L'irrealizzabile di Giorgio Agamben

11 Ottobre 2022

Abbiamo bisogno di un’immagine come chiave di accesso all’ultimo libro di Giorgio Agamben, L’irrealizzabile. Per una politica dell’ontologia (Einaudi, 2022). Del resto, è Agamben stesso che ci suggerisce di affidare il pensiero filosofico all’immaginazione poetica, essendo, quest’ultima, abituata a maneggiare la coesistenza degli opposti, a sovvertire i presupposti della logica classica.

Se la filosofia si lascia contagiare e infiltrare dall’immaginazione poetica, produce delle strane figure, veri e propri personaggi sulla scena del pensiero, figure bizzarre perché, come le chimere che tengono insieme il muso di leone, il corpo di capra, la coda di drago e sputano fiamme, hanno la capacità di far convivere in modo non sintetizzabile ciò che la tradizione filosofica ha separato.

Quali sono allora queste figure: la silva, una congerie in lotta con se stessa (concretio pugnax) , alla quale la traduzione latina del Timeo platonico, affida il compito di tradurre il concetto di materia (hyle); la chora platonica, figura bizzarra che contrae l’uno sull’altro i due modi di conoscenza, l’intelligibile e il sensibile, ipotizzando una percezione con assenza di sensazione; il sensorium dei come incarnazione moderna della chora platonica, a cui Newton affida il compito di pensare  un legame senza-rapporto tra Dio e mondo, ovvero una co-implicazione che non ricada nell’inerte identità tra di essi.

La posta in gioco è alta, come si sarà inteso. La tensione filosofica portata al limite delle sue stesse possibilità, il lessico messo alla dura prova di uno slancio stremato del pensiero. Per questo abbiamo bisogno di un’immagine. Non fa parte di quelle evocate da Agamben, ma non rinuncio a evocarla.

Dogtooth (Kynodontas) di Yorgos Lanthimos (2009), film che segna l’inizio della straordinaria collaborazione del regista greco con lo sceneggiatore Efthymis Filippou. Un film folgorante per tanti motivi, e capace di dirci qualcosa di quelle figure bizzarre che Agamben insegue in particolare nel suo ultimo lavoro, ma che accompagnano da sempre la sua fantasia filosofica. È la storia di una famiglia composta da padre, madre e tre figli, che vive reclusa, salvo brevi incursioni all’esterno e dall’esterno, in una lussuosa villa circondata da uno steccato che rende invalicabili i suoi confini.

All’interno di questa bolla contenitivo-difensiva, i genitori possono far credere tutto ciò che vogliono ai loro figli. Ad esempio che le parole rinvianti al mondo esterno abbiano un significato endogeno, che “mare” sia la sedia di pelle di casa, “autostrada” un vento molto forte, “fucile” un magnifico uccello bianco, “zombie” un fiorellino giallo cresciuto nel giardino. Insomma un delirio familiare che sospende addirittura le regole consolidate del linguaggio comune e insieme a queste l’organizzazione simbolica dell’economia pulsionale e sessuale. 

Bene, come si arriva a questo delirio? Cosa è accaduto al padre prima che si manifestasse il folle progetto? Da dove viene la madre? Perché finisce in questa trappola? Insomma, cosa ha condotto a questo esito claustrofobico? Nessuna informazione sul prima ricaviamo dal film, esso inizia inesorabilmente dove inizia, cioè dentro alla realtà dispiegata della perversione, e sembra dirci che nulla abbia portato ad esso. Tanto è vero che a chi ci chiede di raccontare la trama del film, saremmo tentati di rispondere che è un film senza racconto, senza narrazione, perché a venire meno è proprio la possibilità di riferire quanto vediamo a una storia precedente, che ne sia la causa, la spiegazione, il fondamento, ciò che ne dischiude la possibilità.

Le scene che ritraggono la vita della villa – con quei colori pastello chiarissimi che le proiettano in uno spazio alternativo senza ponti, connessioni, passaggi con l’esterno, uno spazio discreto, assoluto poiché sciolto da ogni legame di continuità con ciò che precede e segue – sono scene di un reale, di un evento che non è il risultato di un processo di realizzazione svolto nel tempo, ma si produce per una sorta di balzo, salto nell’essere senza preparazione, prevedibilità.

Eppure da qualcosa è causato, sebbene la causa qui in gioco, non abbia niente a che vedere con la continuità deterministica, con il passaggio, il transito da una potenza a un atto e sia, piuttosto, un legame a distanza, actio in distans, di sé con se stesso. Qualcosa di simile alla causa sui del conatus spinoziano, qualcosa che si gioca non a partire dalla linearità del tempo, ma dalla prospettiva di un istante eterno che trattiene in sé gli inconciliabili.

Come si sarà inteso, in gioco è una radicale messa in discussione del dualismo potenza-atto, possibile-reale, essenza ed esistenza, di quella macchina ontologico-politica dell’Occidente, che scindendo l’essere, ha aperto la strada alla pianificazione, alla progettazione, alla manipolazione e al controllo della scienza, della politica e della tecnologia. L’irrealizzabile è un testo che va alla ricerca di un “canone minore”, di quelle figure del pensiero, rimaste in parte sepolte nella nostra tradizione, e che tuttavia, scrostate dalle fuorvianti sedimentazioni della storia interpretativa, potrebbero tornare a parlare. Per dirci cosa?

Intanto che Bergson aveva ragione quando, sulle tracce della chora platonica, scrive nel 1930 Il possibile e il reale con l’intento di mettere in questione l’idea che il possibile sia meno del reale e che per questo motivo esso preceda l’esistenza delle cose. Al contrario, il possibile avrebbe qualcosa in più del reale, essendo l’effetto combinato della realtà prodotta e di un dispositivo che la proietta all’indietro.

Agamben commenta così l’impresa bergsoniana: “Analizzando in questo modo il dispositivo logico della possibilità, Bergson smentisce drasticamente il miraggio di un transito dalla possibilità all’esistenza che aveva alimentato le speculazioni dei filosofi sull’argomento ontologico. Potenza e atto si generano insieme, sono cooriginari e l’errore non consiste tanto nella loro distinzione, quanto nel pensare che la potenza preesista separatamente e che il problema sia quello di definire il modo in cui si articola il passaggio da essa all’atto” (p. 70).

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Su cosa si concentra, dunque, l’attenzione di Agamben? Prima di tutto, sul fatto che distinguere non significa necessariamente dislocare le cose sull’asse del tempo lineare, prima-dopo. C’è distinzione anche nell’istante eterno. Immaginiamo di dilatare questo istante e di vederlo gonfiarsi di tempo, in modo che il passato non sia ciò che viene prima, che lo precede e lo rende possibile, ma, per così dire, il suo passato, il passato che coesiste, senza confondersi, con il presente e che si fa testimone di un irrealizzabile in ogni reale. “Lungi dall’essere ciò che contiene in sé un’inclinazione a realizzarsi, il possibile è ciò che resiste alla realizzazione e, in questo modo, può ciò che è e è ciò che può” (p.85).

Come qualifichiamo questo punto gonfio di tempo, questa simultaneità non fatta di identità, questo evento denso di possibilità sur place, questa vita che mentre vive fa sentire il volume, la densità della sua stessa possibilità? Stiamo inseguendo un assoluto che non precipita nell’identico a sé, una unità che non dissolve la differenza. Si tratta dell’autoaffettività, di una vita che mentre vive si sente vivere e esperisce la sua stessa ricettività. Tale esperienza è perfettamente reale (non quindi una possibilità che preesiste alla realtà) e tuttavia, non avendo altro oggetto che se stessa, dischiude lo spazio di una pura possibilità. La selva, la chora, il sensorium dei sono le immagini del pensiero che ci aiutano a cogliere questa profondità sul posto.

Ma torniamo alla nostra immagine. Quella villa, dove accade qualcosa di non prevedibile, di non-preparato, qualcosa che non si presenta come la realizzazione di una possibilità che preesiste come fondamento (secondo l’accezione aristotelica che, tuttavia, Agamben ridiscute, mobilita e rende meno monolitica), quella villa mette in scena un delirio in atto che, tuttavia, dischiude dall’interno la sua stessa possibilità. Quale possibilità? La vita che si sente senza altro contenuto.

È sufficiente prestare attenzione a quel trionfo dell’autoaffezione che sono le immagini di Dogtooth: una erotizzazione del pensiero al servizio della possibilità della vita. Mentre le vicende surreali di quella vita familiare si susseguono come eventi slegati, fatti senza-discorso, si scava una profondità, una densità che apre al sentirsi stesso della vita e non permette a quelle vicende di schiacciarsi sulla superficie della mera contingenza. C’è una necessità del contingente. 

Da sempre Agamben è impegnato nel tentativo, riuscito come pochi nella storia del pensiero, di cogliere in flagrante l’atto, il gesto, l’evento, in una parola, l’esperienza estetica, senza abbandonarla alle brume dell’indeterminatezza, ma provando a radicarla nella sua genealogia ontologica. Il suo è un pensiero essenzialmente estetico e lo è più di quello di molti “estetologi” di professione. Cogliere in flagrante l’evento significa decostruire le abitudini di pensiero che si rintanano nella roccaforte dell’eziologia, della continuità, della consequenzialità, della programmazione, della prevedibilità, dell’intenzionalità.

Ed è a questa decostruzione che Agamben ha da sempre instancabilmente lavorato, facendosi nutrire da un fervore e da una vocazione che rendono unica la sua proposta filosofica e che arrivano fino al testo che qui stiamo presentando. Un testo complesso, ricco di passaggi storici e concettuali troppo fini e articolati per poter essere restituiti in questo mio breve intervento. 

Tuttavia, un’obiezione vorrei farla, approfittando dello spazio che ho qui a disposizione. In questa operazione, Agamben si percepisce sempre in controtendenza. Il mondo, soprattutto quello occidentale, va dalla parte della progettazione, della narrazione, del controllo e della manipolazione, della indisponibilità a cogliere la forza discontinua e dirompente dell’evento.

Occorre, allora, rivitalizzare le potenze sepolte del pensiero, le figure bizzarre di cui abbiamo parlato, per contrastare il discorso unico del mondo contemporaneo. Occorre offrire al pensiero un’occasione di riscatto, di rinascita che sappia neutralizzare o almeno inibire il corso perverso della storia dell’Occidente. E se, invece, fosse proprio la sensibilità serpeggiante del mondo contemporaneo, compreso oramai quello occidentale, a metterci sulle tracce dell’evento?

L’estetica, soprattutto se la concepiamo in un’accezione morfogenetica, ha molto da dire sull’apparizione della forma nuova, sulla perdita dell’equilibrio che essa comporta, sul suo carattere di plasticità esplosiva. 

Certo volando basso, viviamo nel contemporaneo, siamo il contemporaneo e dunque aggiungiamo o togliamo parti alla nave del tempo, sottraiamo o ammucchiamo granelli di sabbia. Se invece si vuole provare ad essere all’altezza del nostro tempo, occorre iniziare a presentire le forme che stanno disegnandosi, sollevandoci su di esse. “Presentire” è diverso da “comprendere”. Queste forme sono, appunto, sentori che hanno il carattere dell’impensato e che possono essere colte grazie all’avventura della sensibilità. A patto che non si concepisca la sensibilità nel segno dell’appropriazione e dell’assimilazione e la si intenda, ben diversamente, come espatrio, interruzione, distanza, alterità.

Allora i legami tra gli eventi, ma anche quelli sociali, ci appariranno privi di rapporto diretto, prossimo, causale. Strane relazioni senza-rapporto.

Allora l’immediatezza non avrà più i caratteri della spontaneità e della continuità, ma quelli della separatezza, della distanza, dell’interruzione.

Allora la percezione non sarà più aderente al nostro corpo, ma diventerà esperienza di esilio.

Allora il godimento, il piacere delle forme, prenderà la caratteristica di un’esperienza esometabolica, decentrata, non programmabile.

Allora il vincolo causale lascerà il posto a una necessità non deterministica.

Allora la pianificazione cederà il primato a buchi, falle, tagli.

Allora la realizzazione lascerà il posto all’irrealizzabile.

Qui e ora, però. Siamo nel contemporaneo a pieno titolo. Se così fosse, la forza visionaria del pensiero di Agamben sarebbe tale non perché disegna o adombra una alternativa al presente, ma perché ne coglie l’anima.

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