Bologna, Museo della Memoria di Ustica

12 Ottobre 2011

Non è la città dei portici e della letteratura, e neppure quella dello spritz e dello shopping la Bologna che si percorre, un po’ smarriti e persino inquieti, per arrivare, dopo molte fermate di autobus e qualche richiesta di informazione, agli ex depositi tramviari di via di Saliceto, alla Zucca. Qui, poco lontano da via Stalingrado, dalle larghe strade operaie un tempo ai limiti della campagna, dal 2007 riposa, per sempre senza pace, il relitto del DC9 Itavia abbattuto nei cieli di Ustica nel giugno del 1980.

Ci sono ancora i binari a segnare, metallica e moderna nervatura, il percorso che conduce, attraverso l’aperto di un giardino pubblico senza troppe pretese, ai capannoni imponenti che accolgono le scarne spoglie dell’aereo e dei suoi ottantuno passeggeri, lamiere e pettini, maniglie e bambole strappate con chirurgica pazienza dal fondo del Mediterraneo e destinate alla discarica dopo aver raccontato in infinite sedi giudiziarie la loro storia di morte improvvisa.

 

 

L’Associazione dei familiari della vittime ha voluto però che quella storia – quelle tante, singole storie – continuassero ad essere raccontate e ascoltate e, con il sostegno del Comune di Bologna, ha deciso di istituire il Museo della Memoria di Ustica. Un monumento, nel senso migliore del termine, un autentico dispositivo di memoria progettato da Christian Boltansky come un’opera ed, assieme, come un museo, ovvero come uno spazio altro, un’eterotopia, per dirla con Foucault, in grado di mettere in discussione tutti gli altri spazi, facendosi garante di un tempo più denso, di un’esperienza presente che è condensazione e continua riscrittura del passato. E il visitatore del Museo della Memoria di Ustica si accorge subito di varcare una soglia simbolica quando, dopo un’accoglienza silenziosa – nella stanza d’ingresso una semplice scrivania e le copie, in libera distribuzione (almeno fino alla denuncia del ministro Giovanardi, contrariato dalla, argomentatissima, lettura storica proposta) di un depliant e della agghiacciante “Lista degli oggetti personali appartenuti ai passeggeri del volo IH 870”- si affaccia nell’enorme spazio dell’hangar.

 

 

Nessuna didascalia, nessun pannello o video didattico – pure presenti in una stanza interna – possono veramente supportare l’esperienza immersiva ed emotivamente violenta che offre il museo: al centro, in basso e inaccessibile, l’enorme carcassa dell’aereo minuziosamente , quasi maniacalmente, ricostruita e alcune grandi casse nere, nove pudichi reliquari in cui sono conservati, finalmente esclusi dalla morbosità degli sguardi, i diversi oggetti ritrovati. Senza commento si cammina, a mezza altezza, su un ballatoio, ascoltando, prima senza capire, poi con progressivo orrore, le voci che ripetono all’infinito brandelli di pensieri, frammenti di discorsi quotidiani, banali, acuti, insensati, amorosi o crudeli, resi contro ogni volontà eterni dalla morte improvvisa. Parole che provengono dagli ottantuno specchi neri distribuiti in regolare teoria, quasi una luttuosa sequenza di autoritratti, lungo il ballatoio, mentre la luce di ottantuno lampadine ad incandescenza, esigue e potenti, si affievolisce e si rianima in un’agonia senza fine. Il museo qui è, di nuovo, un tempio, un luogo in cui il sacro – un sacer che non nega ma, anzi, ribadisce la propria ambiguità di sacro ed esecrando – si manifesta senza ritegno interrompendo la continuità opaca del quotidiano per aprire all’indicibile. Per dare presenza ad una verità che non si può addomesticare nella trasparenza di un discorso analitico, una verità insopportabile che però, proprio grazie alla forza di un’esperienza individuale e, assieme, collettiva, il Museo della Memoria di Ustica rende ragione civile e, per questo, oggi scandalosa.

 

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