Il Museo dell'innocenza

15 Gennaio 2014

“Se un uomo sognasse di trovarsi in paradiso e gli venisse dato un fiore come prova che la sua anima è stata lì, e al suo risveglio avesse quel fiore in mano cosa accadrebbe?” Forse è proprio in questa impossibile domanda, una scintilla rubata con scaltrezza al fuoco romantico di Samuel Taylor Coleridge, che Orhan Pamuk ha nascosto, mostrandolo in esergo, il senso del suo monumentale e fragile Masumiyet Müzesi, il Museo dell’innocenza.

 

Un romanzo sterminato, Il museo dell’innocenza (trad. it. Di Salim B. La Rosa, Einaudi), che è anche (e contemporaneamente) una vertiginosa collezione di oggetti eterocliti e confortanti, una raccolta impressionante di reliquie, trovate o inventate poco importa, allegorie, metafore profumate, scorie e mirabilia che nel corso di alcuni anni lo scrittore ha cercato e poi allestito con pazienza e dedizione in affollate teche di legno disposte sui tre piani di un vecchio palazzo di Istanbul, nel cuore di çukurcuma, un tempo quartiere popolare, rifugio per nuovi e vecchi immigrati, e da qualche anno, per forza di progressiva gentrificazione, anche di artisti ed antiquari. È il quartiere (la casa, più precisamente) in cui abitava Füsun, ragazza e poi donna desiderata con inflessibile e mai risolta passione da Kemal, narratore, attraverso la voce (quanto autobiografica? Impossibile dirlo: l’autobiografia è comunque scrittura suicidaria) di Pamuk, di un amore che si snoda senza cesure per quasi dieci anni, dalla primavera del 1975 all’estate del 1984, e di cui il romanzo è cronaca dettagliatissima e catalogo minuzioso, anticipando al lettore visitatore – è così che lo scrittore si rivolge a chi con coraggio affronta le pagine fitte di un libro tanto ambizioso quanto esigente – ciò che potrà incontrare nella penombra quieta del Museo dell’innocenza, inaugurato infine nell’aprile 2012 dallo stesso Pamuk, ideatore ma anche autonomo finanziatore di questa impresa inaudita.

 

 

Non (solo) un gioco letterario, e neppure una esasperata messinscena terapeutica – certo, solo gli oggetti possono lenire il dolore, che Kemal-Pamuk visualizza in una tavola anatomica “per mostrare al visitatore del museo i punti dove la mia sofferenza amorosa in quei giorni si manifestava, si acutizzava e si diffondeva” segnandoli “sull’immagine che ritraeva gli organi interni del corpo umano nel cartellone pubblicitario del Paradison, un antidolorifico che, in quel periodo, mi aveva colpito nelle vetrine delle farmacie di Istanbul” – ma, davvero e a tutti gli effetti, un museo.

 

Un potente strumento di potere, quindi – “chiunque abbia una minima nozione tanto dei musei quanto della storia delle civiltà che in essi è conservata, sa bene che dietro la cultura della civiltà occidentale, dominatrice del mondo, ci sono i suoi musei” ha sottolineato Pamuk che dell’innocenza fa il suo paradossale contenuto senza poterne certo condividere la natura perché ogni museo conosce la colpa e la violazione, è, sempre, tendenzioso e partigiano, autoritario e seducente, mai neutrale nel raccontare storie e nel costruire sequenze, violento persino quando strappa gli oggetti dai contesti di origine e li condanna – fine pena mai – al trionfo inanimato dell’esposizione.

 

Così, il museo costruito da Orhan Pamuk in parole e in quotidiani feticci (sono 4213 i mozziconi di sigaretta ordinati nella grande bacheca al piano terra che tanto fa pensare alle inquietanti Farmacie di Damien Hirst) è, senza dubbio, un esuberante, e al limite persino irritante, monumento allo scrittore turco, che di questo spazio ha curato ogni dettaglio, non soltanto saccheggiando con ostinazione rigattieri e mercatini ma anche commissionando dipinti e oggetti di design per ricreare le atmosfere perdute di una città forse mai davvero esistita – e proprio di “city museum” ha però parlato Pamuk nella presentazione al pubblico del Masumiyet Müzesi – ma è, al tempo stesso, una densa riflessione, in pensieri e immagini, sul significato che il museo dovrebbe assumere all’interno della società contemporanea.

 

 

Kemal-Pamuk non si limita infatti a mostrare il suo amore smisurato e quasi folle per i musei attraverso i continui pellegrinaggi sentimentali che lo conducono a visitare collezioni in ogni dove (e commovente è la scelta narrativa di legare la morte per crepacuore di Kemal alla sofferenza per il triste destino di abbandono del milanese Bagatti Valsecchi), ma, senza per forza scomodare in maniera esplicita i temi e le figure che animano il dibattito museologico più recente, con il suo Museo dell’innocenza l’autore non rinuncia a definire in maniera inequivocabile la propria posizione rispetto alla funzione che il museo oggi dovrebbe assolvere.

 

Non è certo un caso, infatti, che, appena varcata la soglia del museo, a tutti gli effetti la porta di una casa in cui ci si sente persino più ospiti che visitatori, sia il testo di un tutt’altro che “modesto manifesto per i musei” a chiarire immediatamente il valore che Pamuk attribuisce al museo, il cui avvenire, ben diverso dalle retoriche dei grandi musei nazionali in cui non c’è spazio per i desideri e le curiosità del singolo, “risiede nell’intimità delle nostre abitazioni”. È questo il paradosso, ed anche il seducente inganno, su cui si costruisce il Museo dell’Innocenza, frutto di viaggio singolarissimo, un vertiginoso percorso a spirale tra la letteratura e la realtà: e proprio la spirale, trasformata nel logo del museo in ali di farfalla, ineffabile vanitas, è del resto il simbolo che, disegnato sul pavimento del primo piano, resta sempre visibile, accompagnando il visitatore ammutolito nella sua scoperta che, di piano in piano, lo porterà al corto circuito del sottotetto, dove la “vera” stanza da letto di Kemal fronteggia le pagine del manoscritto del romanzo e i fogli fittissimi in cui segni, disegni, parole documentano il laborioso progetto del museo.

 

 

Grazie ad un’illuminazione avvolgente, al silenzio appena turbato dal suono dello scorrere impossibile dell’acqua di una fontana, dall’audio attutito di un video proiettato sulla parete o nascosto fra le fotografie messe in bacheca, il museo, un reliquiario di esistenze quotidiane, un ex voto per una vita che è stata, in fondo, felice, coinvolge il visitatore in un incontro tenero e rispettoso con un passato che gli diventa, poco a poco, familiare grazie ad un’esperienza immersiva che sollecita i sensi più che fare appello alla ragione: “Guardando la mia collezione, i visitatori del museo non solo rispetteranno il mio amore, ma lo confronteranno con i loro personali ricordi” e per questo, aggiunge significativamente Kemal-Pamuk, “il museo non dovrà mai essere troppo affollato, così da consentire alla gente in visita di vedere con agio, e in qualche modo di ‘vivere’ ogni singolo oggetto di Füsun, anche le fotografie delle strade di Istanbul dove avevamo passeggiato mano nella mano: tutto, l’intera collezione.

 

Per cui non potremo accettare più di cinquanta visitatori alla volta”. Un’indicazione (una prescrizione) frutto della consapevolezza che “quando i musei sono troppo affollati, gli oggetti piangono”, che è anche una presa di posizione contro i rituali di massa imposti dalla globalizzazione, contro l’affermarsi incondizionato di brand museali insensibili alla singolarità dei contesti, al mutare delle luci e delle lingue.

 

Così, attraverso la tassonomia ossessiva, persino soffocante, delle migliaia di oggetti che testimoniano la vicenda, così piccola e per questo universale, dell’amore tra Füsun e Kemal, tradotta meticolosamente in teche e vetrine che ricordano i gabinetti di curiosità quanto le installazioni, evocative e luttuose, dell’artista francese Christian Boltansky (del resto, Pamuk non ha mai fatto mistero della sue giovanili aspirazioni di pittore né della sua sensibilità per l’arte e per l’architettura), il Museo dell’innocenza si offre a chi vi è giunto con fiducia, talvolta quasi in pellegrinaggio (quanti hanno sotto braccio la loro copia del romanzo, garanzia di ingresso gratuito sancita dal timbro all’interno del biglietto stampato nelle pagine conclusive del libro) come argine confortante al dilagare dei musei prêt-à-porter, buoni per ogni luogo ed ogni tempo.

 

 

Una proposta, ed è persino inutile sottolinearlo, per nulla innocente, perché dietro la meraviglia di un museo (di una scrittura) che del trionfo dell’istante ha fatto la propria preziosa materia – “ Sforzarsi di immaginare la linea che unisce i singoli istanti o quella che unisce gli oggetti che portano in sé il ricordo di quegli istanti, come nel nostro museo, ci rattrista perché, invecchiando, comprendiamo dolorosamente che la linea in sé è priva di senso. I singoli istanti, invece, possono regalarci una felicità che non si esaurisce per centinaia di anni” – si cela a mala pena l’insidia della museificazione del mondo, la perdita del valore d’uso (degli oggetti, dei sentimenti) che nello splendore dell’esposizione trasforma tutto in inerte feticcio da contemplare.

 

È, però, un rischio a cui non può sottrarsi chi, come Kemal-Pamuk, al risveglio dal sogno, non vuole rinunciare a condividere il fiore ricevuto in Paradiso e trascendere così il Tempo perché in fondo “è questa la più grande consolazione della vita”, ed è questo il compito che egli ha affidato, con orgoglio ed emozione, al suo Museo dell’innocenza, alle sue stanze e alle sue pagine, esigenti e malinconiche: “Sembra apparentemente impossibile scoprire il segreto degli oggetti senza un’immensa tristezza. E dobbiamo umilmente ammettere la verità di questo ultimo segreto”.

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