L’irrinunciabile dolore del racconto
Non è mai troppo tardi per leggere Karoo, il solo romanzo dello sceneggiatore hollywoodiano Steve Tesich, pubblicato postumo nel 1998 e comparso in Italia per Adelphi (traduzione di Milena Zemira Ciccimarra) soltanto l’anno scorso. Soprattutto oggi che si parla di storytelling un giorno sì e l’altro pure, e raccontarsi è diventato così importante che ci affidiamo ai social media manager. Ognuno rivendica la propria storia, la propria autorialità, e siamo pronti a urlare al plagio se qualcuno su Facebook ci ruba una battuta. Raccontabili come oggi non ci siamo sentiti mai. Karoo invece è un uomo che la sua storia non la rivendica, la subisce. Comincia con l’esserne l’artefice – il narratore perfetto – finisce col venirne fagocitato.
Se immaginassimo la pagina Wikipedia di Saul Karoo ci sarebbe scritto che: è figlio di una madre «che potrebbe essere la madre di chiunque, persino la sua»; di lavoro fa lo script-doctor, cioè riscrive sceneggiature venute male e rimette a posto film poco riusciti (ha spesso il blocco del riscrittore); è afflitto da una misteriosa sindrome per cui beve fiumi di vodka senza riuscire mai a ubriacarsi (ma la punizione vera è che quando giura di esser sobrio non gli crede nessuno); ha una ex moglie di nome Dianah che gli «parla con i corsivi» per rinfacciargli meglio di esser fatto come è fatto; ha un figlio e una nuova compagna che vorrebbe riavvicinare; è alla ricerca disperata di un lieto fine per la propria vita, di un modo di sistemare le cose. Il commercialista, l’assicurazione sanitaria. Ma soprattutto Karoo ha il privilegio di cui gode ogni vero grande narratore: è un mentitore professionista, un gran bugiardo. «Ho un problema terribile con la verità» ammette fin dalle prime pagine, senza mai tradirsi. Per contrappasso, la costruzione della sua storia pubblica finirà con l’apparire agli occhi del mondo come la versione ufficiale – la sola accreditata – della sua storia privata. Non importa se è meno autentica, perché dal punto di vista narrativo funziona.
Come Leonard Zelig di Woody Allen, Karoo interpreta ruoli, diventa di volta in volta colui che gli altri credono che sia: “Un Uomo per cui era Durissima”, o un altro qualsiasi cliché. Per sentirsi credibile ha bisogno di un pubblico: somiglia in questo all’utente ideale dei social, che se dice una bugia rivela spesso più di quanto nasconde. Anche la menzogna è una forma di talento, diceva Cioran, e Karoo ci è simpatico perché il personaggio che è costretto a interpretare risulta sempre più reale e comprensibile di lui stesso. Non si sente mai all’altezza, Karoo, dell’amore che riceve, un amore privo di movente, che lui non arriva a capire. Nei suoi viaggi attraverso città americanissime e stanze d’hotel in cui la solitudine filtra «come una perdita di gas», anche quando è felice, è felice suo malgrado.
Questa sofferenza Steve Tesich – da bravo sceneggiatore – ce la racconta facendo con le parole quello che un regista farebbe con le immagini.
Per avere un’idea di quanto la sua scrittura sia quasi già cinema basta leggere descrizioni di questo tipo:
«Alla mia risposta la sua faccia diventa cubista, si frantuma in tante sfaccettature di un solo volto. Un sorriso si stacca dal resto dei tratti e acquista indipendenza, libero e feroce».
O ancora:
«Arriva il cameriere con il conto. Lo esamino come un ubriaco potrebbe guardare il manuale di guida di un razzo spaziale».
Ve lo immaginate un ubriaco che guarda il manuale di guida di un razzo spaziale?
Ma non lasciatevi ingannare dall’umorismo di Steve Tesich, la sua allegria non è divertente. Leggendo Karoo assisterete al dramma di un uomo che va in brandelli pagina dopo pagina finché non rimarrà soltanto «il vuoto e un viaggiatore che lo attraversa».
Si esce storditi dalla lettura di Karoo, perché la storia incomincia commentando una guida fonetica alla corretta pronuncia dei nomi di leader rumeni pubblicata dal New York Times (siamo a un party fra amici, gruppi di gente e moltissimo champagne) e finisce con Ulisse che cerca Dio. Nel corso della storia Karoo va tragicamente disintegrandosi, la sua voce in prima persona a un certo punto scompare. Dov’è finito Karoo, chi è che parla? Come in un corto circuito, il rapporto tra inventato e accaduto va in tilt, qualcosa si rompe, il lettore è spiazzato, Karoo ha preso in giro anche lui. Ecco per esempio che cosa succede a pagina 364:
«Un dolore sordo e sconnesso, ma diffuso e generalizzato, lo travolse. Un dolore privo di un centro, di una priorità e di una vera e propria persona che lo provasse».
«Un dolore alla volta, per favore» supplica ancora Karoo, colpito sotto al sole da un forte capogiro davanti a casa di Jay Cromwell, suo capo supremo, aggrappandosi al cancello per le fitte nella pancia e un mal di schiena infernale. «Se si potesse impazzire su richiesta, chiederebbe di impazzire».
Nelle pagine finali questa pena insopportabile arriva a coincidere con il grido di Ulisse. «Perché sono nato?» grida Ulisse, eroe stanco, mentre affoga in un oceano di solitudine senza più speranza di ritrovare casa. Il tormento di Karoo attraverso il mito si fa allora universale, diventa tutti i tormenti del mondo. La sua storia – ce ne accorgiamo – è la storia di ognuno di noi, trafitta da un dolore solo umano, irrimediabile, che Steve Tesich ci fa sentire a ogni pagina. Il dolore di essere quel che si è.
Il libro: Steve Tesich, Karoo, tr. it. di Milena Zemira Ciccimarra, Adelphi 2014 (II ediz.), pp. 459, € 20,00