequieta d’una vita nella particolare tensione di ogni giorno.»

È certamente un modo di fare letteratura che si interroga sul suo tempo e sui propri mezzi. Chevillard pone molta attenzione alla forma dei propri testi, ma anche al veicolo espressivo che a quella particolare forma darà risalto: come interagiscono gli autori d’oggi con la piattaforma più comunicativa mai esistita, e cosa apporta l’odierna consumazione di materiale letterario alla sempre, ahimè, troppo poco discussa questione della forma breve? 

«La mia scrittura, dice Chevillard, privilegia due modelli: l’aforisma e la digressione. E tuttavia, ancora fallisco miseramente ogni volta che provo ad inserire – sarebbe la mia grande opera – una digressione in un aforisma.»

 

 

Imbattendosi nei suoi scritti, è chiaro che il suo atteggiamento è quello di un autore che concepisce la letteratura come esplorazione costante delle sue possibilità. Nelle solite formule Chevillard vuole seminare provocazioni, far balenare invenzioni; il suo è uno spirito e un impegno che scoperchiano non tanto panorami nuovi, ma che s’ingegnano per stanare sguardi, vie diverse, itinerari inediti. Vuole stuzzicare le convinzioni comuni, titillare quei punti sensibili che fanno sgranare gli occhi sulla pagina, nella divertita e allo stesso tempo appena fastidiosa sensazione di essere stati imbrogliati.

Il suo ultimo romanzo uscito per Del Vecchio Editore, Palafox, persegue decisamente questa linea. Riconfermandolo come autore dalla notevole personalità, con un suo speciale guizzo, l’opera propone una curiosa tematica: quella della classificazione. 

 

Davanti a noi, sulla tavola di Algernon Buffoon ingombra di avanzi, picchiettandoci contro con il becco, da un uovo affiora Palafox. Una schiera di rinomati zoologi viene convocata, si raccoglie intorno al neo-nato: cos’è, si domandano. Un rettile? Ma ha un lungo e maculato collo da giraffa! Un mammifero allora? Ma è appena sgusciato fuori da un uovo! Forse un anfibio? Se esistono anfibi con le ali... Bando alle ciance, dice infine il professor Cambrelin, è senza dubbio una stella marina! Le capriole della sua erudizione sono toccanti, bisogna pur riconoscerlo, ma giunti alla fine del discorso le contraddizioni abbondano. 

 

Palafox ha una criniera di fiamme (p.44), ma anche una tromba collegata al suo tubo digerente con la quale aspira il nettare dai fiori (p.26); mangia 150 chili di foraggio al giorno, ma ci viene in seguito assicurato che si nutre esclusivamente di maggiolini e larve d’insetti. Ha le ali ed edifica nidi di ramoscelli e di muschio a forma di cupola (p.34); poi si ammanta d’una scorza d’osso, assomiglia a un granchio, fa sbatacchiare le chele, si lancia nell’oceano schizzando alla velocità d’un delfino.

Un animale camaleontico a tutti gli effetti: in un affastellarsi di figure che ci ritroviamo sotto gli occhi, che ci adoperiamo a rivestire, a modellare con l’immaginazione, ogni risultato viene smentito dalla descrizione successiva. Il testo non sembra essere affidabile; ci sentiamo presi in giro. Ma se invece lo scomporsi fluido di Palafox nelle sue continue metamorfosi volesse solo sollecitarci a diffidare di noi stessi e del modo con cui ci preoccupiamo di nominare le cose?

Una parabola allora non solo sulla classificazione ma sulla differenza: poiché supponendo di conoscere noi stessi, e di ignorare chiunque da noi si distingua, capire chi abbiamo davanti significa riconoscere e accettare quanto da noi sarà sempre lontano chi non ci assomiglia.

 

Palafox risulta essere la riproduzione costante di questa lontananza: personifica l’incognito, fa dell’alterità la sua natura e il suo stendardo. Ma non è diverso in quel modo con cui lo si intende spesso nei discorsi d’oggi: non è una diversità che può essere neutralizzata, addolcita o integrata; non può essere avvicinato, come lo si farebbe con un’isola inesplorata, inserendola così dentro i confini della nostra conoscenza.

Appena ci fissiamo sulle sue lunghe corna, ecco che gli spuntano sulla fronte due antenne microscopiche, molto villose; nel momento in cui lo teniamo sul palmo della mano, poche pagine dopo è lui a farci rotolare sul suo petto di gorilla. Le sue grandezze mutano; dalle scaglie argentee che lo ricoprono si alzano ciuffi di piume; i suoi occhi da mosca diventano poi porcini come quelli di un rinoceronte. 

Ma che diavolo è, allora, Palafox? Perché questa incoerenza della sua struttura? Ebbene: Chevillard ribalta la questione. E se fosse la nostra inflessibilità e non la deformabilità di Palafox il problema?

Costruire contorni nei quali ficcare le cose è una pulsione potente.

 

Del resto, sembra dirci l’autore, cosa fanno le parole di cui ci serviamo? Aiutano perché ordinano, rincuorano perché collocano. Eppure. Eppure dalla giusta combinazione di parole può generarsi una scintilla: s’infuoca un indefinito, arde una suggestione. Ecco Palafox! Una creatura sfuggente e poliedrica che schiva le nostre nomenclature: un guscio che protegge un mutevolissimo tutto, e poi delle ali, una coda, e perché no, delle mani minute, dei piedi enormi. Se Palafox fosse una parola apparirebbe diversa ogni volta che la leggiamo: serpeggerebbe prolisso quando vuole darsi un tono; si farebbe secco, appiattendosi, colto da un improvviso malumore.

È un discorso che potremmo accostare a quell’elogio della mutevolezza di cui parlava Leonardo nel Libro della Pittura, opera ricostruita postuma, non senza ambiguità filologiche, a partire dalle fecondissime annotazioni del pittore-scrittore, in cui si meditano vari aspetti sulla teoria e la pratica della pittura.

«Lo ingegno del pittore vol essere a similitudine dello specchio, il quale sempre si trasmuta nel colore di quella cosa ch’elli ha per obietto e di tante similitudine s’empie quante sono le cose che li sono contraposte».

 

Il pittore, continua Leonardo, deve saper riprodurre la mutevolezza delle forme: assorbirle, sicuramente reinterpretarle, e poi restituirle. Il rischio maggiore che i pittori possono contrarre è un esser «stanchi co’ la loro fantasia, (…) riserbandosi una stanchezza della mente». Stanchezza che affligge il cattivo osservatore e quindi il cattivo artista, il quale davanti allo sforzo che richiede la mutevolezza delle cose si fissa, si salda; mentre il vero pittore, l’occhio come uno specchio, muta come muta il suo intorno e ripropone, apportando all’oggetto osservato una parte di se stesso, una riformulazione di quella mutevolezza.

In tutto questo Palafox s’introduce in modo sottile. Sembra aver ingoiato quel pezzo di specchio che riverberando in continuazione nuovi anfratti del mondo altera la sua forma, il suo colore, la sua materia. È una normale personificazione delle cose nella loro stabile alterità; una danza di forme animali che si accavallano, senza alcun contrasto, l’una con l’altra.

Chevillard non disdegna una letteratura incentrata sul gioco, condita d’ironia, ma sarebbe un errore non vederci una profondità. C’è un’allusione che pervade con eleganza tutto il romanzo: vivere sui margini oscillanti delle cose, rinunciando a quella pulsione che chiede di definirle, può sicuramente intimorire, gettare nello sconforto; ma è solo grazie a un occhio che sa fluire senza irrigidirsi e stagnare che è possibile mantenersi attenti nella lettura delle cose che cambiano.

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