Teatro-museo Dalì, Figueres
Convulsiva o commestibile, tragica o sinistra che sia, la bellezza surrealista non abita l’architettura glassata del Museo Dalì di Figueres. E non perché non sia abbastanza splendente d’oro, persino rutilante, teatralissimo fin dalla facciata che chiude, proprio come una quinta da palcoscenico, l’antica piazza, oggi ovviamente intitolata all’ineffabile coppia Dalì - Gala. Qui, sulle rovine combuste del teatro municipale che aveva accolto i suoi primi disegni di adolescente “che vale tanto oro quanto pesa”, l’artista ormai al tramonto aveva deciso di costruirsi un esorbitante monumento, veramente un mausoleo, un’enorme Wunderkammer che mettesse per sempre in scena le sue visioni di critica paranoia. “Voglio che il mio museo sia come un blocco unico, un labirinto, un grande oggetto surrealista. Sarà un museo assolutamente teatrale. La gente che lo visiterà se ne andrà con la sensazione di aver fatto un sogno teatrale”, aveva detto l’artista all’inizio di questa sua interminabile impresa – la prima di una lunga serie di inaugurazioni risale al 1970 - ma di quel sogno, della meraviglia fanatica e irritante che aveva reso insopportabilmente di successo la sua opera, non si riconosce oggi in questo incredibile museo neppure una vaga superstizione, e lo scandalo della surrealtà è appena uno slogan sul depliant in accesa quadricromia distribuito all’aeroporto di Girona-Costa Brava.
Ad essere indiscusso protagonista di questo imperdibile monstrum, orgoglio e cassaforte della cittadina catalana, non è davvero il delirio strutturato che animava la Riminiscenza archeologica dell’Angelus di Millet e neppure il turbamento lunare e inquietante della Persistenza della memoria, perché qui a trionfare, non detta ma dichiarata ovunque, è la involontaria profezia del curé Breton che, come sempre acuto e vendicativo, aveva anagrammato il nome del traditore Salvador Dalì nel folgorante Avida Dollars. Lussureggiante tempio del turismo di massa, fatto di bermuda, avanguardia formato famiglia e aneddoti semi-piccanti, il museo teatro di Dalì è davvero una vertigine di seducente orrore a pagamento e di fragoroso, studiatissimo kitsch, una macchina perfetta dello stupore a orario limitato, giusto il tempo di inquadrare furtivamente le lumache in Cadillac o le labbra di Mea West per mandarle via mms agli amici che, beati loro?, sono rimasti in spiaggia. Quella che vi si replica con ritmi infernali, avanti dieci per volta, uno sguardo in alto alla Barca di Gala, da quella parte il palombaro, ora la sala del tesoro, poi la cripta, niente fotografie, per piacere, è, senza mediazioni, l’apoteosi irresistibile dell’iperconsumo culturale, un vero e proprio pellegrinaggio pop – e Dalì, idolo di Hollywood, protagonista delle cronache rosa, autore del Diario di un genio, non è forse a tutti gli effetti una popstar? – che lascia senza fiato, una vorticosa cavalcata, avanti c’è posto, tra opere e installazioni anche straordinarie, sempre spettacolari, per raggiungere, finalmente, il sospirato bookshop. Dove di books ce ne sono, tutto sommato, abbastanza pochi mentre è tutto un tripudio di orologi molli, bocche scarlatte in plastica in ceramica in peluche, ombrelli tazze calendari borse candele giocattoli, in severo ordine tipologico, così rassicurante dopo il caos affollato e indecifrabile delle sale.
Se davvero, come ha scritto Agamben, la museificazione del mondo è ormai un fatto compiuto, il museo teatro Dalì è l’epitome favolosa di questo processo, un capolavoro assoluto dove davvero si celebra collettivamente e senza inutili inibizioni la perdita della realtà. Alla faccia di quei “cocus du viel art moderne”, così tristi con il loro complesso di superiorità e tutte quelle sciocche pretese di futuro: Olé!