Don Winslow, genio e cliché

14 Ottobre 2024

Dalla crime fiction ai current events, Don Winslow ha lasciato l’invenzione letteraria per l’impegno politico rispondendo al richiamo delle armi: un po’ come in Italia fecero massimamente Gabriele D’Annunzio, che smise di scrivere per salvare la patria, e in qualche modo anche Giuseppe Ungaretti. L’ultimo romanzo con il quale uno dei maggiori thriller crime writer Usa si è congedato (almeno fino a novembre, quando voterà contro Trump al quale ha dichiarato guerra aperta, venendo a dirlo in primavera anche in Italia in più sedi) è Città in rovine (HarperCollins), che chiude la trilogia delle città, protagonista Danny Boy Ryan, partita con Città in fiamme (2021 negli Usa) e proseguita con Città di sogni (2023). 

Sebbene nei Ringraziamenti finali scriva che “progenitrice” della sua “amata narrativa noir” è stata la letteratura picaresca, ciò che potrebbe supporre una vocazione escapista di tipo calviniano, il passaggio dal piano finzionale a quello del tutto reale (già adombrato due anni fa) non è stato tuttavia traumatico o contraddittorio, giacché Winslow ha sempre operato in funzione della più cruda rappresentazione dal vero della realtà americana, ancorché servendosi di personaggi sempre fuori misura. I suoi romanzi (un totale di venticinque) sono infatti un misto di verità e immaginazione che, reclutando imbroglioni, delinquenti, corrotti e diseredati, prende sia dal noir, quanto al fondo sociale oscuro e opprimente, che dal picaresco per i personaggi proteiformi ed eccessivi, votati all’avventura e all’azzardo, benché più volte improbabili. 

Degrado collettivo da un lato e minorità individuali da un altro si fondono in un geyser ad alto potenziale mimetico che involge una condotta pubblica spregiudicata e un ossessivo atteggiamento protettivo dei propri affetti. I più feroci criminali di Winslow, al pari di tutti i gangster della letteratura e del cinema americani, dal padrino di Puzo ai Soprano di Chase, si mostrano infatti fortemente legati alla propria famiglia e alla casa, tanto più perché – come nel caso della trilogia di Ryan – di origine italiana e irlandese.

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In questa veste di testimone del suo tempo Winslow, autore più cult che bestseller, può dirsi un chroniqueur delle vicende statunitensi, maestro dell’american social story e censore di un Paese preda della coazione a delinquere, della sete di potere, della corsa all’arricchimento entro uno scenario dove la mano pubblica è assente e i delinquenti non sono ricercati dallo Stato, bensì da rivali della stessa risma. La visione che nutre Winslow – motivo per cui negli Usa è sempre rimasto in secondo piano rispetto all’Europa dove ha un maggiore seguito – è ispirata a un’idea di bene non incarnato nelle istituzioni ma frutto di una episodica conversione del male. Danny Ryan è sin da ragazzo un criminale e dopo oltre vent’anni di resipiscenze e ricadute si ricicla in una persona perbene, così da lasciare che nel 2023, alla sua morte, il figlio Ian possa dire, disperdendone le ceneri, che “si è preso cura dei suoi amici, della sua famiglia e suppongo che, sì, in questo senso era un brav’uomo”. Al quale spetta dunque, in conformità con la sua nuova e ultima condizione, il ritorno a casa, secondo il credo winslowiano per cui nessuno va mai via da dove è nato, giacché chi lo fa, come Danny, poi torna, sempreché guadagni come lui il titolo per farlo. Sul gesto del figlio Ian che svuota l’urna con le ceneri in mare l’autore chiude il romanzo e la sua attività di scrittore: “La stessa onda [che ha distrutto il castello di sabbia costruito intanto dai suoi bambini, nda] viene risucchiata dall’oceano e porta con sé le ceneri. Danny Ryan è a casa”.

L’oceano che ghermisce ogni cosa è metafora dello strenuo tentativo di Ryan di lasciare il crimine e vivere legalmente. “È come essere nell’oceano con una forte risacca, pensa Danny. Cerchi di uscire ma l’oceano ti tira le gambe e se non riesci a tenerti in piedi ti risucchia. Pensi di essere a riva e subito dopo anneghi”. La forza dell’oceano è la stessa del crimine che richiama sempre a sé chi voglia allontanarsene, per cui Danny è convinto che “se il mare ti vuole, ti prende. Forse ti restituisce, a volte vivo, più spesso morto”. A lui tocca invece di vincere sull’oceano, che trasforma, con l’esempio della sua nuova vita, da empusa tentacolare e causa di perdizione a mitologema di casa e sepolcro. Con gli anni, divenuto ricco e operando solo come imprenditore nel campo degli hotel extralusso e del gioco d’azzardo a Las Vegas, Danny sente sempre più la mancanza, anche perché distante, dell’oceano quale sinonimo di casa e non come equivalente di ritorno al crimine: “Ti entra nel sangue, pensa, come se ti corresse acqua salata nelle vene”. La scelta a favore di Ryan da parte dell’autore è evidente, condensabile in quanto dice Joshua, un suo socio di affari ebreo: “I soldi non fanno il carattere, ma è il carattere che fa i soldi. Investi sempre nel carattere”. Il principio (forse alla base della morale di Winslow), certamente contrario alla logica imperante americana, suggerisce dunque che un uomo conti per ciò che è e non per ciò che ha. Ma è pur vero che Ryan può essere chi è, cioè uno stimato seppur temuto uomo d’affari, per ciò che possiede – nel costante rischio di tornare ad essere ciò che è stato. Più esattamente la filosofia dell’autore newyorkese si precisa in questo passo di Città in fiamme: “Le cose peggiori che fai, spesso le fai per le ragioni migliori. E le cose più odiose le fai per il bene di coloro che ami”. Ovviamente parla di Ryan.

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Per il democratico Winslow un delinquente pluriomicida che si redima dev’essere quindi pienamente ammesso pur in un’America Wasp, bianca e protestante, che in realtà fatica ostinatamente a tendere una mano ai dropout Wop, cattolici e immigrati, più ancora se dagoes e irish. Senonché Winslow alza il tiro (sebbene in Città di sogni collochi gli americani in una posizione neutrale giacché “il popolo americano vuole tutta l’omelette ma non vuol saperne di rompere le uova”) e accosta ad essi gli stessi connazionali, osando chiamarli in correità per i guasti generali del Paese col superare forse un limite di tolleranza della coscienza nazionale. Phillip Jardine, il corrotto agente federale ucciso in Città in fiamme da Ryan con il quale ha ordito una rapina di quaranta milioni di dollari al Cartello della cocaina è la personificazione dei mali endemici degli States in un accrocco di poteri tralignati concentrati in un tout de même che non risparmia nessuno.

Danny Ryan, l’ultimo campione in figura di antieroe della galleria winslowiana, è in tale prospettiva un clone finale di tutti i precedenti protagonisti seriali: dallo studente universitario Neal Carey, indagatore al soldo dei misteriosi “Amici di famiglia” nell’età reaganiana, al più noto Art Keller del celebrato Il potere del cane, giovane detective della Dea a caccia maniacale di narcotrafficanti nella “trilogia del Cartello”, dall’investigatore privato e surfista Boone Daniels al trio di ragazzi spacciatori Chon, Ben e Ophelia, legati in un torbido e generoso triangolo amoroso, fino all’ex poliziotto Frank Decker dedito alla ricerca esclusiva di persone scomparse, come il primo Neal Carey, così deciso nella sua missione da lasciare la polizia. 

Ryan li sintetizza tutti, al di là che sia irlandese, impersonando piuttosto la figura dimidiata dell’escluso: esattamente del povero in Carey, del tormentato in Keller, del fallito in Daniels, degli emarginati nel trio pusher, dell’ossessionato in Decker e nel caso di Ryan del “gregario naturale”, un self made man figlio del mondo del crimine e candidato alla fortuna: un déraciné che, come gli altri personaggi primari, interpreta un lifestyle riconducibile a quello di figure letterarie pionieristiche di detective intimamente vulnerabili quali Philip Marlowe di Raymond Chandler e Sam Spade di Dashiell Hammett: borderline, autonomo, irrisolto, irrequieto e umano, di grande forza d’animo e capace di essere altruista non meno che innamorato. 

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La trilogia delle città corona dunque un lavoro pluridecennale inteso a costituire, nei cicli come nei romanzi singoli, una mappa socio-economica nonché criminale dell’America, tracciata da costa a costa lungo le direttrici (le stesse percorse nella sua vita pure da Winslow, nato e vissuto a New York e finito a San Diego) che coprono Nebraska, Utah, Nevada, partendo dal New England, teatro delle prime gesta della saga dei Murphy e dei Moretti, le famiglie un tempo unite e ora in guerra, a fianco della prima delle quali Ryan si trova a militare, cominciando da soldato non ammesso neppure alle riunioni dei capi e arrivando ad essere egli stesso un boss realizzandosi in quello che Città di sogni è chiamato “fottuto sogno americano”. 

Una storia americana in nero, più esattamente una “americanata” che si serve, in fatto di italiani, di stereotipi tenacemente resistenti. In Winslow i nostri connazionali non gesticolano più né parlano ad alta voce e si toccano, ma rimangono comunque mafiosi. Peter Moretti per esempio, capo della “famiglia”, in Città in fiamme è “il classico mafioso italiano: capelli neri e folti tirati indietro con il gel, camicia nera con le maniche arrotolate per mostrare il Rolex, jeans firmati e mocassini”, ma in generale tutti gli italiani sono visti dai gangster di Providence in un unico calco: “unti, teste rosse e mangiaspaghetti venuti a rovinare la loro bella città protestante con candele e santi cattolici, effigi sanguinanti e preti che agitavano turiboli pieni di incenso”, ancora più odiosi per “il loro cibo puzzolente e i loro corpi ancora più puzzolenti, la loro prolificità incontinente”: dimenticando che candele, santi cattolici, effigi sanguinanti e preti furono portati negli States proprio dagli irlandesi.

Come tutti gli americani, Winslow preferisce gli irlandesi agli italiani, che non esita a sbeffeggiare, come quando in Città in fiamme rivela che lo spietato killer Sal Antonucci è gay, degno perciò di essere, secondo lo statuto sociale italiano, deriso e svilito dai suoi compagni. Lo fa anche lui, sicché quando Sal vuol farsi perdonare un torto da un altro membro della mafia, gli recapita un cesto “con prosciutto, bresaola, soppressata, provolone Auricchio, olive di Cerignola, olio di Biancolilla e una bottiglia di chianti Ruffino”. Ma il regalo, ghiottissimo, viene respinto sia per lo sgarro imperdonabile commesso da lui che per il suo inaccettabile orientamento sessuale. Ancora: nell’ultimo Città in rovine il pubblico ministero chiede in udienza perché Peter Moretti Junior chiami “zio Pasco” il vecchio boss della mafia, che risponde: “È una cosa italiana”. Dove “cosa” indica un’ennesima stravaganza. 

Ma anche nel magnificare gli irlandesi e il suo alfiere in particolare, Danny Ryan, Winslow eccede ugualmente in figure altrettanto icastiche: volendo reiterare il Leit-motiv della trilogia, ovvero l’indomito e inesausto sforzo di Ryan di perseguire la legalità, in Città di sogni gli fa concepire pensieri di questo tenore: “Credevo che Gesù fosse morto per redimere i miei peccati: è così che dicevano le suore. Ma forse i miei peccati eccedono la disponibilità sulla carta di credito di Cristo”. Winslow ha queste cadute di stile nella ricerca della battuta ad effetto e dello slang più analogico, probabili cascami della sua attività nel cinema e nello stesso tempo i suoi punti di forza. La sua narrazione scritta sottende infatti un racconto reso oralmente a un uditorio che non ama le digressioni, i fronzoli e l’eloquio forbito, ma la mimesi immediata, la rappresentazione che sia non di parole ma di cose dove possano trovare posto la volgarità, l’immagine a sfondo sessuale, grossolanità e sguaiataggine. Winslow richiede lettori-ascoltatori hard, rudi, da immaginare a cerchio in un pub, nel fumo e tra le birre, pronti a sentirne di ogni genere, meglio ancora se al limite della verosimiglianza, ciò che in sostanza rende epiche le sue storie.

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La trilogia delle città risponde pienamente a tale concezione. La guerra tra i Murphy e i Moretti, che hanno regnato nel Rhode Island di comune accordo al tempo dei loro capostipiti, esplode belluina perché un rampollo irlandese in taccia dell’acheo Paride mette gli occhi sulla bella Pamela in figura di Elena di Troia, pomo della discordia e prerogativa di un Moretti, la cui famiglia reagisce all’italiana – e ti pareva – dichiarando guerra. Una guerra di mafia che occupa gli anni Ottanta e nella quale emerge via via la figura di Danny Ryan, che tra croci e trame riesce ad assurgere a una posizione di primo piano. In Città di sogni è in fuga da Providence con il malloppo, il figlio rimasto orfano di madre e il vecchio padre come un Anchise. Scappa da Cosa Nostra e dall’Fbi e capita a Los Angeles nel mondo del cinema, nel cui ambiente si innamora di una star e finanzia un film sulla guerra di Providence, facendo pure da consulente e seguendo sul set l’interprete di sé stesso. Winslow è serissimo nel raccontare una storia che impone la sospensione dell’incredulità, come quando Danny finisce catturato da un narcotrafficante che lo vuole morto ma che all’ultimo momento – in una americanata appunto – gli risparmia la vita e gli lascia pure i soldi per i quali volevo ucciderlo; o come quando sempre Danny dà un passaggio in auto a una ragazza e si ritrova in un campo hippy, dove i narcos lo raggiungono. 

Anni dopo in Città in rovine lo ritroviamo a Las Vegas in veste di un magnate di successo che “l’oceano” prova sempre a risucchiare. La sua figura ricalca all’unghia quella di un boss italiano già conosciuto nel 2017 in L’inverno di Frankie Machine (il solo romanzo di Winslow con protagonista Cosa Nostra, prossimamente al cinema), un uomo che è stato mafioso e che è diventato galantuomo (ipotesi davvero singolare) ma che viene risucchiato in una guerra di mafia. La differenza è in ciò, che Frankie Machianno resta a mafiare, giusto che è italiano, mentre l’irlandese Danny Ryan si gode la vita e muore quasi in odore di santità.

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