L'orchestra cosmica
“Madamina, il catalogo è questo!” – recita la famosissima aria mozartiana del Don Giovanni. Ma potremmo ripeterlo anche a proposito del sorprendente volume di Caspar Henderson intitolato Cosmofonia (Utet Edizioni, 2024). ‘Una vera e propria wunderkammer del sonoro’, lo definisce giustamente il Times Literary Supplement. Un catalogo credibile proprio perché incompleto.
Insomma, lo scrittore britannico, autore di queste scoppiettanti pagine, lavora come un autentico “collezionista” – e qui vengono subito in mente le memorabili riflessioni benjaminiane dedicate a tale ‘pratica’. Sì, perché anche Henderson, un po’ come il filosofo tedesco, sembra convinto che quello del collezionare sia un modo per sottrarre gli oggetti all’irrilevanza cui paiono condannati là dove si ritrovino abbracciati da uno sguardo puramente strumentale e oggettivante – che mai potrà riconoscerli per quel che sono “in se stessi”. Anche i suoni da lui ‘catalogati’, infatti – suddivisi in quarantotto voci divise in quattro categorie –, per quanto accompagnino la nostra esistenza in tutte le sue manifestazioni, e lo facciano spesso con grande frastuono, quasi mai li ascoltiamo e li riconosciamo nella loro stupefacente potenza “rivelativa”. Raramente ci chiediamo, ad esempio, da dove provenga la loro capacità di stupire, e, non di rado, anche di “inquietare” – come le sirene dell’allarme antiaereo o quelle dell’acqua alta a Venezia. Merita disporli in un’unica camera acustica che ce li mostri, finalmente, come veri e propri “noumeni” (avrebbe detto Kant). Insomma, si tratta di ascoltarli “davvero”, quei suoni; siano essi della terra, del mondo vivente oppure quelli più specificamente prodotti dall’essere umano. Il fischiettio, il suono di una tromba, il suono dell’acqua agitata da braccia impegnate nella pratica del nuotare. Prodotti da azioni artigianali, come quella del battere un chiodo, o il battito dei tasti del computer, o qualsiasi altro battito. Fenomeni che, tutti insieme, disegnano quello che potremmo definire “l’unico vero e grande ritmo dell’esistere”. Sono suoni, frastuoni, sibili, ronzii; sì, ma anche silenzi! Anche il silenzio ‘risuona’, come mostra bene il nostro autore alla fine di questa sua piccola “summa”.
Dunque, se per un verso è possibile affermare che l’universo in espansione (per due-trecentomila anni dopo il Big Bang) doveva risuonare come un’infinità di campane cosmiche, allora vien da credere che anche i suoni prodotti dai movimenti delle sfere cosmiche – quelli che Pitagora riteneva di riuscire a intercettare con le proprie orecchie – siano, magari con l’ausilio di appropriati esercizi, in qualche modo percepibili. Risonanze più o meno evidenti, analizzate – ci ricorda Henderson – anche dal grande fisico Schrödinger. Per non dire, poi, della trasmutazione dei nuclei atomici, anch’essa dipendente da una vera e propria alchimia musicale. E poi, ci ricorda ancora il nostro collezionista, se viaggiassimo su una mongolfiera, sentiremmo molti più suoni e molto più chiasso, per l’effetto di rimbalzo con cui i suoni stessi verrebbero verticalmente e sorprendentemente amplificati. Lo testimoniano Charles Green (pioniere della mongolfiera) e Richard Holmes, per averne fatto direttamente esperienza.
Ma, in verità, c’è del suono anche dentro e sopra i pianeti, ci dice il nostro instancabile indagatore. D’altro canto, non sono pochi i miti che fanno iniziare tutto da un suono. Anche gli Dèi, là dove agiscono o creano qualcosa, espirano, parlano, cantano, gridano, tossiscono o tuonano. Marius Schneider ci ricordava che la fonte dalla quale emana il mondo si costituisce in primis come fonte prettamente acustica. Anche il Dio creatore vedico, peraltro, sarebbe nato da un soffio sonoro. E che dire, poi, dell’estasi di Rumi? Anch’essa destinata a condurci là dove tutto è musica. E il Paradiso dantesco? Non è forse disegnato come una sublime partitura musicale fatta di cori, canti, controcanti, melodie e armonie che non hanno paragoni con alcuna delle esperienze musicali che potremmo fare in questo mondo?
Bisognava attendere Keplero per rendersi conto che il coro degli astri non produce affatto un’aria struggente fondata sul sistema tonale, ma solo una lunga serie di ‘dissonanze’ (quasi che il musicista cosmico assomigliasse già a quello che in questo mondo sarebbe stato acclamato come l’inventore della ‘dodecafonia’, ossia l’austriaco Arnold Schönberg). Con Keplero si comincia a capire che quella cosmica è in verità una cangiante polifonia di suoni inauditi, stridenti e tutt’altro che ‘rassicuranti’. Sempre più difficile, insomma, continuare a parlare di “armonia” cosmica. A un certo punto, poi, Henderson sembra quasi travestirsi da Kandinsky - il pittore russo inventore dell’astrattismo in pittura – e si azzarda a parlare di “colore sonoro”, evocando una miracolosa corrispondenza tra fonte luminosa e suono; soprattutto là dove i due fenomeni siano dotati del medesimo spettro di potenza (ricavabile dalla relazione tra frequenza e intensità delle onde).
Ma musica è poi anche quella eseguita, diciamo così, dai pipistrelli. Animali che, ci dice Henderson, fanno un chiasso incredibile – anche se non sembra. Emettono infatti grida da 138 decibel (quasi come la turbina di un jet). Dotati di una sorta di “udito vedente”, questi in verità dolcissimi e utilissimi animaletti, emettono i suoni più gravi solo per salutarsi tra loro; mentre, svolazzando in libertà, intonano death metal e disfonie tuvane. Anche il canto della balena è – continua – a suo modo sorprendente. Anch’essa, infatti, “legge il mondo, se stessa e il prossimo molto più con l’udito che con la vista”. Il canto delle balene, di fatto, riempie i mari e si irradia grazie al “canale sonoro profondo” che diffonde i suoni per migliaia di chilometri. Come accade anche per gli umani, anche queste ultime cantano diversamente a seconda della parte di oceano in cui si trovano (così come la musica delle popolazioni arabe suona diversamente da quella dei monaci tibetani; o quella del folklore irlandese suona diversamente da un blues intonato da un afroamericano). E in ogni caso, fermo restando che a noi piace tanto ascoltare il canto delle balene e quello dei delfini, che ne penseranno loro – si chiede Henderson – delle nostre cacofonie? Interessante ricordare, stando alla narrazione del nostro autore, che vi fu anche qualcuno che tentò di suonare del jazz con le balene (il riferimento è all’album Whale Music del 2008), e che il canto delle balene è immensamente più potente di quello umano; se è vero che “il richiamo di una megattera impiega venti minuti per viaggiare da Bermuda alla Nuova Scozia” (p. 139).
Poi il nostro ‘collezionista’ riflette più specificamente sull’intimo rapporto che connette e tiene insieme il flauto (intagliato in una pianta o nel legno di un albero) e la natura; in esso e nei suoi suoni sembra infatti manifestarsi la vera e propria voce della foresta, o forse addirittura quella di un intero paesaggio – anche se Platone non amava molto questo strumento, in quanto monodico e dunque propenso a rendere possibili melodie troppo libere e finanche svincolate dalle rassicuranti catene dell’armonia (come quella prodotta da strumenti come il liuto, la cetra, la chitarra). Sì, perché il virtuosismo da cui si lascia spesso affascinare il campione dello strumento monodico rischia di essere troppo pericoloso per l’equilibrio del futuro cittadino.
Si è parlato prima di campane cosmiche; ecco, dunque, un altro strumento quanto mai interessante, antico e misterioso: la campana. Legato da sempre alla dimensione del sacro – chi, d’altro canto, non ha spesso patito l’assordante suono delle campane di domenica mattina, quando il parroco invita i fedeli a partecipare alla santa Messa? Chi non ha mai sperimentato il mistico suono della campana tibetana, prodotto dallo strofinio di una mazza di legno sulla superficie interna di questo prezioso manufatto bronzeo (usata dai monaci buddhisti nella pratica della meditazione)?
Strumento idiofono, reso possibile dallo sviluppo della metallurgia, la campana nasce in Cina durante la dinastia Shang (circa 1600-1064 a.C.). Ma, in realtà, non viene utilizzata solo in contesti religiosi; sulle navi, ad esempio, veniva usata per segnalare i cambi di vedetta. Ci sono poi anche le campane a morto, come quelle evocate da Shakespeare in La tempesta. Tra l’altro nelle campagne inglesi, le campane servivano anche a misurare il territorio delle parrocchie, che si estendeva “fin dove giungeva il suono delle loro campane”. Consentivano di disegnare una sorta di vera e propria mappa acustica.
Non solo la musica viene prodotta da tutte le cose e da tutti gli esseri viventi (che, come gli oranghi, battendosi il petto, producono determinati suoni e determinati ritmi), ma essa ha anche un ruolo tutt’altro che irrilevante nel determinare l’efficacia e la potenza delle articolazioni semantiche che servono agli esseri umani per comunicare tra loro. Questo Henderson non lo dice, ma potremmo aggiungerlo noi, come postilla al suo peraltro ricchissimo e stimolante volume. Infatti, così come sappiamo bene che la possibilità dell’apprendimento automatico (reso possibile dall’AI) sta profilando prospettive sino a non molto tempo fa del tutto impensabili e inimmaginabili per la produzione musicale – e di questo Henderson (e non solo lui!) è perfettamente consapevole (al punto da immaginare che sistemi di apprendimento automatico connessi all’IA possano prima o poi “scrivere sotto dettatura degli ecosistemi e ‘parlare’ per gli alberi, i batteri, il suolo e i fiumi” –, dovremmo anche non dimenticare che la sempre più radicale potenza dell’apparato ‘logico’ con cui disegniamo le nostre rappresentazioni del mondo (che ci consentono di ‘concepire’ anche quel che ad esso finirà in ogni caso per sfuggire, e che dunque non potrà mai venire completamente controllato e concettualizzato) è in verità sempre e ancora decisa dal suono, dal ritmo e dagli accenti in virtù dei quali la rendiamo partecipabile a tutti. Ossia dalla traduzione sonora delle infinite possibili mappe concettuali che saremo di volta in volta riusciti ad elaborare. Che è sempre decisiva, in particolare nell’esperienza formativa ed educativa in virtù della quale consentiamo ai giovani di accedere a tutta una serie di contenuti conoscitivi. Quasi che la verità logica dipendesse, in tutto e per tutto, dalla forma musicale che ne caratterizza il dispiegamento temporale e necessariamente empirico.
Chiudo, dunque, rivolgendo al lettore una domanda molto semplice: vi siete mai resi conto di quanto siano importanti il tono, il timbro e il ritmo con cui viene articolato un discorso, nel determinare la sua reale potenza persuasiva? Lo sappiamo tutti. Quante volte, infatti, ascoltando una conferenza o una lezione, abbiamo finito per addormentarci proprio perché quei contenuti e quei significati (magari di per sé anche interessanti) non erano supportati da un eloquio avvincente, vale a dire da una varietà e da una diversificata connotazione ritmica, nonché da una adeguata intonazione, insomma, da una musica che, sola, avrebbe potuto deciderne l’effettiva potenza persuasiva? Sì, perché il fatto è che a decidere la veridicità di questo o quel significato è quasi sempre la musica che fa risuonare il suo, mai solo ‘logico’, dispiegamento.
E, in ogni caso, fa bene Henderson a chiudere il suo volume elencando una serie di suoni senza i quali la vita sarebbe sicuramente assai più triste: il primo glu del vino che esce dalla bottiglia; il sospiro del bambino che finalmente si addormenta, e il respiro regolare che gli fa seguito; l’acqua che gocciola dai rami delle querce nane sulle rocce coperte di muschio nel bosco di Black-a-Tor… e – come non ricordarlo? – il suono della tromba di West End Blues “registrata da Louis Armstrong il 28 giugno 1928”.