Gli oggetti assoluti di Anish Kapoor

15 Dicembre 2023

L’immaginazione artistica è scrupolosa e quella filosofica se ne giova. Tutto sta a intendersi sul significato nascosto della parola “scrupolo”. Una persona scrupolosa è certamente piena di attenzione, capace di azioni accurate, attente al particolare, regolari e ripetute. In una recente intervista, l’artista anglo-indiano Anish Kapoor, presentando la sua opera, descrive la sua giornata lavorativa con toni che l’immaginario collettivo difficilmente riferirebbe alla produzione artistica. Tutte le giornate sono uguali tra loro nella loro scansione e molto regolari. Iniziano alle 8:30 e si concludono alle 19:00, similmente a quanto accade in un lavoro d’ufficio. “Mi sarebbe impossibile fare diversamente. Non sono in grado di lavorare la notte, ho bisogno di una vita regolare”. Ecco, dunque, lo scrupolo nella sua più immediata accezione. Poco più avanti, nella stessa intervista, Kapoor confessa che la sua attività creativa è magnetizzata dall’estraneità, dal contatto con ciò che non si conosce, dalla disponibilità a far emergere nello spazio intorno oggetti bizzarri, alieni, mai incontrati prima. Anche qui, dobbiamo esercitarci ad abbandonare un altro luogo comune sull’esperienza artistica, quasi sempre associata a un carattere espressivo, vale a dire alla capacità di tradurre il mondo interiore in forme e figure materiali. L’interiorità dell’artista qui cede il campo a strani oggetti, simili, suggerisce Kapoor, a quelli che popolano uno studio psicoanalitico. “Lo raffronto con il discorso tra paziente e analista nella psicoanalisi; qualcosa emerge ed entra nello spazio, quasi fosse una terza entità”. E con questo, abbiamo spazzato via il terzo cliché, quello che riguarda la psicoanalisi: l’idea che lo studio analitico sia popolato da due interiorità soggettive che cercano di empatizzare l’una con l’altra. Al contrario, il setting analitico è la scena che si progetta per assistere all’emergenza di entità terze.

Lentamente comincia a prendere forma il significato nascosto della parola “scrupolo”. Dal latino scrupŭlus (e anche scrupŭlum, scripŭlum, scriptŭlum) indica propriamente una “piccola pietra, pietruzza”, diminutivo di scrupus “sasso, pietra a punta”. Per restare ancora un attimo nel mondo della psicoanalisi e della psichiatria, Pierre Janet, agli inizi del Novecento, definisce “malattie scrupolose” quei disturbi generalmente diagnosticati come ossessioni, manie mentali, tic, fobie, sentimenti bizzarri di estraneità e di depersonalizzazione. Talvolta queste malattie venivano raccolte sotto il nome di “deliri degenerati”, “nevrastenia”, “frenastenia”. Janet preferisce designarle, un po’ informalmente, come malattie scrupolose. Si intuisce il senso di questa scelta. Lo scrupolo consisterebbe in una concentrazione parossistica su idee fisse, un grande impegno e un’assoluta diligenza nel riprodurre alcune unità sclerotizzate dell’esperienza, facendo emergere collateralmente la consistenza materica inassimilabile, non innervabile, delle nostre piccole pietre. Si tratta di disturbi mentali, caratterizzati da una diminuzione del tono vitale, da forme di psicoastenia, che portano in primo piano oggetti inerziali, alieni.

Lo scrupolo torna ad essere protagonista nell’incontro tra l’opera di Anish Kapoor e la filosofia di Federico Leoni, il quale ha appena dedicato all’artista britannico di origine indiana un bellissimo e appassionante saggio: Metafisica dello specchio. Anish Kapoor e la poesia delle superfici (Marsilio, 2023). Lo scrupolo mantiene il suo carattere di entità terza. A differenza di molti artisti contemporanei, Kapoor non prende la via dell’astrazione, della smaterializzazione, resta piuttosto fedele alla via dell’oggetto. I suoi oggetti sono entità spaziali che emergono dagli ambienti senza traccia di lavorazione. Kapoor fabbrica oggetti, senza che la mano che li ha prodotti si manifesti. L’oggetto “mette tra parentesi ogni rapporto con il soggetto che l’ha creato così come con il soggetto che è destinato a incontrarlo da spettatore, osservandolo in un parco, in una piazza, in una galleria d’arte. È un oggetto sacro, un prodotto cosmologico, un documento dell’assoluto” (p. 11). 

Si tratta, però, di strani oggetti. Mentre, come abbiamo visto, Pierre Janet li convocava per alludere a uno stato di mortificazione della vita, di esaurimento parallelo alla diminuzione di attività psichica, gli scrupoli di Kapoor sono palpitanti di vita. I suoi oggetti scompaiono e respirano, la loro presenza, pervasa da uno spasmo tra pieno e vuoto, è nello stesso tempo incisiva, perentoria e sottrattiva ed evanescente. Hanno in sé il ritmo del respiro. Sono dunque oggetti animati, campi di forze che assomigliano a un soggetto, osserva Federico Leoni, o piuttosto ci ricordano che un soggetto è già da sempre un oggetto, un punto nello spazio come crocevia di infinite relazioni. L’oggetto non è più, dunque, lo scrupolo inerziale e inamovibile, ma è uno snodo, una piega ricavata nella materia, sempre disponibile ad aprirsi a nuove figurazioni. A tal punto non lo è più, che è consigliabile abbandonare, di fronte a esso, l’atteggiamento contemplativo, statico, dello spettatore tradizionale, per guadagnare quello di uno sguardo interattivo, partecipante, immersivo. Occorre cioè entrare in relazione, muoversi, girare intorno all’oggetto per sentirne la respirazione e per sintonizzare il nostro respiro.

Un aneddoto. Palazzo Strozzi a Firenze ospita dal 7 Ottobre 2023 una mostra interamente dedicata all’opera storica e recente di Kapoor (visitabile fino al 4 febbraio 2024), dal titolo “Untrue Unreal”. Insieme a Federico Leoni e ad alcuni amici decidiamo di visitarla subito dopo l’inaugurazione, pensando anche alla recensione del libro che di lì a poco avrei scritto. Giunti nella sala delle Sculture specchianti (Vertigo 2006; Mirror 2018; Newborn 2019), alcune bolle in acciaio inossidabile altamente riflettente e deformante, dalla consistenza fluida di grandi sfere di mercurio, ci invitano a interagire con loro per giocare con la dimensione illusoria dello spazio che esse producono. Avevo già sperimentato in grande, diciamo, l’effetto di queste sculture riflettenti, a Chicago nel 2010, quando visitai, con mio figlio allora di 10 anni, il Cloud Gate al centro della AT&T Plaza nel Millenium Park. Un enorme fagiolo, soprannominato così dalla gente che lo vide per la prima volta, convesso e concavo, liscio fino a essere quasi liquido, che non parla di sé, ma riflette il cielo, le nuvole, i grattacieli, le strade, i corpi che gli si avvicinano. Abbiamo visto Chicago innanzitutto attraverso la scultura di Kapoor, un viatico tra terra e cielo. E nulla abbiamo perso.

 Bene, mentre a Palazzo Strozzi, davanti alle sculture specchianti, alziamo le braccia, allunghiamo i colli, ci sporgiamo verso spazi irreali, apprezziamo figure improvvisamente slanciate ed esili o ci rattristiamo per corpi improvvisamente pingui e pesanti, un signore di mezza età ci guarda con evidente disprezzo, commentando infine con riprovazione il nostro divertimento infantile dinnanzi alla sacralità dell’arte.  Se avesse saputo che a sbracciarsi davanti a quegli specchi insieme a me c’era appunto Leoni, l’autore del più interessante libro che sia stato mai scritto su Kapoor, e suo figlio Pietro contagiato dalla magia di quegli oggetti! Fatico a contenere la reazione infuriata di un altro amico deciso a maltrattare lo scandalizzato maestrino e, passando a più miti consigli, riflettiamo su quanto accaduto. 

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Gli strani oggetti di Kapoor, pur mantenendo un impatto estetico tra i più potenti nell’arte contemporanea, meritevole dell’atteggiamento meravigliato e contemplativo che si tiene di fronte alla bellezza, non possono essere compresi fino in fondo se non entrando in relazione con essi. È muovendoci dentro e intorno a loro che l’oggetto prende forma, si costituisce e cambia. Quello che vediamo dipende dalla posizione che assumiamo nello spazio, non è qualcosa di già presente e autonomamente costituito. Eppure si tratta di oggetti intensamente materici. Quelle bolle di acciaio sembrano avere una pelle, sembrano contenute da una membrana oleosa e metamorfica, appaiono come bolle di liquido denso. Insomma, un trionfo della tattilità inibita. A dire il vero, qualcuno di noi non ha rinunciato ad avvicinare il dito a quelle superfici, attirandosi lo sguardo allarmato ma, questa volta, benevolo e comprensivo degli operatori museali.

Ci liberiamo allora delle reprimende del triste custode dell’aura artistica, e raggiungiamo la sala in cui è esposta la serie dei black works (Non-Object Black 2015; Untitled 2023; Dark Brutal 2023). Qui la magia è affidata al vantablack, nome commerciale di un materiale composto da nanotubi di carbonio, capace di assorbire il 99,965% delle radiazioni dello spettro visibile, che si presenta come il nero più nero mai conosciuto fino al 2019. Il risultato che si ottiene è l’invisibilità dei contorni dell’oggetto, la scomparsa della terza dimensione, l’impossibilità di distinguere il concavo dal convesso e di osservare le pieghe e le protuberanze della materia se la si guarda frontalmente. Anche qui bisogna allungare colli e cambiare prospettiva per vedere emergere dallo spazio della sala oggetti prima invisibili. Si tratta di oggetti sublimi, secondo l’accezione di Lyotard, vale a dire di materie allarmate dalla loro prossimità con l’inesistenza, col nulla. La materia dell’arte è lì per esibire la sua immaterialità, si presenta come cosa del mondo ed è lì per sobbalzare nella sua stessa destituzione, nella sua mancanza, nella sua assenza. Oggetti-non oggetti, appunto, come li definisce Kapoor stesso. In gioco è un sensibile non compiaciuto e pago di sé, bensì un sensibile che vibra della sua sparizione. Un imene, una lamella, una membrana sempre sollecitata al limite dell’irrappresentabile. Molto opportunamente Leoni definisce l’opera di Kapoor un sublime joke, dando consistenza teorica a quanto ci veniva rimproverato dal summenzionato custode della giusta fruizione estetica. In pagine piene di verve, Leoni ritrae lo spettatore mentre si avvicina ai tondi neri con fare sospettoso. Giunti di fronte ci si sposta a destra e a sinistra, poi si arretra con le mani dietro la schiena. “Tutta la persona è come gravata dal peso di una sfida che comporta un misto di imbarazzo, stupore e stupidità. È un buco, c’è effettivamente del vuoto? C’è invece del pieno, è un oggetto dipinto di nero? Potrei infilarci la testa e vedere cosa c’è dentro?” (p. 103).

Si tratta appunto di un gioco sublime, come quello di Willy Coyote che, mentre insegue il mitico struzzo Beep Beep, si trova di fronte a dilemmi molto simili, portando nell’animazione le intuizioni bergsoniane sul comico.

Che tipo di materia è, allora, quella che ci porta in prossimità dell’inesistenza, quella che ci costringe a far coesistere simultaneamente presenza e assenza, pieno e vuoto? Per quanto imperiosa e consistente, non è mai materia pima, come si suol dire, è sempre seconda. Per una svista della tradizione metafisica siamo abituati a pensare la materia come un substrato consistente e preesistente su cui interverrebbe la forma. Come dimostra la matericità delle opere di Kapoor, essa è piuttosto il risultato di un taglio, di un gesto traumatico, a volte anche molto violento. È appunto sempre seconda. Guidati dalle intuizioni di Federico Leoni entriamo nella prima sala della mostra di Palazzo Strozzi. Qui campeggia l’opera più imponente dell’intera esposizione. Si intitola Svayambhu (2007) che in sanscrito sta ad indicare qualcosa che si genera da sé, senza bisogno di una mano mossa dall’intenzionalità di modellare una forma. Al posto dell’artista, abbiamo un meccanismo, un autómaton, una sorta di motore invisibile – una rotaia –  che fa scorrere molto lentamente (circa un’ora tra andata e ritorno) una massa informe di cera rossa, fino a quando essa raggiunge la cornice di una porta e comincia a modellarsi per passare attraverso di essa.  Un’opera autogenerata. Che si tratti di una materia ed anche capace di sollecitare potentemente la nostra sensorialità sinestesica, lo capiamo mano mano che la cera malleabile assume una forma passando da una sala all’altra attraverso la cornice della porta, lasciando cadere ai lati pezzetti e strisce di cera residuale. La materia è veramente tale, quando è l’effetto di un’operazione che la fa interagire con altri oggetti del mondo.  Non c’è traccia di presenze e azioni umane. Sono le intensità e le forze del mondo che creano e disfano forme. Se l’essere umano è presente, non lo è in qualità di soggetto che crea o che guarda quell’oggetto, ma in qualità di un altro oggetto che interagisce con esso. Basti pensare al fatto che per dare senso a quanto vediamo, anzi per far essere quanto vedremo, dobbiamo muoverci, avvicinarci, passare da una sala all’altra. Dice bene Leoni riprendendo una suggestiva definizione di Bruno Latour. Abbiamo a che fare con object chevelus, oggetti-macchinazione da cui si dipartono capelli, filamenti che li mettono in connessione col resto del mondo. “Troppo grandi per metterceli di fronte senza esserne sovrastati, troppo mobili per avere quel genere di consistenza che siamo soliti pensare come l’occupazione di un punto nello spazio e di un punto nel tempo. Ci muoviamo in essi, ma mai di fronte a essi” (p. 76).

Nel suo viaggio tra le opere di Kapoor, Federico Leoni mette la filosofia alla prova degli oggetti artistici e viceversa. Ma non basta sottolineare questo. In gioco è il tentativo di catturare qualcosa della sensibilità contemporanea attraverso gli oggetti che popolano il nostro immaginario. La vera arte è sempre stata veggente. Anche solo descrivere le opere, rimanendo aderenti alla loro conformazione, alla loro disposizione nello spazio, alla loro consistenza materica, all’effetto che generano in chi le guarda è una buona introduzione alla filosofia contemporanea. Una filosofia che movimenta i vecchi dualismi a favore di simultaneità metastabili. E allora, interno ed esterno, soggetto e oggetto, materia e idealità, immagine e numero, identità e differenza non si affronteranno più come coppie di contrari, ma come superfici topologiche che tollerano simultaneità e articolazione non dialettica. È così che Leibniz, Bergson, Deleuze, Lacan, ed altri ancora, siedono confidenzialmente e profeticamente accanto agli oggetti bizzarri di uno degli artisti più interessanti del panorama internazionale.

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