Chi ha ucciso l’imperatore?
L’imperatore bizantino Costante II fu ucciso il 15 settembre 668 a Siracusa dove cinque anni prima aveva spostato la capitale da Costantinopoli. Il suo non era stato un colpo di testa, né una rinuncia al proprio mondo. Sull’esempio di due precedenti imperatori d’Oriente (Maurizio, fondatore degli esarcati di Ravenna e Cartagine, ed Eraclio, deciso a trasferire la residenza a Cartagine, dissuaso poi dal Senato), massima fu invece la sua preoccupazione a tenere saldo il retaggio con il Sacro romano impero, nell’idea che non fosse l’Oriente a fortificare uno Stato che in un solo secolo aveva perso larghissimi territori in Occidente. Prima di stabilirsi a Siracusa (città scelta già dall’esarca ravennate Olimpio come capitale di uno stato italiano separato dall’impero), Costante si era fermato a Tessalonica, Atene, Taranto, Napoli e Roma, decidendo alla fine per la Sicilia allo scopo di trovarsi a ridosso dell’insorgenza araba in Africa.
La storia non si è preoccupata di scoprire i motivi e i responsabili del regicidio, forse perché tutti non vedevano l’ora di liberarsi di lui: i siciliani per il suo regime di oppressione fiscale, l’Occidente cristiano per il trattamento riservato a Papa Martino, nonché per la diffusione dell’eresia monotelita, e l’Oriente per un potere esercitato a Bisanzio da tiranno fratricida. Raccogliendo notizie di fonte araba, il siciliano Michele Amari, cronista dei musulmani di Sicilia, riporta “una tradizione” secondo cui, sconfitto in una battaglia navale, Costante fu spronato a riarmare una flotta per riprendere Alessandria, ma una tempesta distrusse il naviglio e salvò solo la sua nave finita a Siracusa, dove la gente lo svergognò accusandolo di aver perso tutti i marinai, per cui scaldò un bagno e lo fece morire, anch’egli annegato. Tradizione araba a parte, Amari dà credito piuttosto alla “spiegazione storica” in base alla quale un gentiluomo di corte chiamato Andrea, ungendogli il corpo durante il bagno, uccise con un colpo in testa Costante, così facendo la volontà dei vescovi siciliani che ne avevano dichiarato l’eresia. Anche lo storico slavo Georg Ostrogorsky, uno dei massimi esperti di cronache levantine, nella sua Storia dell’impero bizantino parla di complotto, imputandolo però ad ambienti aristocratici bizantini e armeni, attento tuttavia a stabilire che “sull’attività di Costante II a Siracusa si sa pochissimo”.
È stata proprio tale certezza ad offrire allo studioso siracusano Anselmo Madeddu il destro per imbastire, davanti al vuoto storico, un grandioso storytelling sospeso tra la fantasia cosmogonica di J.R.R. Tolkien e il rigore scientifico di Edward Gibbon. La verità sepolta (Algra editore) è il primo monumentale volume di una trilogia intitolata “Mistero bizantino” ispirata a quello che l’autore chiama “uno dei più misteriosi gialli medievali”, l’omicidio dell’imperatore romano d’Oriente. Che però sembra l’ultimo motivo di interesse di una ricerca storica di variazione, tentata cioè dalla fantasia, che è certamente titanica, a tratti maniacale e pedantesca, intesa a ricostruire non tanto un old cold case quanto un’epoca, ancor più seducente perché compresa in quei “secoli bui” nei quali persino l’uccisione dell’uomo più potente al mondo avviene lontano dai posteri.
Pensando a un romanzo da scrivere con i mezzi dello storico, Madeddu ha sortito non un manzoniano “misto di storia e invenzione” quanto una miscela delle due discipline con un abbondante sovrappiù dalla prima. Più che un romanzo storico, abbiamo dunque una “Storia del VII secolo” dove, per l’esorbitanza di dati documentali, il mood dominante diventa nel lettore quello di verificare il loro fondamento, sicché si cerca il romanzo e si trova il trattato: ricchissimo nondimeno di informazioni storiche, termini tecnici, rapporti dettagliati sulla coltivazione del baco da seta, la lavorazione dei mosaici, la preparazione dei farmaci naturali, l’industria della tintoria, il confezionamento degli abiti, le arti e i mestieri. Una enciclopedia che appare uno sfoggio di sapere, ma con il grande merito di aprire finestre su un mondo, quello bizantino, storicamente in ombra.
Costantinopoli e soprattutto Siracusa sono le due metropoli del tempo che appaiono infatti ricostruite come in un plastico, tale è la meticolosità topografica, ma a meritare la palma dell’acribia è senz’altro la rappresentazione della vita monastica, seguita a spanna da quella delle istituzioni imperiali e dei vari gradi gerarchici. Un vero e proprio manuale di storia, privo solo di note a piè pagina, eppure degno di ogni considerazione per la profondità della ricerca. Che tuttavia non aduggia l’invenzione letteraria perché il romanzo si innesta come una vite nella storia e frutta una trama per la quale l’autore parla in copertina di “thriller storico”, senonché l’intreccio è quello della spy story su scala internazionale, con l’adozione di espressioni moderne del tipo “servizi segreti”, “controspionaggio” e “potenze straniere” che certificano il genere narrativo dell’intrigo spionistico. Una spy story aperta però ad apporti eterogenei (dall’avventura all’odeporico alla detection) che, evocando Indiana Jones e Sandokan, locupletano il plot di un rocambolesco a presa forte ma anche di corrosiva inverosimiglianza: il monaco che salta in groppa a un cavallo volante sopra una fossa di orsi; lo stesso monaco in bilico sui calderoni bollenti della fornace; ancora lui che si lancia con un altro pio monaco alla cattura di due spietati assassini, lasciando i soldati armati di guardia; il commissario di polizia in pensione che veste i panni dell’esperto archeologo e del provetto filologo oltre che di insigne studioso; il monaco guerriero destinato alla santità e in realtà spia del basileo come anche eccelso conoscitore delle Scritture e autorità mondiale in fatto di eresie; il giovane studente che nel 1968 trova documenti antichi più volte tradotti fino alla versione ottocentesca del proprio antenato e decide di scriverne un romanzo, quello che in fondo ha fatto l’autore.
Le incongruenze che minano la fabula sono anche altre, ma nel complesso possono essere ammesse entro la sfera di improbabilità che è propria di un romanzo essenzialmente concepito in funzione della storia: tende a intonare ottoni ma fa da basso continuo, perché è il “vero storico” a primeggiare. Per renderlo reale Madeddu ha immaginato che uno studente trovi dei codici, costituiti da brevi lettere corredate da lunghi commentari opera di un monaco, Venanzio da Canterbury, invitato a fornire informazioni su certo San Staurachios ai fini di una sua agiografia. Quanto racconta in improbabili “commentari” (che vengono inopinatamente distinti dalle lettere perché lo studente possa riportarli nello stile linguistico corrente, lasciando le prime al registro ottocentesco) costituisce invero il romanzo in sé e insieme la sua stessa sconfessione, giacché è del tutto da escludere che un monaco di lingua latina in difficoltà con il greco possa ricordare ogni parola altrui al punto da riportarne lunghissimi e fedelissimi dialoghi persino tecnici, enigmi in greco e testi scritti, così come da escludere è che possa addirsi, richiesto di occuparsi solo di una persona, a descrivere città, usi e trascorsi, facendo non storia ma geografia.
Il romanzo per il quale è necessario sospendere l’incredulità fatica perché Madeddu ha concepito un modello narratologico di tale complessità che forse sarà chiaro nei successivi volumi: a un autore nascosto (cioè non indotto a intervenire in colloquio diretto con il lettore) che è lui si aggiungono un autore implicito palese che è lo studente, un coautore implicito che è l’antenato autore dell’ultima traduzione, un narratore omodiegetico e autodiegetico (presente nella storia e protagonista di essa, secondo la teoria di Genette), che è il monaco Venanzio, un narratario che è il destinatario di lettere e commentari e non ultimo un lettore-modello che sia capace di decodificare la funambolica articolazione. Troppi gradi di lettura per una materia già di per sé ostica. La scelta di costruire un romanzo sciorinando documenti, come vuole l’abusato criterio del manoscritto ritrovato, stende una polverosa patina storica e fa perdere immediatezza perché non si sente più la voce narrante e anziché un romanzo si legge un regesto.
Epperò tanta grevità non mina l’intreccio al punto da sterilizzarlo, a motivo dell’abilità dell’autore di guidare il romanzo tenendo le mani sul volante della storia: che riesce perciò a far sembrare vera dando prova di un duro sforzo a non perdere mai di vista il certo storico. E già si immagina il seguito lungo questa direttrice, dacché compare alla fine il sospettato numero uno del regicidio, Andrea, indicato anche da Amari come figlio di Triolo, l’eparchos che ordisce il delitto in combutta con il comandante dell’esercito armeno e altri titolati dissidenti. Dove la storia tace, Madeddu è pronto a colmarla (come nel caso della campagna di Sardegna del basileo e l’alleanza tra Arabi e Longobardi) con elementi di plausibilità che prendono la forma del romanzo ma hanno la sostanza della storia. Geniale appare in questo quadro il motivo conduttore di questo primo volume, che non è il regicidio, né l’imperatore che non appare mai una volta, ma la ricerca scientifico-militare diretta a scoprire la formula del “Fuoco d’acqua”, quello che la storia chiamerà “fuoco greco” e che diverrà appannaggio dei Bizantini. La caccia è ai codici che custodiscono il segreto della preparazione, da fare avere allo scienziato bizantino impegnato nella ricerca, Callinico di Heliopolis, legittimamente stanziato da Madeddu, nel silenzio della storia, alla corte imperiale di Siracusa. Ma la caccia è anche ai documenti segreti che rivelano il complotto internazionale per uccidere Costante II.
La verità è sepolta – di qui il titolo – alla base di uno dei più preziosi e ammirati reperti antichi del patrimonio siracusano mentre le vicende sono montate, tra rivolgimenti e colpi di scena, tradimenti e sconcertanti rivelazioni, nel nerbo di un iter volto al ritrovamento dei codici, proprio in coincidenza con la chiusura della terza delle quattro lettere di Venanzio, di cui ora è attesa l’ultima dopo essere stata salvata da un incendio e restaurata. L’intreccio è così coerente da sembrare nell’ordine delle cose naturali e dunque credibile, tale da essere considerato il portato di scoperte storiche. Coerente sì ma non perfetto, perché non mancano gli infortuni nella concitata escalation degli eventi: l’episodio in cui un monaco si rivolge a un altro e gli spiega che le consonanti ebraiche postulano vocali solo mentali come nella sua lingua (che certamente non può essere l’italiano) si direbbe per la sillaba “CS” che forma parole quali “casa”, “cosa” e “caso”; la volta in cui Venanzio parla di suoi possedimenti in Sicilia passando per siciliano e l’altra in cui, dopo aver detto di non conoscere il greco, ascolta a Costantinopoli un fornaio e un cliente disputare di dottrine monoteliste e monofisiste; il mistero per cui Staurachios, latore di segreti da riferire a Costante e suo agens in rebus, anziché precipitarsi da lui appena a Siracusa, va al monastero dove trova la morte; l’ingenuità di Venanzio di chiedere a un mercante sospetto informazioni capitali e rischiosissime; la sua dichiarazione di non aver impugnato mai una spada dopo aver appena accoltellato un sicario e avere avuto con il compagno monaco una spada tutta per loro; la leggerezza del maestro degli officii Giustiniano di affidare, di sera e da solo, Venanzio al figlio di Troilo, per un bagno alle terme, pur sapendo che il padre ha appena tentato di fare uccidere il monaco.
E forse sono colpa di un ritmo di scrittura currenti calamo, motivo di un buon editing che sarebbe stato davvero necessario, le zeppe che ricorrono anche nella stesura del testo: i Memoires al femminile, l’inappropriato uso di congiuntivi e virgole, l’eccesso di punti esclamativi e puntini di sospensione, la parola “eco” al maschile, l’inesatta espressione ottocentesca “in non cale”, la sfiancante ridondanza che spinge l’autore a ripetere svolgimenti e snodi riassumendo i fatti nell’ansia di non perdere il lettore. Si tratta di sviste che non avremmo voluto trovare in un romanzo che si raccomanda per la precisione del dato storico e per l’effetto, superbamente ottenuto, di rialbeggiare un’epoca sulla quale un altro storico votato alla narrativa, Umberto Eco, ha concentrato la sua attenzione dando un romanzo, Il nome della rosa, ambientato anch’esso in un monastero e cosparso alla stessa maniera di cadaveri, misteri e segreti, ma posto 660 anni dopo in tempi storicamente più documentati. Non perché spalmato in tre tomi, ma è da dirsi che “Mistero bizantino”, a stare almeno al primo titolo della trilogia, appare superiore quanto a trama, ampiezza di interessi e rapporto tra difficoltà di reperimento delle fonti storiche e risultati ottenuti.