Abbiamo davvero già visto Hiroshima?

16 Maggio 2014

Pensavamo di trovare soltanto ottantenni in sala, e invece…» dice sorridendo la signora seduta alla mia sinistra, mentre prendo posto. E invece ci sono anch’io, che Hiroshima mon amour l’ho visto per la prima volta dieci anni fa, e lo rivedo oggi pensando che chi ha ottant’anni adesso, aveva all’uscita del film, nel ’59, più o meno la mia stessa età.

 

Ma non sono la sola ad avere meno di ottant’anni, in sala. Chi sono questi altri giovani spettatori seduti vicino a me? Anche loro sono qui per rivedere il film di Resnais, oppure non sanno ancora niente di Hiroshima? Ma poi, abbiamo davvero già visto Hiroshima?

 

 

«Non, tu n’as rien vu à Hiroshima», sono le parole che Eiji Okada ripete come un mantra a Emmanuelle Riva mentre scorrono le prime immagini del film, che ci mostrano lo scheletro di una città desolata e immobile.

Eppure lei – che è un’attrice, e che è andata a Hiroshima da Parigi per le riprese di un film – ha conosciuto la Guerra, ha percorso le strade di questa città fantasma, ha incrociato gli sguardi della gente segnata da un trauma non ancora guarito.

 

Ma non basta sapere del Museo, dell’Ospedale, del numero dei morti, per conoscere Hiroshima. Per capire il senso di quel Male necessario – “Necessary Evil”, così si chiamava il bombardiere che accompagnò l’Enola Gay il 6 agosto del ’45 con il solo scopo di documentare, scattando fotografie aeree, gli effetti della bomba appena sganciata – che rase al suolo la città costringendo il Giappone alla resa.

 

 

Abbiamo davvero già visto Hiroshima, dopo che più di cinquant’anni – cinquant’anni di storia, di immagini e di storia delle immagini – si sono depositati sui nostri occhi mostrandoci l’esplosione di Chernobyl, il crollo delle Twin Towers, i missili al fosforo bianco di Israele, le bombe-barili con cloro e ammoniaca utilizzate in Siria oggi? I nostri occhi sono ancora gli stessi?

 

Abbiamo davvero già visto tutto di Hiroshima, se soltanto la copia del film restaurata dalla cineteca di Bologna e proiettata nelle nostre sale in questi giorni, ha riportato alla luce i 75 metri di pellicola tagliati dalla censura italiana e quel primo piano di due corpi nudi abbracciati – con la pelle consumata dalle ustioni, ricoperta di polvere radioattiva – che racchiude, da solo, tutto il senso del film?

 

 

La prima volta che ho visto Hiroshima, attratta dalla promessa del titolo e presa da un voyeurismo crescente, non facevo altro che aspettare le immagini più forti. Quando si vedranno i corpi carbonizzati? Dove sono le carni scorticate, le cicatrici, le orbite vuote degli occhi, i lembi di pelle stracciati dal corpo, i ciuffi di capelli caduti, gli arti deformi?

 

Ma Hiroshima era molto più di tutto questo.

Resnais – così racconta – non pensava affatto a un film sulla bomba atomica. Resnais pensava a un film sull’idea della bomba atomica. È per questo che il documentario di tre quarti d’ora previsto in un primo momento si trasformò nel film che noi oggi conosciamo. Ed è per questo che prima di iniziare a girare Resnais aveva voluto conoscere tutto della storia che stava per raccontare, chiedendo a Marguerite Duras – che il film lo ha sceneggiato – di inventare per i due protagonisti delle vere e proprie biografie. La loro giovinezza, la loro esistenza prima del film, il loro avvenire dopo che la storia del film era terminata.

 

Eppure, in Hiroshima mon amour, quest’uomo e questa donna non hanno neppure un nome. Sono come cose. Più simili a statue che a persone, oggetti d’arredo a cui hanno inflitto, loro malgrado, un’anima. Una memoria. Il compito di ricostruire (Eiji Okada, il giapponese, dal volto triste come una guerra persa, fa l’architetto) e il dovere di ricordare (Emmanuelle Riva, l’attrice, deve interpretare un film pacifista, ed è vestita da infermiera).

 

Ma non c’è nessuna “memoria collettiva” da recuperare, in Hiroshima. Nessuna ideologia. L’atomica è una copertura e ciò che più rimane impresso è il tormento di una donna consumata dal dolore sfiancante di un lutto. Perché dimenticare stanca. Stanca ritrovarsi a sostituire il primo grande amore – il soldato tedesco ucciso in guerra – con l’amore di uno sconosciuto incontrato un giorno a Hiroshima. “Hiroshima” diventa allora il nome di un uomo. La tragedia della Storia altro non è che la mia tragedia, perché la mia memoria non sarà mai tutta la memoria del mondo, e il dolore della guerra non è più il dolore di tutti, è soltanto il mio dolore. Hiroshima mon amour.

 

 

Non è facile, nel film, capire dove siamo. Hiroshima, Parigi, Nevers. Nevers, Parigi, Hiroshima. Il bianco e nero della fotografia di Michio Takahashi e Sacha Vierny disintegra i volumi delle cose, confonde le città con i corpi e i corpi con le voci, riveste tutto di cenere. Sfuma, sovrappone, disorienta, dissolve.

 

Distinguere una cosa dall’altra, a Hiroshima, non è facile. Amare e morire, sono cose facili. Ciò che è difficile è decidere se andar via o restare. Sì no. Cosa fare. Tentare di capire che cosa sarebbe successo se. Che cosa sarebbe successo se gli americani non avessero mai lanciato le bombe? E se nessuno avesse sparato all’uomo che stavo per sposare, avrei mai lasciato Nevers e la mia casa? Saremmo lo stesso, ora, io e te, in questa stanza? «Non l’avevo dimenticata, questa scena – dice la signora seduta davanti a me, sul finale, quando i due amanti si chiamano con i nomi delle città in cui sono nati – eppure il film, dal ’59, non l’avevo più rivisto».

 

Io invece quella scena non la ricordavo affatto. Non mi ricordavo della sceneggiatura pensata da una donna (di cui si è da poco festeggiato il centenario della nascita, ad appena un mese dalla scomparsa di Resnais) che cambiò il suo nome in “Duras” per ricordarsi del villaggio della casa paterna. Perché dal nome dell’altro siamo sempre abitati. Come ospiti, come città.

Allora forse no, non abbiamo già visto tutto, di Hiroshima.

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