Discendenze e Polo Nord / Dell’unica verità possibile sul senso della vita

16 Giugno 2019

La storia che sto per raccontare non si è ancora conclusa. La scrivo perché nella sua inconclusione c’è una certa bellezza, una bellezza che non ritroverei neppure nel più appassionante dei finali. Nella storia c’è un mistero che non si risolve, una curiosità che non viene soddisfatta e un dubbio che non viene dissipato. Ma la mia voglia di raccontarla non è alimentata dal mistero, dalla curiosità e dal dubbio. Piuttosto dalla volontà di riflettere sulle coincidenze che l’hanno condotta fino a me. 

Nel racconto Un uomo occupato, Nabokov scrive: “Quanto più si presta attenzione alle coincidenze, tanto più di frequente esse si presentano”. Io devo aver iniziato da qualche tempo a prestare attenzione alle coincidenze, se è vero che negli ultimi tempi mi sono imbattuto in una carambola di incontri e situazioni di una casualità impressionante. Questi incontri e queste situazioni hanno come filo conduttore un mio presunto bisavolo, un eroico motorista che quasi cent’anni fa morì – come recita una targa posata in sua memoria – “nell’immensa vastità dell’Artide”. 

Questa quindi non è né la storia del motorista, né la ricerca di un mio ipotetico grado di parentela con lui, né l’avventura degli uomini che parteciparono alla spedizione di Umberto Nobile al Polo Nord. Ma è la storia di come tutte queste storie si siano radunate per caso in un unico luogo, un luogo astratto che poi altro non è che la mia vita attuale.

 

La storia ha inizio ai primi di maggio, nel Canton Ticino, dove mi trovavo per partecipare a un festival letterario. Una sera gli organizzatori mi hanno comunicato che nella sala ristorante dell’albergo in cui alloggiavo ci sarebbe stata una cena a cui avrebbero partecipato tutti gli ospiti del festival. L’appuntamento era previsto per le venti. Ma quando è arrivata l’ora ho aspettato nella mia stanza fino alle venti e cinque. Poi ho chiuso la porta e sono sceso. Erano cinque minuti di ritardo calcolati con assoluta cognizione. Avevo pensato che se fossi arrivato per primo sarebbe stato sconveniente sotto molti punti di vista, non conoscevo nessuno e avrei dovuto impersonare la parte di colui che aspetta non si sa bene chi. D’altro canto se mi fossi presentato con un ritardo maggiore avrei corso il rischio di trovare tutti i posti occupati, e magari un’unica sedia libera nel tavolo più svantaggiato, con i commensali meno ambiti, tra i quali a quel punto avrei dovuto annoverare anche me stesso. Ho pensato che cinque minuti di ritardo rappresentassero la giusta misura, perfino in Svizzera.

Quando ho varcato l’ingresso della sala ho avvistato uno sparuto capannello di persone. Tra loro c’era un uomo che confabulava col cameriere indicandogli i tavoli riservati agli ospiti. L’uomo aveva modi gentili, era alto e magro, vestito elegantemente, ma di quell’eleganza coscienziosamente sfatta, di chi ha lavorato per tutto il giorno e alla sera, fiero, ne esibisce i segni: la cravatta allentata, le falde del blazer stropicciate, la camicia avvizzita. Era il direttore del festival. Mi ha sorriso e mi è venuto incontro. Mi ha chiesto com’erano andati gli incontri della giornata (la mattina avevo partecipato a una diretta di due ore alla radio svizzera e nel pomeriggio avevo tenuto una conferenza pubblica per presentare il mio ultimo libro), poi mi ha invitato a sedermi al tavolo insieme a lui e a sua moglie. 

 

Era un tavolo da sei. Oltre a noi c’era una coppia di coniugi genovesi che mostrava di non avere troppa voglia di sprecarsi in convenevoli. Pochi minuti dopo si è aggiunto il sesto commensale: una donna scandinava dall’aria allegra e dai modi decisi. Appena la donna è entrata in sala, il direttore è scattato in piedi e le è andato incontro per aiutarla. La donna camminava con l’ausilio di una stampella, ma nonostante ciò sembrava in grado di sbrigarsela da sola. Malgrado avesse l’età di mia madre, aveva nel portamento uno sprezzo totale, o forse sarebbe più corretto dire un generico disinteresse per l’infortunio che l’aveva costretta a quell’improvvisa e parziale disabilità. Ci ha mostrato divertita l’estremità della stampella che terminava con una specie di rampone. “È un antiscivolo che mi serve per camminare sul ghiaccio”, ha detto. Era la scrittrice ed esploratrice norvegese Monica Kristensen.

Mi sono alzato e mi sono presentato pronunciando il mio cognome, il che ha provocato in lei una reazione inattesa. Ha sgranato gli occhi e ho visto comporsi sul suo viso un’espressione di divertita meraviglia. Ho dubitato che avesse scambiato il mio cognome con quello di un altro ospite del festival, qualcuno con una fama ben più consolidata della mia (al nostro stesso tavolo, per dire, la sera prima era seduto il premio Nobel nigeriano Wole Soyinka). Ma lei, incredula, ha ripetuto: “Pomella?”. Al che, cautamente, ho annuito. Ho pensato di dover indagare sul motivo di tanta meraviglia, ma non sapevo neppure da che parte incominciare. È stata lei che mi ha tolto dall’imbarazzo: “Ti chiami come uno dei personaggi del mio ultimo libro”.

 

Il suo ultimo libro è un romanzo documentario che indaga sul destino di uno dei grandi eroi dell’esplorazione polare, Roald Amundsen. Si intitola appunto L’ultimo viaggio di Amundsen. La storia è molto nota. Amundsen partì il 18 giugno 1928 a bordo di un idrovolante francese per soccorrere Umberto Nobile, il cui dirigibile, l’Italia, si era schiantato il 25 maggio sulla banchisa a nord delle Isole Svalbard. I sopravvissuti della spedizione di Nobile, feriti, affamati e sull’orlo della pazzia, avevano trovato riparo nella famosa tenda rossa. Ma l’idrovolante su cui viaggiava Amundsen si inabissò nelle acque del mare di Barents. Tra i membri dell’equipaggio di Nobile c’era un motorista che aveva già partecipato alla precedente spedizione del Norge, l’aeronave che nel 1926, con un equipaggio di diciassette uomini, tra cui gli stessi Amundsen e Nobile, aveva sorvolato il Polo Nord. Il motorista perse la vita nell’impatto del dirigibile Italia, fu scagliato sul pack dalla navicella di poppa e morì all’istante. Si chiamava Vincenzo Pomella.

Queste notizie me le ha riferite Monica Kristensen nel quarto d’ora di chiacchiere che è seguito a quella nostra prima stretta di mano, convinta fin dal principio che Vincenzo Pomella fosse un mio bisavolo. “Prima di scrivere il libro ho fatto tre anni di ricerche. So tutto dei membri della spedizione del dirigibile Italia. Quello che non ricordo è di dove fosse originario Vincenzo Pomella”, mi ha detto. “Forse di Milano”. 

 

 

Ma la sua supposizione era sbagliata. È bastato impugnare il cellulare e fare una semplice ricerca sul web per scoprire che in realtà il mio presunto bisavolo nacque nel 1896 in un piccolo comune di seimila abitanti vicino Cassino. Il nome del paese è Sant’Elia Fiumerapido. A tredici anni si trasferì a Roma nella casa di uno dei nove fratelli. Nella capitale iniziò a lavorare in un’officina meccanica. Poi allo scoppio della prima guerra mondiale si spostò a Torino, nel Genio Aeronautico, dove frequentò un corso per motoristi di dirigibili. Il 9 agosto del 1918 prese parte al volo su Vienna ideato da Gabriele D’Annunzio, durante il quale vennero lanciati migliaia di manifestini tricolori contenenti una beffarda esortazione alla resa. Alla fine della guerra venne assegnato allo Stabilimento Costruzioni Aeronautiche di Roma dove conobbe Umberto Nobile. Nobile lo volle con sé nella squadra del dirigibile Norge con cui, insieme a Roald Amundsen, nel 1926 sorvolò per la prima volta il Polo Nord. 

“Vincenzo non è nato a Milano, ma a Cassino”, ho detto a Monica, levando lo sguardo dal cellulare. “E indovina di dov’era il mio nonno paterno?”, ho aggiunto. Gli occhi dal tipico epicanto scandinavo le sorridevano. “Di Cassino?”, ha quasi implorato. Ho annuito: “E si chiamava Umberto, come il generale Nobile”.

Monica appariva visibilmente eccitata da tutte quelle coincidenze. Era arrivata a Chiasso nel pomeriggio direttamente dall’Inghilterra, dove vive, per raccontare in pubblico del suo lavoro di scrittrice e della sua vita da esploratrice (è stata a capo di diverse spedizioni al Polo Sud inseguendo le tracce di Amundsen), e credo che mai avrebbe immaginato di incontrare lì un probabile discendente di uno dei protagonisti del suo libro.

 

In L’ultimo viaggio di Amundsen, il motorista Vincenzo Pomella compare fin dal principio, quando viene descritta la partenza del dirigibile Italia da Kings Bay, il fiordo nella più estesa delle isole Svalbard che fu scelto come base di appoggio della regia nave Città di Milano durante la spedizione artica di Umberto Nobile: “Appena prima delle cinque, il dirigibile era finalmente fuori dall’hangar e aleggiava a pochi metri dal suolo innevato. Gli aiutanti mollarono anche l’ultima fune di traino e si misero a guardare sollevarsi lentamente l’aeronave a forma di sigaro, lunga più di cento metri e alta quasi venti. Il motore di poppa, con Vincenzo Pomella in cabina, si accese: provvedeva sia al sollevamento che a regolare la velocità di navigazione”. 

Parlando con Monica, mi è riaffiorato all’improvviso il ricordo di un messaggio ricevuto su Facebook qualche anno fa. Era il messaggio di uno sconosciuto che diceva pressappoco così: “Sapevi di avere un parente che ha partecipato alla spedizione di Nobile al Polo Nord?”. Il tono era così imperioso da non lasciare spazio ad alcuna replica. Eppure avevo tentato di ribattere lo stesso. Era il tempo in cui non avevo ancora fatto pace con mio padre e tendevo a rifiutare tutto ciò che proveniva da quel ramo della mia famiglia. Del resto non avevo neppure modo di appurare quella presunta parentela. Perciò avevo risposto che non ne avevo mai sentito parlare, e che del resto non credevo di essere l’unico al mondo a chiamarmi Pomella. Lo sconosciuto aveva risposto stizzito, con una sicumera davvero irritante, sostenendo che – volente o nolente – ero senz’alcun dubbio un discendente di Vincenzo Pomella. La cosa era finita lì e l’avevo archiviata come la sortita di un mitomane.

 

Ho riferito l’aneddoto a Monica Kristensen che si è messa a raccontarmi di Vincenzo Pomella. Ha detto che a bordo del dirigibile Italia svolgeva il lavoro più duro, che era un uomo molto intelligente, un vero e proprio sognatore, e che il suo corpo fu ritrovato tra i ghiacci nella posa del pensatore di Rodin. Ha aggiunto che probabilmente avevo sbagliato a giudicare in quel modo lo sconosciuto che mi aveva scritto, e che a conti fatti l’autore del messaggio avrebbe potuto essere lei stessa. Ha suggellato quest’ultima frase con una sonora risata. Poi mi ha chiesto di annotarle il mio indirizzo email sul suo biglietto da visita. “Ti scriverò tutto quello che so su Vincenzo Pomella”, mi ha promesso. Dopodiché è arrivato il cameriere; io ho ordinato asparagi e petto d’anatra, lei un improbabile piatto di spaghetti alla carbonara. 

Il giorno dopo, di ritorno a Roma, mentre il Frecciarossa fendeva la campagna toscana, una delle organizzatrici del festival mi ha chiamato al telefono: “Monica Kristensen chiede di te”, ha detto. “Vorrebbe farsi una foto insieme al nipote di Vincenzo Pomella”. 

 

Una settimana più tardi mi trovavo a Torino per il Salone del libro. Una sera stavo cenando con un gruppo di amici in un ristorante nel quartiere di San Salvario. Al tavolo accanto al nostro erano seduti gli editori italiani di Monica Kristensen. Per tutta la durata della cena ho pensato che forse avrei dovuto alzarmi, presentarmi e raccontare loro dell’incontro di Chiasso. Ma non ho avuto il coraggio, o piuttosto pensavo che quella storia sarebbe potuta sembrare loro inverosimile, o nel migliore dei casi che non vi avrebbero trovato nulla di interessante. E quindi ho lasciato correre. L’indomani in fiera sono passato al loro stand e ho comprato L’ultimo viaggio di Amundsen. Ma ho taciuto anche in quell’occasione, limitandomi a pagare e ad andarmene. 

 

Poi la sera del sabato mi sono ritrovato a partecipare a una di quelle feste che si tengono ogni anno nei giorni del Salone del libro e che richiamano tutto il mondo dell’editoria italiana, e ho incontrato T., un amico di Roma che fa lo scrittore. Con T. ho una rodata confidenza, e non avendo nulla di meglio di cui parlare ho iniziato a raccontargli della cena di Chiasso, di Monica Kristensen e di Vincenzo Pomella. Lui lì per lì ha taciuto, è rimasto ad ascoltarmi per tutto il tempo e a sorridere. Ma si è rifatto vivo la domenica pomeriggio mentre mi aggiravo nei pressi della stazione di Porta Nuova. Mi ha scritto su Whatsapp: “Una cosa incredibile: ho scoperto che quel Vincenzo Pomella era lo zio di un’amica di famiglia della mia ragazza. Questa donna è viva, ha novant’anni ed è di Cassino, si vantava sempre di una parentela con un membro della spedizione di Nobile”. 

A quel punto ho pensato che dovevo fare le uniche cose sensate che andavano fatte, la prima delle quali era telefonare a mio padre e chiedergli se avesse mai sentito parlare di tutta questa storia. Ma mio padre ha detto di non saperne niente. “La sola cosa certa è che la nostra famiglia è originaria di Cassino. I Pomella vengono tutti da là, e non è che ce ne siano tanti in giro”. In effetti aveva ragione. Esistono dei siti che generano mappe geografiche raffiguranti la diffusione di un cognome. Ho scoperto così che in Italia settantasei persone si chiamano Pomella, la maggior parte vive tra il Lazio, il Trentino Alto Adige e il Piemonte. Un numero che può far ragionevolmente pensare che si tratti dei discendenti di un medesimo ceppo familiare. 

 

Dopodiché ho cercato delle foto che ritraessero Vincenzo Pomella. Ne ho trovate tre. Nella prima è di tre quarti, vestito elegantemente, con giacca, papillon e fazzoletto da taschino. In lui non sembra esserci alcuna somiglianza né con me né con mio padre, a eccezione forse di una certa inquietudine che trapela dallo sguardo (tipica dei nostri geni), e di una ruga da occhiaie che possiede anche mio figlio di nove anni. Nella seconda è ritratto insieme ai compagni del Norge: il capo motorista Natale Cecioni, il motorista Attilio Caratti e il timoniere Renato Alessandrini. In questa foto si intuisce la sua bassa statura (la mia linea paterna è tutta sopra al metro e ottantacinque, tuttavia mio padre sostiene che il fratello di mio nonno fosse abbastanza piccolo di statura). La terza lo ritrae vestito con la pelliccia da Inuit.

Infine ho scritto una lettera al comune di Sant’Elia Fiumerapido: “Buongiorno, mi chiamo Andrea Pomella e sono uno scrittore. Di recente ho conosciuto a Chiasso la scrittrice Monica Kristensen, che è anche una delle più note esploratrici polari nordeuropee. Il suo ultimo libro – L’ultimo viaggio di Amundsen – è dedicato alla spedizione dell’esploratore norvegese Roald Amundsen in salvataggio del dirigibile Italia e del suo equipaggio, capitanato da Umberto Nobile e schiantatosi al Polo Nord nel 1928. Monica Kristensen mi ha messo al corrente che dell’equipaggio di Nobile faceva parte anche il motorista Vincenzo Pomella, di cui ho reperito qualche notizia in rete, tra le quali quella che si riferisce alla sua nascita nel comune di Sant’Elia Fiumerapido. So che mio nonno si chiamava Umberto Pomella ed era nato a Cassino il 3 marzo 1924. Vorrei capire se esiste una parentela tra mio nonno e Vincenzo Pomella. Non ho mai fatto ricerche anagrafiche o genealogiche per cui non conosco la prassi da seguire in questi casi. Confido in un vostro aiuto che sarebbe per me molto prezioso”.

Mentre scrivo sono passati ventiquattro giorni da quando ho inviato questa lettera, e dal comune di Sant’Elia Fiumerapido non è arrivata alcuna risposta. Monica Kristensen non ha scritto la mail che mi aveva promesso (“Ti scriverò tutto quello che so su Vincenzo Pomella”). Io non ho ancora trovato il tempo e la motivazione necessari per percorrere i centotrenta chilometri che separano casa mia da Sant’Elia Fiumerapido per visitare i luoghi in cui è nato Vincenzo Pomella e fare qualche ricerca che si possa dire risolutiva. Mia sorella per saperne di più ha scritto a un’associazione culturale locale che si fa gran vanto del concittadino che partecipò alla famosa spedizione polare con Nobile. Ma anche da lì nessuna risposta.

 

Nelle pagine de L’ultimo viaggio di Amundsen Monica Kristensen descrive così il momento in cui il comandante in seconda, Adalberto Mariano, e il ricercatore ceco František Běhounek, dopo lo schianto del dirigibile sul pack rinvengono il corpo di Vincenzo Pomella:

“Erano arrivati in una piccola area piena di rottami. Una delle grandi eliche era completamente distrutta e le schegge di legno erano sparse sul ghiaccio. Dalla neve spuntavano i pezzi di una cabina motore. Dietro un cumulo di neve ghiacciata intravidero una figura mezzo accasciata in avanti, con la testa appoggiata alla mano. Era il motorista Vincenzo Pomella. Morto. Rimasero a lungo lì, l’uno accanto all’altro, a guardare il motorista morto, che solo fino a qualche ora prima era vivo come loro, con i loro stessi pensieri e il loro stesso sogno di un ritorno a Kings Bay. Non sapevano cosa dire. Alla fine Mariano chinò la testa e mormorò un semplice «Addio»”.

 

Questa dunque è la storia inconclusa. Ricapitolando: un mese fa ho incontrato a Chiasso una scrittrice ed esploratrice norvegese che vive in Inghilterra la quale mi ha detto che forse il motorista di Nobile, morto nel deserto artico nel 1928, era un mio consanguineo, e ho scoperto poi, a distanza di una settimana, che la fidanzata di un mio caro amico conosce personalmente una donna di novant’anni che, lei sì, è di sicuro parente del motorista di Nobile. 

Da un mese a questa parte dunque mi ritrovo imbrigliato in qualcosa che in realtà è molto semplice, qualcosa che ha a che fare con le due domande in fondo più banali dell’uomo: Da dove veniamo? e Qual è l’unica verità possibile sul senso della nostra vita?

In filosofia il concetto di caso si contrappone a quello di necessità. La necessità è la condizione di ciò che non può essere diversamente da com’è. Il caso invece è una concatenazione di fatti di cui la nostra ragione è incapace di trovare le cause. Il caso quindi è nient’altro che una forma imperfetta di conoscenza, laddove la necessità è invece un attributo costitutivo della realtà.

Sarebbe stato sufficiente che io non andassi a Chiasso, o che non ci andasse Monica Kristensen, perché il caso non si concretizzasse. Ma si è concretizzato. Ciò che trovo bizzarro non è il fatto in sé, ma la forma che lo ha determinato. Se io mi fossi imbattuto da casa mia nella vicenda di Vincenzo Pomella, questa storia non avrebbe avuto fattezze così singolari. A renderla quasi incredibile sono i luoghi e i modi disparati attraverso cui tutte le informazioni si sono concatenate. 

 

Ma ciò che definisco quasi incredibile non è il ragionevole esito della storia (non riesco al momento a immaginare un finale diverso da me che scopro di essere o non essere consanguineo di Vincenzo Pomella, il che a conti fatti, al di là di soddisfare una mia legittima curiosità, non schiuderebbe alcuna prospettiva esaltante, né in un verso né in un altro). È piuttosto la piacevole sensazione di sentirsi incastonati in un meccanismo umano elaboratissimo che muove gli ingranaggi dello spazio e del tempo. Il caso forse è esattamente questo: qualcosa che viene a mostrarci in maniera inattesa il nostro essere parte di un gioco più grande, un gioco entro il quale la cosa che chiamiamo solitudine in fondo non è che una contorsione della mente, una visione senza riscontri nella realtà.

Ecco allora che le domande Da dove veniamo? e Qual è l’unica verità possibile sul senso della nostra vita? arrivano a toccarsi in un punto remoto della coscienza del mondo, in un angolo dell’immenso labirinto di cui tutti facciamo parte, e nei cui meandri misteriosi non smettiamo mai di sorprenderci quando ci capita di incontrarci.

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