Specchi / Il misterioso “primo uomo” di Camus

13 Gennaio 2020

Quando Albert Camus scrive Il primo uomo, alla fine degli anni Cinquanta, il neorealismo di ispirazione drammatica ha esaurito la sua forza d’urto ma sono rimaste le risacche nelle forme del diarismo autobiografico, dell’éngagément politico, della memorialistica testimoniale mentre la temperie esistenzialista si precisa sempre più in una ipertrofia dell’io intesa non a scavare ma a macerare l’animo umano. Il giorno in cui muore in un incidente stradale, il 4 gennaio 1960, Camus è nel pieno della sua opera di introspezione perché porta sempre con sé il manoscritto al quale sta lavorando, ancora ben lontano dall’essere in verità concluso e tuttavia già definito nel titolo, il “primo uomo” assumendo non solo il senso più manifesto di una rappresentazione del tema dell’infanzia e dell’adolescenza (uno dei cardini del realismo mitico di cui in Italia Vittorini è stato il principale artefice), ma sottendendo nel percorso del giovane che diventa adulto anche il prototipo di quell’“uomo in rivolta” teorizzato dall’autore franco-algerino nella sua dottrina della salvezza dall’assurdità del mondo. Sicché Il primo uomo (ripubblicato ora da Bompiani nel sessantesimo anniversario della scomparsa con la traduzione del 2001 di Ettore Capriolo, pp. 312, euro 14) integra sotto la specie narrativa L’uomo in rivolta e si pone nello stesso tempo a suggello di una parabola tesa sin dall’incipitario Lo straniero, quasi a coronare il compimento di un’attività letteraria e della vita stessa, proponendosi come testamento morale di un intellettuale sempre a metà tra narrazione e interpretazione. 

 

Entro questa prospettiva, se Lo straniero è stato il vangelo di professione della estraneità dal mondo assurdo, Il primo uomo appare, a conclusione di un ciclo, l’epistola di riappropriazione di quel mondo, ancor più giovanile e intimo perché, in un’Algeri catafratta e incantata, l’uso della prima persona si serve qui di una impersonalità intesa a rendere più proprio e identitario un racconto che è soprattutto una confessione. Solo in un caso, parlando dei piatti che vengono annusati secondo una tradizione algerina, scrive: «Mi fanno ridere gli etnologi che cercano le ragioni di tanti riti misteriosi». Ma si tratta sicuramente di una distrazione, o forse di uno svelamento, perché Camus ha fatto di Meursault un Jacques Cormery nel quale egli traluce molto di più, pur con le riserve che vedremo, nella sua epifanica, coraggiosa e generosa propensione a rivelarsi il bambino poverissimo e felice che è stato, figlio delle «divinità indifferenti del sole, del mare e della miseria», discepolo della pensée de midi, il pensiero meridiano alla cui legge ha informato la propria educazione civile. Le analogie tra i due romanzi sono evidenti, quasi ricercate: l’autore divenuto adulto torna ad Algeri in un viaggio circonfuso nello spirito del nostos, per i funerali della madre in Lo straniero e per ritrovare tracce del padre in Il primo uomo

 

In entrambe le occasioni la riscoperta del proprio mondo sorregge anche l’avvistamento di sé dentro quel contesto ormai perduto, ridestando l’«angoscia gioiosa al pensiero di rivedere Algeri» e risentendo sulla pelle il caldo che «cuoceva le strade asciutte e polverose» nel bianco opalescente e diafano di un paesaggio torrido che porta Meursault all’omicidio e Jacques Cormery a essere «tranquillamente mostruoso»: tale che Veillard, il colono della fattoria dove Jacques pensa di essere nato, può dire che «gli uomini sono tremendi, specie sotto un sole feroce». In questa mostruosità tutta da interpretare agisce il fattore letterario che muove l’ultimo Camus, addetto a fare di Cormery un doppio di sé, non un altro straniero, ma inaspettatamente un nuovo mostro. In una nota così appunta: «Bisognerebbe sottolineare di più sin dall’inizio il lato oscuro di Jacques». E in un richiamo dei cosiddetti “Fogli”, posti in appendice come paralipomeni, scrive: «Non si può vivere con la verità – “sapendo”; chi lo fa si distacca dagli altri uomini, non può più condividere in nulla la loro illusione. È un mostro – ed è questo che sono io». 

 

Il progetto di Camus è del tutto in progress quando muore, per modo che non può dirsi che abbia lasciato un’incompiuta giacché ci è invero rimasto un manoscritto incompleto, fermo ai due soli capitoli relativi all’infanzia e all’adolescenza, ma destinati a svilupparsi almeno fino alla guerra di liberazione algerina di cui c’è traccia nell’Appendice. Sicuramente è a questo futuro stadio che Jacques Cormery avrebbe assunto una personalità propria diventando un personaggio autonomo, non più trasposizione fedele dell’autore.

 

Ma non lo sapremo mai per certo. Né quando muore lo sa lo stesso Camus, che non ha chiara la natura di mostro che Jacques dovrebbe in seguito adottare, se non in riferimento a un delitto che gli imputa e che ritroviamo in Appendice: quello di uno dei fantomatici “inseguitori” di cui Jacques è preda durante la fuga dalla redazione clandestina, circostanze che al manoscritto sono ignote, come tali sono anche personaggi quali Wanda e Saddok, tutti da venire. Jacques gli squarcia la gola e lo uccide «folle di disgusto e di furore» (furore è il termine che Camus associa sempre al sole e agli effetti del caldo), non diversamente da quanto nel manoscritto riferisce di aver visto da giovane fare realmente a un parrucchiere che mentre radeva un cliente, «gli aveva tagliato la gola con un colpo di rasoio, e l’altro, sotto quel taglio delicato, aveva sentito solo il sangue che lo soffocava, ed era uscito, correndo come un’anatra sgozzata male, mentre il parrucchiere, immediatamente bloccato dai clienti, lanciava urla forsennate – come il caldo stesso in quelle giornate interminabili». E proprio un’anatra, anzi una gallina, da bambino Jacques aveva visto sgozzare alla nonna ricevendone uguale sconcerto. 

 

 

Echi, rimandi, evocazioni, impressioni dal vero: tra autobiografia e spirito di denuncia dei mali del suo tempo, Camus coltiva un progetto di libro che ci appare misterioso e disforico. Quel che leggiamo è un cartone preparatorio e non un romanzo: una bozza che senza dubbio prefigurava ben diverso svolgimento e che ci appare come una bella dama colta nella sua toilette anziché ammirata in salotto nella sua mise. La congerie di chiose che costellano il manoscritto provano che Camus era ancora lontano, sebbene febbrilmente impegnato nella sua ricerca, da un’idea consolidata del romanzo-trionfo. Nelle note che la figlia Catherine ha sistemato in appendice, decidendo nel 1994 di pubblicare il testo così come lo aveva trovato, forse tradendo la volontà del padre, leggiamo propositi inattesi e rivelatori: «Il libro deve essere incompiuto. Es.: “E sulla nave che lo riportava in Francia...”»; «L’ideale sarebbe che il libro fosse scritto alla madre, da un capo all’altro – e si scoprisse solo alla fine che lei non sa leggere – sì, sarebbe questo». Bastano questi soli elementi a dimostrare che Camus fu sorpreso dalla morte nel mezzo dell’opera da fare e privo di certezze sul da fare. L’autore sarebbe tornato certamente anche sul testo e forse per stravolgerlo, ma quantomeno per uniformare i nomi dati per esempio alla madre, prima Lucia e poi Catherine, allo zio, chiamato Ernest e poi Étienne, e poi al maestro di scuola che da Bernard assume quello vero di Germain. 

 

Quanto si può ipotizzare, incrociando note e testo provvisorio, è che Camus pensasse a un’opera-mondo nella quale fosse possibile riconoscere lui e la sua circostanza, l’Algeria natale e immagata negli eventi che dalla Grande guerra – e prima ancora dall’arrivo dei coloni francesi agli inizi dell’Ottocento – portano all’indipendenza lungo un’epica di storia europea e di vita familiare. E se allora una sottile differenza è percepibile tra Lo straniero e Il primo uomo, essa è proprio nello sguardo dell’autore che passa da un individuo posto di fronte all’assurdo a una famiglia “in rivolta” che cerca il riscatto e lo ottiene nel successo conseguito da uno solo, un successo non merito personale di Jacques ma frutto dei sacrifici compiuti dalla nonna, dalla madre, dallo zio e da un caro insegnante, del quale in conclusione la curatrice riporta un’accorata lettera in risposta a un’altra altrettanto autentica di Camus di sentito ringraziamento.

C’è tuttavia un labile indizio a gettare qualche luce sulla genesi del romanzo, laddove Camus, riguardo “l’incidente dello scaricatore” di cui nulla però ci dice, appunta in nota di ripromettersi di vedere il diario. Dunque esisteva un diario come Ur-text nel quale lo scrittore trascriveva da ragazzo i fatti principali e dal quale Il primo uomo ha tratto fondamento? Ed è stato questo diario riesumato a indurre il quarantenne Albert a ripercorrere la sua infanzia ad Algeri – tornandoci adulto (come già Vittorini negli anni Trenta torna a Neve dalla madre, preda di analoghi “astratti furori”) in un viaggio che è una quête esistenzialistica – e con essa quella dei suoi nonni e dei genitori? Camus pensava per certo a un diario che non fosse però incompiuto ma sospeso, come legato a un misterioso presagio che vedesse Jacques in mare tra l’Algeria e la Francia, senza però lasciare segnali che inducano oggi a guardarlo come un mostro. Quale mostro poi? E in che misura da vedere entro una chiave autobiografica? Cosa insomma si preparava a rivelare o a raccontare Camus? 

 

In mancanza di possibili risposte e alla ricerca di significati di fondo circa un’operazione letteraria così complessa e tutto sommato oscura, non resta che l’aruspicina dei presagi di cui il testo è certamente profilato: quello della morte innanzitutto, che Camus sente come incombente e immanente sui suoi parenti che «vivevano ora nell’imminenza della morte o, in altre parole, sempre nel presente»; quello della fuga, da una immaginaria redazione di giornale come pure da Parigi per l’Africa, gustando ogni volta «una sorda esultanza, un allargarsi del cuore, la soddisfazione di chi è riuscito a evadere e ride ricordando le facce dei secondini»; quello della svolta politica che è annunciata dall’attentato terroristico cui Jacques assiste, talché Gianni Amelio, trasponendo nel 2011 il libro in un film, parla di «intervento potente di un grande scrittore sulla tragedia del proprio Paese e del proprio tempo»; quello ancora dell’identificazione con il padre perduto, da cercare nei luoghi e nelle persone che sono rimasti, nell’intento di dissotterrare le radici di casa.

 

Quando nel ’53, all’età di quarant’anni, Jacques-Albert torna ad Algeri, nel “quartiere fulvo” incendiato dal sole dove è cresciuto, la decisione che prende è dovuta alla visita che rende alla tomba del padre caduto nella battaglia della Marna e sepolto nel cimitero di Saint-Brieuc, dove scopre che è morto a ventinove anni, a un’età di gran lunga inferiore alla sua, dimodoché è un uomo fatto quello che va a trovare il padre ragazzino nel giro di un effetto di straniamento che pervade l’intero libro, uno straniamento ricercato e insistito da parte di un uomo per tutta la sua breve vita rimasto straniero a se stesso. Come immaginando di dover morire presto, di tubercolosi però e non certo in uno scontro stradale, Camus si addice a mettersi allo specchio nello sforzo di riconoscersi e scrive un libro alla Svevo e à la Proust, primonovecentesco, come cura psicoanalitica per vedersi nudo e soprattutto non più straniero né in Francia né in Algeria, né come figlio né come fanciullo e poi come uomo. 

Forse Il primo uomo doveva rimanere in un cassetto perché ci dà un Camus che non vediamo intero, sennonché costituisce un atto anagrafico che porta non tanto a visitare la sua officina letteraria e scoprire come componeva le sue opere, quanto a sorprendere la pena e lo strazio che promanano da un tentativo a metà di uscire dall’abito di un arcano e imperscrutabile mostro in figura di spettro. L’assurdo è invecchiato come una malattia cronica ed è diventato assillo. Contro di esso e non contro un’altra autovettura è andato a scontrarsi e morire lo scrittore dell’indicibilità del mondo.

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