Mani

7 Ottobre 2023

Facile dire “metti le mani a posto”, più difficile sapere qual è il posto. In un romanzo del 2002 di Enzo Siciliano, Non entrare nel campo degli orfani, un uomo anziano a letto si chiede supino quale sia la loro posizione più appropriata perché non si senta, tenendole lungo i fianchi o sulla pancia, una salma. La posizione delle mani è un deficit del corpo umano di per sé armonioso, simmetrico e funzionale: non hanno (più che le braccia) una loro posizione naturale, di default, come invece le gambe, per cui non sappiamo mai dove e come metterle. 

Come muoverle è invece un aspetto che riguarda la gesticolazione e non la postura. Se perciò cosa farne è un atto, dove tenerle è una potenza che si realizza perlopiù da fermi e zitti, al contrario dei gesti che accompagnano dinamicamente parlanti in movimento. Quando la maestra dice agli scolari di stare composti non intende che smettano di gesticolare ma di prendere una posizione adeguata stando fermi, in silenzio e con le mani sul banco o sulle ginocchia. 

Il gesto delle mani dura il tempo che si esprima un’emozione ed è momentaneo, mentre la loro posizione ha una durata in rapporto a uno stato d’animo e termina con esso. L’allenatore che alza le mani in aria per segnalare all’arbitro un fallo compie un gesto, quello che passeggia nell’area tecnica con le mani in tasca assume invece una posizione. Il primo comunica un umore, il secondo trasmette un modo d’essere. 

Uno scrittore che ha saputo ben distinguere gesti delle mani e loro posizioni, secondo rispettivamente manifestazioni del pensiero e stati d’animo, è Giovanni Verga, che molto si serve della mimica dei personaggi, elemento descrittivo-narrativo tipico del gusto ottocentesco, per dare loro non solo visibilità ma anche personalità. L’autore di I Malavoglia e di Mastro don Gesualdo fa mettere le mani in tasca, sotto le ascelle, dietro la schiena, sotto la gonna, sul ventre, perché le sue figure compiano azioni identificative di sé stesse: al pari di Alessandro Manzoni che in I promessi sposi introduce Perpetua a tu per tu con don Abbondio dando conto della posizione che prende più che di quanto lei dica, giacché la vediamo irta “con le mani arrovesciate sui fianchi e le gomita appuntate davanti guardandolo fisso”: atto che denota, perché espressivo e immaginiamo ricorsivo in altrettanti casi per la sua icasticità, un connaturato modo d’essere e non solo un subitaneo moto di agitazione.

Anche Verga mostra i suoi vinti e i vincitori in pose espressive. In Mastro don Gesualdo Santo “se ne andò sull’uscio accigliato, colle mani sotto le ascelle, guardando di qua e di là” e in I Malavoglia padron ‘Ntoni “andava dicendo colle mani sotto le ascelle” che bisognava fare provvista di sale, mentre ‘Ntoni la domenica “si godeva quelle cose che si hanno senza quattrini, il sole, lo star colle mani sotto le ascelle a non far nulla” e poi “girandolava pel paese colle mani sotto le ascelle”. Sottile la differenza con quanti Verga tiene invece con le mani dietro la schiena. In I Malavoglia vediamo padron Ntoni che per una volta “se la godeva anche lui colle mani dietro la schiena e le gambe aperte”; zio Crocifisso “ch’era lì anche lui a vedere [la Provvidenza distrutta, nda] e non faceva altro che passeggiare per la straduccia colle mani dietro la schiena che pareva il basilisco”, come fanno la Vespa che “dondolandosi appoggiata allo stipite, colle mani dietro la schiena, e intanto lo guardava [zio Crocifisso, nda] con gli occhi ladri”, e don Silvestro che “se ne andò anche lui colle mani dietro la schiena e la testa carica di pensieri”. 

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Annunciazione di Antonello, 1474.

Poi ci sono i personaggi di Mastro don Gesualdo come zia Cirmena “con le mani sul ventre e un sorrisetto amabile”, in I Malavoglia gli uomini della paranza che, “seduti sul fondo, colla schiena contro il banco e le mani dietro il capo, cantavano delle canzonette”; infine quelli con le mani in tasca: “Rocco Spatu colle mani in tasca che tossiva e sputacchiava”, Alessio che “s’era scaricato del suo fascio e stava a guardare dall’uscio serio serio e colle mani nelle tasche”, il figlio della Locca che “era lì fuori colle mani in tasca perché non aveva un soldo”, ancora zio Crocifisso che “non faceva altro mestiere e che per questo stava in piazza tutto il giorno, colle mani in tasca” e poi “seguitava a borbottare e brontolare colle spalle al muro e le mani ficcate nelle tasche”, per finire con la scena di famiglia che si mostrava a “ognuno che passava, al vedere sull’uscio quei piccoli Malavoglia col viso sudicio e le mani nelle tasche”. Sembrano tutte posizioni delle mani che si equivalgano se non fosse per leggere sfumature, squisitamente verghiane, capaci di spostare di poco un modo d’essere da un altro e una contingenza da un’altra anche nello stesso personaggio. 

Uomini e donne fanno in Verga uso delle mani indiscriminatamente, salvo per quelle in tasca, ma se guardiamo sin dalla più remota ritrattistica scopriamo come mentre le donne si sono date soluzioni anche molto eleganti sia in piedi che sedute, gli uomini hanno continuato a mostrarsi goffi: e più provano a mutuare pose femminili più si rendono equivoci, salvo il caso di un prete che, quando congiunge le mani, anche non per pregare, conferisce alle mani una posizione naturaliter congrua.

Femminili sono, oltre a questo sacerdotale, i modi di incrociare le mani sì che una tenga le dita dell'altra su un fianco o sul grembo, sia distese che con le braccia ad angolo, tenere una mano nel pugno dell’altra sollevandole entrambe a mezz’aria, rilasciare una sul fianco e piegare l’altro braccio verso il busto: sono tutti modi originali e come studiati in studi fotografici di moda, proprio dal cui ambito è nato, guardando alle modelle, il repertorio delle posizioni femminili più convenienti e acconce. 

Di ambo i sessi sono invece le posizioni delle braccia lungo i fianchi, soprattutto nelle foto cerimoniali ad opera di esponenti politici e alla maniera dei soldati. Attenzione però alle mani se sono distese o chiuse. In I fratelli Karamazov, Ivan Fedorovic “salutò con grande cortesia e contegno, ma tenendo anch’egli le mani strette lungo i fianchi”: nascondendo quindi una contrarietà nell’obbligo formale di apparire condiscendente. Le mani aperte e le braccia distese, come raccontava Corrado Alvaro del modo in cui Luigi Pirandello andava incontro ai suoi ospiti, esprimono un’amabilità priva di infingimenti. 

Sono infatti le mani che tradiscono il contegno. Rilasciate e molli, come nelle indossatrici, indicano affettazione, mentre aperte e con le dita unite segnalano marzialità, che è propria del soldato in fazione. Nell’iconografia medievale il palmo aperto e sospeso era il segno dell’accettazione e della messa in ascolto, ma nel tempo esso è evoluto fino a diventare il gesto del giuramento, assumendo un significato di solennità e integrando quindi una manifestazione di volontà. Di qui il mutamento che nelle arti figurative di ogni tempo si ha del gesto che diventa segno quando il primo è molto reiterato. Diciamolo meglio. Nell’iconografia domina generalmente il gesto perché è in relazione al racconto che l’immagine realizza, ma se quel gesto si identifica troppo con la figura che lo compie, magari perché celebre o perché ripetuto, tende a mutare in posizione e quindi in stato d’animo permanente e in un modo d’essere, ovvero in un carattere che si esprime quindi in un segno: signum individuationis appunto. 

Esemplare il caso della miniatura della Tristezza di Il Romanzo della Rosa, dove una donna è raffigurata seduta, piegata e le braccia incrociate sulle gambe con le mani flosce e non più rigide. Il gesto delle mani flesse è nel quattordicesimo secolo un eponimo della tristezza, come lo è anche nel diciannovesimo, se in Mastro don Gesualdo Diodata “si mise a sedere su di un covone, accanto all’uscio, colle spalle al muro, le mani penzoloni tra le gambe” e troviamo don Gesualdo “seduto su di un sasso, le mani fra le cosce, penzoloni”. Oggi indica una maniera femminile raffinata e sofisticata, molte volte regale, di presentarsi in pubblico. 

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In un uomo la mano fessa deporrebbe invece a svantaggio della sua virilità, dacché propriamente maschili sono le mani ai fianchi alla Mussolini, in tasca, conserte, incrociate dietro le spalle e congiunte davanti. Il modello di riferimento maschile è proprio il soldato nelle due tipiche posizioni dell’attenti e del riposo. L’uomo occidentale moderno ne ha copiato il significato intrinseco di ufficialità pubblica e rilassamento privato. Chi medita o si trova a passeggiare tra amici incrocia le mani dietro la schiena, mentre chi è in un’occasione pubblica o tra autorità si irrigidisce in un atteggiamento marziale. La variante è quella del bodyguard che tiene le mani davanti a forma di V impugnando una con l’altra: segno di forza, sicurezza, protezione; ma la stessa posa è anche del maggiordomo e del portiere d’albergo sulla strada, che devono infondere disposizione d’animo e senso di accudimento. Non molto diverso è il significato delle mani distanziate una dall’altra ma con le braccia incrociate sul petto e non sul bacino: nell’estetica medievale manifestavano l’idea di una subordinazione e di una minorità, mentre oggi le braccia conserte valgono come segno di sfida, di dimostrazione di forza e stato di attesa dello scontro fisico.

In un libro del 2010, La voce delle immagini, Chiara Frugoni fornì l’esempio più luminoso dell’uso delle mani come mezzo non solo di espressione ma soprattutto di stato. Nella pittura e nella scultura già del periodo classico scoprì come l’atto di parlare, connesso all’autorità di farlo, venisse precisato nella conformazione della mano il cui indice e anulare fossero piegati e le altre tre dita unite e semi-erette. Nell’Annunciazione di Antonello da Messina l’arcangelo mostra infatti la mano proprio in questo atteggiamento mentre la Madonna tiene le mani incrociate sul petto in un segno che per una donna non era di assoggettamento ma di accettazione e a volte di afflizione. In età bizantina tale disposizione delle dita mutò e ad esprimere lo stesso segno furono anulare e pollice congiunti a cerchio e le altre dita spiegate. Oggi l’indice in alto svolge quasi lo stesso compito: non sta per chi pretende di parlare ma di chi chiede il permesso di farlo

Il segno, sia latino che greco, fu chiamato della “mano parlante” che divenne “mano di giustizia” quando se ne impadronirono re e imperatori che la ostentavano anche dall’alto di un’asta, loro attributo di regalità, realizzata in un ricco cameo di avorio. Con l’affermarsi della Chiesa cattolica quel segno così profano è diventato nella versione latina il simbolo più divino, addirittura ad opera di Dio che, nell’arte figurativa, si rivolge all’uomo mostrando sia la mano parlante che quella di giustizia: lo stesso segno che oggi, dal pontefice al prete di campagna, vediamo elevarsi nel significato della benedizione.

Le mani in effetti parlano e sono il solo linguaggio dei sordomuti. Un linguaggio che cambia nel tempo col mutare dei codici interpretativi. Se fino agli anni Settanta ruotare il polso con il pugno chiuso e il pollice posato sull’indice indicava l’invito a spegnere la luce, girando l’interruttore, poi ha significato la messa in moto di un’auto e oggi è rimasto ad additare l’apertura di una serratura e la chiusura se fatto verso sinistra. Basta però sollevare il polso e designa il cartellino giallo che viene sollecitato contro un calciatore, ma se il pollice viene strofinato sull’indice il gesto diventa quello di chi conta soldi o di chi invita un gattino ad avvicinarsi. Contraendo appena un po’ le dita, ecco il pugno: che se tirato indietro mima l’apertura di una porta mentre in avanti la chiusura. Ma se il pugno viene portato all’orecchio oggi ricorda una telefonata col cellulare, che fino a trent’anni fa era però simboleggiata dalla mano all’orecchio con pollice e indici eretti mentre prima ancora era rappresentata dall’indice che ruota su un’immaginaria tastiera rotonda e dopo dal pugno come per scoprire una pentola usando la locuzione “alzare il telefono”.

Sono, questi, gesti di ambo i sessi, come la gran parte, ma ce ne sono anche differenziati e alternativi. La donna che ha uno spavento o riceve una brutta notizia poggia la mano aperta sulla bocca mentre l’uomo la porta dietro la nuca. Perché non succede mai il contrario? Una risposta forse viene dalla storia evolutiva dei due generi: la donna è educata a non parlare e tantomeno a ridere e a gridare, per cui si obbliga a tacere; l’uomo è invece chiamato per sua natura congenita ad affrontare sia la paura che la cattiva sorte e quindi ne ha responsabilmente un “grattacapo”. Ancora: la donna esulta levando le mani aperte in aria, mentre l’uomo tiene i pugni stretti e dimena le braccia avanti e indietro c con le mani a pugno come per chiudere un cassetto incastrato.

In generale è l’uomo a gesticolare molto di più, essendo il gesto in sé una forma di esibizione non conducente in una donna, ma è la donna a contare un maggior numero di posizioni delle mani, che richiedono meno platealità e offrono più espressività. Nella sostanza l’uomo esprime più quanto sta pensando e la donna più uno stato d’animo meno transitorio ed estemporaneo.

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