Deleuze sensibile

28 Febbraio 2024

Il Novecento filosofico è caratterizzato dalla forza di un'“amicizia stellare”, per riprendere un’immagine tratta da La gaia scienza di Nietzsche: quella che ha come protagonisti Gilles Deleuze e Jacques Derrida. Un'amicizia a distanza, resa inquieta da personalità filosofiche tra loro molto diverse, ma animata da un sentore comune. Non è facile dire quale sia stato questo fattore condiviso, perché nelle pieghe delle loro prospettive, il nucleo comune si è mille volte differenziato nello stile, nel metodo, nei contenuti. 

Ci proviamo. Innanzitutto, la straordinaria capacità di visualizzare con nitore i concetti, quando il pensiero si inoltra sulla soglia dell'impensato. Si tratta di un'attitudine che potremmo definire filosofica per eccellenza, eppure non tutti i grandi filosofi ne sono stati dotati alla stessa stregua. Visualizzare i concetti significa individuare spazi del pensiero non ancora occupati e creare forme che possano dare loro un nome. È nota, del resto, la passione per il carattere cartografico e spaziale che Deleuze e Guattari hanno ereditato dalla pratica educativa per bambini autistici messa a punto da Deligny e ispirata alle lignes d'erre della transumanza. Per pensare occorre sentire lo spazio e tesserlo attraverso la creazione di concetti. Abbiamo bisogno di carte o mappe con calchi trasparenti sovrapposti che registrino i tracciati dei nostri pensieri, proprio come faceva Deligny, ai bordi della psichiatria, con la presa in carico dei suoi enfants mutiques. Carte che non servono per comprendere o per interpretare, ma per vedere ciò che non si vede ad occhio nudo. Partiture dell’inconscio, potremmo dire.

Scaturiti dal genio di Deleuze e Derrida, i concetti si presentano con una connotazione spaziale (prendono posto) e affettiva, sembrano disegnarsi come personaggi sensibili, come materie nitide e fluide nello stesso tempo. Molti tra coloro che hanno conosciuto Deleuze ne ricordano la voce e la descrivono come un fiume di montagna rapido e pietroso, con un intreccio di lucidità ed esitazione, oppure come una voce tesa, minerale, tendente a fluttuazioni quasi inarticolate. Fino alla fine dei suoi giorni, quando la sua voce interloquiva con il crepitio elettrico del respiratore e dava evidenza sensibile, sebbene tragica, alle combinatorie macchiniche da sempre inseguite.

Insomma, l'intensità del concetto passa per le materie e i corpi, si fa sensibile e affettiva. Si avverte qui l'eco della lezione spinoziana che fa dell'affetto la variazione continua della forza di esistere causata dalle idee con cui si entra in rapporto. La paura dell'astrazione è stata una presenza costante nel percorso di Deleuze, sempre vigile nell'invitare i suoi allievi a farsi ispirare dal concreto, dal sensibile. Una paura che lo spinge a distruggere il tardo carteggio con Badiou e a vietarne la pubblicazione, proprio perché sente di non essere stato, in quelle lettere, all'altezza del concreto.

Ma quali sono allora i concetti che dalla penna di Deleuze-Guattari e di Derrida protendono le loro antenne e lambiscono la contemporaneità?

Il primo di questi concetti è quello di "differenza": uno spazio di ideazione che, in alternativa a quello della dialettica, sostituisce al travaglio del negativo la forza dell'affermazione. È così che la differenza viene a occupare lo spazio prima abitato dai concetti di identità, opposizione e contraddizione e, facendo traballare la ragione classica, si presenta come una incredibile invenzione capace di rimodulare la distribuzione e la partizione degli elementi del pensiero. Si tratta di sfidare il principio di identità e di contraddizione e di esercitarsi a considerare gli opposti – vita-morte, amico-nemico ecc. –, come dei differenti.

La seconda "causa comune" tra gli amici stellari è un'attitudine, un gesto filosofico che discende direttamente dal concetto di differenza. Mi riferisco alla capacità di sopportare e maneggiare con disinvoltura la figura del paradosso. Mentre il senso comune identifica, riconosce e riconduce allo Stesso, al Simile e all'Analogo, il paradosso, sopportando l'affermazione di due sensi contemporaneamente, costringe il pensiero a uscire dai cardini, a frequentare la soglia che lo affaccia sull'impensato.

Differenza e passione del paradosso sono, dunque, i due tratti fisiognomici della filosofia del secolo scorso e devono la loro forza e capacità di incidere nel panorama del pensiero contemporaneo alla lucida veggenza di Deleuze e Derrida.

È da poco in libreria la prima biografia concettuale italiana dedicata alla figura di Deleuze, scritta da Filippo Domenicali e Paolo Vignola (Deleuze. Filosofia di una vita, Carocci 2023). I due autori, come segugi affamati e appassionati, si mettono sulle tracce di una vita donando a tutti noi la possibilità di gustare la genesi di un pensiero, scovandone le radici e le superfici, l'affondo nella storia della filosofia e il volo leggero tra le nuances del contemporaneo. Il volume che abbiamo tra le mani grazie a loro, tra i moltissimi pregi, ha quello di donare profondità storica a un pensiero che, per altri versi, rifiuta la storia lineare, il carattere progressivo e propedeutico. È vero quello che si sente dire da più parti: Deleuze lo si può leggere, gustare e capire, cominciando da dove si vuole. Non è necessario seguire la cronologia delle sue opere per accedere all'originalità delle sue proposte. I concetti cominciano nel punto in cui si disegnano. Non hanno antecedenti, anticipazioni, o meglio le anticipazioni le si comprendono solo a partire dall'attualità. Come un tubero, un rizoma, il pensiero non segue linearità arborescenti e non si sviluppa a partire da una unità centrale. Ciascuno dei suoi punti può creare concatenamenti con gli altri. Dunque, tanto vale farci suggestionare dai titoli dei suoi libri e scegliere liberamente da dove cominciare. Del resto Mille piani, l'opera più corposa e ambiziosa di Deleuze e Guattari, è costruita come un edificio i cui piani possono essere attraversati senza un ordine lineare, saltando dall'uno all'altro e creando sempre nuovi concatenamenti.

Pur consapevoli di questo aspetto, Domenicali e Vignola scelgono un accesso cronologico alla vita intellettuale di Deleuze allo scopo, credo, di mostrare la serietà di un pensiero che si forma in un dialogo serrato, senza risparmio, a tratti faticoso e articolato, intensivo e problematico, con le grandi questioni della filosofia e con i suoi protagonisti. L'intento è forse quello di rispondere ai detrattori, concordi nell'appiccicare a Deleuze lo stigma dell'eclettismo, della disinvoltura concettuale, della passività estetizzante come veste di una tirannia revisionista. Primo fra i detrattori, Alain Badiou che, con lo pseudonimo di George Peyrol, firma nel 1977 Il fascismo della patata, una reprimenda maoista contro il concetto di rizoma.

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Il rapporto con Badiou troverà negli ultimi anni di vita di Deleuze un'occasione di cauto riavvicinamento sul piano, questa volta, della teoria e non più su quello della militanza, ma resterà in parte compromesso da quell’inizio burrascoso. A questo tipo di critiche, poi ripetute nella storia della recezione di Deleuze, ora possiamo opporre la dettagliata ricostruzione di questa biografia filosofica, capace di portare in luce il travaglio serissimo di un pensiero mai infedele a sé stesso. È un lavoro che andava fatto e che esonera tutti noi dal dover difendere in modo estemporaneo e risentito l’opera di Deleuze. Solitamente le biografie filosofiche sacrificano l’analisi concettuale, la profondità dell’argomentazione, perché devono dar conto dei “dintorni” del pensiero, delle occasioni e contingenze di una vita generalmente piena di incontri, accidenti, aneddoti. Non è il caso di questa biografia; ogni capitolo è un affondo dettagliato e sottile nel pensiero di Deleuze, che nulla concede alla semplificazione, pur conservando il tono di una biografia, ovvero di un racconto di vita. A testimonianza che in Deleuze la teoria è una forma di vita.

La ricostruzione proposta da Domenicali e Vignola trova il filo rosso proprio nel concetto di differenza. Un filo che comincia a disegnarsi a partire dall’interpretazione deleuziana di Hume (1953) e dell’empirismo come universo fantascientifico ante litteram che ci insegna la strana “ragione” delle distribuzioni nomadi e delle anarchie incoronate che fanno del mondo un mantello di Arlecchino o un patchwork. Come ebbe a dire Deleuze, dando per la prima volta testimonianza del suo modo originalissimo di avvicinare i pensatori del passato e di fare storia della filosofia, l’empirismo immagina un mondo in cui la congiunzione “e” spodesta l’interiorità del verbo “è”, e in cui la comunicazione avviene per relazioni esterne. Si inaugura qui una nuova immagine del pensiero, che abbandona la logica della rappresentazione, e assume la sfida investigativa, poliziesca, di pensare e scrivere a partire da ciò che non si sa e non si vede. Passando attraverso il confronto intimo e serrato con la filosofia di Nietzsche (1962) e con la sua scrittura in cui alla logica del vero e del falso si sostituisce una topologia governata dall’intrecciarsi di forze e interpretazioni, Deleuze arriva a formulare alla fine degli anni Sessanta con Differenza e ripetizione e la Logica del senso la proposta teorica di un empirismo radicale come linea minore da contrapporre alla linea maggioritaria e razionalista che va da Platone, Aristotele, Cartesio fino a Kant e Hegel. Suoi compagni di viaggio diventano allora, accanto a Nietzsche, il neoplatonismo, il naturalismo di Lucrezio ed Epicuro, la logica e l’ontologia stoica, Spinoza, Leibniz, e Bergson.

Si fa avanti con energia sempre maggiore l’idea che il pensiero onori le sue sfide quando riesce a concepire l’eterogenesi, ovvero la produzione del diverso qualitativo, affrancando il divenire dalla logica del “quadruplice giogo”, come lo definisce Deleuze, dell’identico, del negativo, dell’opposizione e della contraddizione. Non opposita sed diversa. Il pensiero classico rappresentativo ha da sempre addomesticato l’Altro, il diverso, l’eccedenza qualitativa perché li ha riportati sul piano del riconoscimento o della negazione, processi, questi ultimi, schiavi in definitiva dell’Identico. “Ciò che costringe a pensare – scrive Domenicali – è sempre un incontro (mai un riconoscimento) con l’altro, è lo choc della differenza… Tutto ciò che non si lascia sussumere sotto le categorie del noto, della rappresentazione, tutto il diverso qualitativo che sfugge alle sue maglie, costituisce un’effrazione e una passione del pensiero” (p. 146). Qui si gioca tutta la portata estetica del pensiero deleuziano. L’oggetto dell’incontro, la differenza qualitativa, sfuggendo alle categorie e non potendo farsi oggetto di riconoscimento, non può che essere inizialmente solo sentito per poi arrivare a turbare il pensiero aprendolo a nuove possibilità.

Nel passaggio dalla sensibilità al senso, si produce un contagio seduttivo, per cui il pensiero, a meno che non recida il legame con la sensazione, non potrà più perdersi nella deriva dell’astratto. Il pensiero creativo è l’unico capace di importare l’atmosfera del sensibile nelle sue dimore, facendo sorgere una sensibilità del senso. “È come se lo choc generato dall’incontro con il diverso fosse il motore capace di comunicare il movimento al pensiero, mettendo in agitazione tutte le facoltà, instaurando un concatenamento ascendente dal sentiendum al memorandum fino al cogitandum, e come se la violenza dell’incontro si trasmettesse dall’una all’altra, portandole ciascuna al proprio limite, al loro uso trascendente, facendole uscire dai propri cardini” (p. 147).

Sarà proprio la logica dello choc e del diverso a inquietare e fertilizzare il rapporto di amicizia e collaborazione tra Deleuze e Guattari, a partire dagli anni Settanta. Comincia a prendere forma un’altra amicizia stellare, fatta di legami che resteranno vivi, con alti e bassi, fino alla fine della loro vita, ma anche di distanza siderale, appunto. Insomma una di quelle amicizie che Blanchot avrebbe saputo comprendere e apprezzare. Amici che non si danno del “tu”. A dire il vero Deleuze e Guattari del “tu” se lo daranno molto presto, ma tra i due rimarrà sempre quella che Anne Querrien definisce una “biforcazione reciproca alla base dell’incontro”. È l’incontro di due singolarità la cui differenza non verrà mai diluita, sebbene non si trasformerà mai in opposizione, per onorare a livello della vita vissuta quella “sintesi disgiuntiva” che stava per diventare il centro della loro teorizzazione.

Sono gli anni in cui prende forma il concetto di “macchina” che traghetterà i due amici al di là dello strutturalismo. La macchina è ciò che rompe col sistema di scambi e di sostituzione di elementi particolari, perché produce un resto differenziale non digeribile dal sistema. È su questa base che si innesta la critica alla psicoanalisi e la proposta di una inedita concezione dell’inconscio emancipata dal modello edipico-nevrotico, ancora troppo compromesso con i vincoli della struttura, per scommettere su quello schizofrenico, anarchico, eterogenetico (L’anti-Edipo,1973; Mille piani, 1980).

Filippo Domenicali e Paolo Vignola non abbandonano qui il loro pedinamento della vita e dell’opera di Deleuze. Lo seguono fino all’ultima opera pubblicata nel 1995, L’immanenza: una vita e fino ai suoi ultimi drammatici giorni di vita. L’attenzione e la cura con cui documentano ogni singolo passaggio delle ultime fasi della sua ideazione sono testimonianza, forse, di un lutto non ancora elaborato. D’altra parte non c’è lutto che tenga, quando un pensiero si è così distinto per la capacità di afferrare sensibilmente la contemporaneità con intelligenza abbagliante, rimanendo ancora, per più di un aspetto, insuperato.

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