Traffico
Quando oggi diciamo che c’è molto traffico non intendiamo intensi scambi commerciali o frenetico mercimonio illecito, ma la congestione della circolazione automobilistica, perlopiù se lenta. Di ogni termine (o di una parola se espressione del sentimento e non dell’intelletto, secondo la distinzione voluta da Leopardi) prevale sempre l’accezione dominante, ma non per questo si perdono i precedenti significati di senso, anche i più remoti, per definire i quali è però divenuto necessario precisare l’ambito linguistico, sicché diciamo “traffico di oggetti sacri”, “traffico di valuta”, “traffico web”, “traffico dati”. Se invece parliamo solo di traffico fuori da ogni contesto, per sopravvenuta antonomasia sottendiamo quello determinato dalle macchine in circolazione. Si tratta di un’acquisizione recente.
L’Enciclopedia Treccani, nell’edizione del 1949, offriva una teoria degna di essere ricopiata: «La storia di questa parola è difficile a farsi perché il suo stesso etimo è oscuro: sembra che originariamente significasse “maneggio”, ma si hanno esempi trecenteschi dell’altro significato di “commercio”, specialmente con regioni lontane; così, p. es., si diceva “traffico delle spezie”; e con questo significato il francese e l’inglese presero la parola italiana. Da questo significato si è passato a quello di “trasporto delle mercanzie” per mare (traffico marittimo) e per terra; e poi traffico è passato a designare in generale il movimento sulle vie di comunicazione, sulle strade (traffico stradale) e anche la trasmissione di messaggi per telegrafo e per telefono. Queste ultime accezioni hanno finito col prevalere mentre quella più antica di commercio è quasi completamente scomparsa nell’uso corrente, tranne che in senso spregiativo (per es., “traffico dei stupefacenti” [sic!], degli schiavi”, ecc.)».
In realtà l’etimo semantico è iberico, non italiano, e deriva da trafagar che qualche lezione incerta rimanda al latino trans e alla corruzione di vices, “cambio”, in figar. Non si va però ancora indietro perché in greco il verbo “negoziare” è reso con emporeo e agorazo, quest’ultimo con un’idea più incisiva di commercio aperto e tenuto in piazza. Cosicché il significato originario di “traffico” integra non già una confusione di mezzi o persone in movimento quanto l’oggetto delle azioni che i mercanti, riuniti in una fiera o attivi in un negozio, mettono in essere trattando lo scambio e la compravendita di merci. Designa insomma non la causa (i mercanti in movimento che vanno ad affollare la fiera) bensì l’effetto (i mercanti che, già assembrati, svolgono la loro attività).
Con l’intensificarsi degli scambi e degli spostamenti, il termine perde il valore (durato moltissimi secoli) di verbo, “trafficare”, e acquista sempre più la veste di sostantivo. Ma ancora nel Duecento “traffico” è un termine infrequente se La Divina Commedia lo ignora anche nel significato di commercio; tuttavia lo ritroviamo, benché una sola volta, nel coevo Decameron dove Boccaccio fa dire di Giannetto che è «lestissimo e diritto e di gran traffico d’opera di drapperia”, dunque come sinonimo di volume di affari (“traffico d’opera”).
Ancora nel Cinquecento Niccolò Machiavelli se ne serve nel Principe in una circonlocuzione che lascia ferma l’evoluzione diacronica del termine. Scrive infatti che «quello [il cittadino dedito al commercio] non tema di ornare la sua possessione [il negozio] per timore che gli sia tolta [dal principe] e quello altro [un secondo commerciante] di aprire uno traffico per paura delle taglie», dove le taglie sono le tasse e il traffico un’attività economica da avviare.
Facendo un altro salto di due secoli, vediamo che “traffico” non assume un significato diverso da quello primario di scambio commerciale e di affare economico e non già di movimento fisico, tanto che Giambattista Vico, in un’età di forte espansione del commercio anche intercontinentale, parla ripetutamente di “traffichi” nella sua Scienza nuova facendolo sempre al plurale e riferendosi alle sole operazioni di import-export che egli comprende nella locuzione «cagion de’ traffichi» per indicarne la fonte. Il traffico come lo intendiamo oggi (e come lo intende in prima istanza la novella Intelligenza artificiale che parla di «movimento di qualcosa da un punto a un altro, seguendo delle regole o dei canali specifici») di viabilità conserva ancora nella prima metà dell’Ottocento il significato originario di scambio. Nel 1819 si è però avuto un fatto nuovo: Schopenhauer ha usato il termine nell’espressione “traffico degenerativo”, implicando quindi una sfera psicologica entro un valore di senso pari a confusione mentale e aprendo così la strada a un nuovo utilizzo che troverà molto spazio come effetto collaterale. Ma nel 1844 l’enciclopedia Vanzon non conosce nemmeno il termine (benché contempli il solo verbo “trafficare” dandone la spiegazione tradizionale di “esercizio della mercatura”), né a fine secolo se ne servono De Roberto e addirittura Verga che non chiama “traffici” quelli dei lupini e gli affari di don Gesualdo.
Manzoni in I promessi sposi compie tuttavia un passo in avanti ma parallelo rispetto a Schopenhauer: del giovane fra Cristoforo, al secolo ancora Ludovico, dice infatti che il padre «con quell’unico figlio aveva rinunciato al traffico e s’era dato a viver da signore”, mentre di un mercante milanese nota che va «più volte l’anno a Bergamo per i suoi traffichi». Il termine quindi involge una sfera intima che contrappone surmenage a riposo e nello stesso tempo designa l’idea di spostamento fisico e reale. Bisogna comunque aspettare Pirandello perché il significato originario di impresa economica combinato con l’altro sopraggiunto di iperattività si arricchisca di quello insorgente di disagio psichico come sua ricaduta. Riprendendo Manzoni, lavoro e impresa hanno in Pirandello effetti psichici sulla sfera privata, per cui leggiamo nella novella “Lontano” che «coi tesori che si ricavavano da quel traffico non si pensava a far lavorare più» e in “Colloqui coi personaggi” della «solita vita di traffico per gli altri, di tedio per lei». Fa da compendio la novella “Il libretto rosso”: «In mezzo al traffico tumultuoso e polverulento dello zolfo, del carbone, del legname, dei cereali e dei salati non si respira». Il traffico diventa il frutto dell’industria dell’estrazione e della coltivazione intensiva, un fatto dunque ancora economico, epperò è gravido di implicazioni psicofisiche sgradite causate dal mondo nuovo della modernità. In forza di tale nuova tensione, nello stesso tempo il traffico assume con Pirandello il senso di movimento fisico, in particolare viario, sicché in “Piuma” scopriamo la pretesa di una «formichetta che tutto il traffico della via, gente, veicoli s’arrestassero per lasciarla passare».
In sostanza, com’è ovvio che fosse, l’evoluzione del significato procede di pari passo allo sviluppo della tecnologia, all’intensificarsi delle comunicazioni e ai progressivi processi di urbanizzazione, legati ai nuovi fenomeni di globalizzazione e di massa, che concentrano sempre più persone in grandi metropoli le quali diventano perciò “trafficate”. E se l’arte figurativa solo con il Futurismo scopre il senso del caos legato al progresso e alla velocità, assumendo come simbolo la macchina industriale ma non ancora l’autovettura, lo sbocco si ha in Italia negli anni del boom economico quando per bocca di Ernesto Calindri, seduto a un tavolo in mezzo al viavai delle auto, viene consacrato “il logorio della vita moderna”. Alla fine la causa di quello che oggi chiamiamo stress per la qualità convulsa della vita in città viene individuato negli anni Sessanta nel traffico viario. È l’ingresso del termine nell’ambito del significato del nostro tempo.
Così nel film Johnny Stecchino il palermitano alla guida (e non serve aggiungere che lo è di un’auto quando un secolo fa si sarebbe pensato a un calesse, giusto il principio di prevalenza del significato corrente) osserva che il peggiore problema della città è appunto il traffico, intendendo quello stradale ma sottendendo – fatto nuovo e dirompente – l’altro illegale dovuto ai traffici appunto della mafia. Il termine assume a questo punto un quarto significato (dopo quelli di scambio commerciale, disagio psichico e movimento), stavolta marcatamente negativo, indicando il campo illegale del contrabbando, dello smercio di droga, del riciclaggio.
E negativa diventa anche l’accezione di traffico viario quando la plurisecolare definizione positiva di scambio commerciale recede definitivamente di fronte all’invalenza di un contenuto semantico che denota senso di difficoltà, malessere, malumore: il traffico – automobilistico, pedonale – diventa la parte dinamica del termine “folla” che ha valore di staticità e induce allo stesso modo inquietudine, mentre su un’altra via cresce la rilevanza di traffico come attività criminale.
Film come Traffic del 2001 e Trafficanti del 2016 introducono sin nei titoli il concetto di “narcotrafficanti” che procede in parallelo con quello altrettanto avverso di traffico automobilistico: per modo che Tiziano Ferro canta in Sere nere “tra gli orari e il traffico lavoro e tu ci sei”, Samuele Bersani evoca in En e Xanax due innamorati «che quando litigavano avrebbero potuto fermare anche il traffico di New York», Ultimo rappa in Poesia senza veli «Quando ti chiamo e ti chiedo più o meno per che ora ritorni e tu sei nel traffico e strilli perché ti senti incastrata», Alanis Morissette impreca in Ironic contro «un ingorgo quando sei già in ritardo».
Il traffico viario in taccia di bestia nera del nostro presente, disvalore del tenore di vita, fonte di sindromi sociali trova cittadinanza come nodo diegetico cruciale in romanzi thriller quali Il passaggio di Michael Connelly (2015) e Lo scheletro che balla di Jeffery Deaver (2003) ed è il collante della cinematografia road movie basata sul forsennato inseguimento di auto in città. La sua trasfigurazione metaforica si è avuta in un romanzo fantasy del 2009 del britannico China Miéville, La città & la città: narra di due città sovrapposte una all’altra, i cui abitanti sono obbligati a ignorarsi pur dividendo “spazi interstiziali”, al controllo dei quali, nel caotico traffico automobilistico e pedonale, è demandata un’organizzazione chiamata “Violazione”.
La violazione del modello standard di vita, al quale è storicamente estraneo il traffico viario, è diventata negli ultimi cinquant’anni sempre più il principio ordinatore del nostro tempo al quale soggiacciono tutte le attività umane. Se prima il traffico era in relazione con lo spazio per via degli scambi commerciali, oggi il riferimento primo è il tempo, con il quale fare ogni giorno i conti nell’esercizio pratico della vita. Evitare il traffico è il precetto che rimodula il comportamento collettivo in base agli “orari di punta”. L’effetto più vitale è stata la distinzione dei modelli di qualità della vita tra città e provincia. Il traffico condiziona la prima ed è irrilevante nella seconda: al punto che il valore di senso del termine conserva miracolosamente solo in questa, quanto più circoscritta, la storica accezione di confusione non viaria ma immateriale.