Deleuze e la catastrofe della pittura

18 Gennaio 2025

Lo dice chiaramente il curatore del volume: “Deleuze non ha mai scritto ciò che spiegava agli studenti. La scrittura riguardava esclusivamente i libri, gli articoli e le interviste”.

Insomma, ben diverso è il percorso della riflessione orale, per Gilles Deleuze, rispetto a quello pietrificato dalla scrittura.

Da questo punto di vista, potremmo senz’altro paragonare il nostro filosofo al divino Miles; come l’intellettuale francese, infatti, anche il trombettista dell’Illinois distingueva nettamente quella che potremmo considerare “l’oralità” del jazzista (l’esibizione dal vivo, sempre differente, affidata alla situazione e alle “pieghe” che il dialogo tra musicisti finisce ogni volta per disegnare) da quella che lui stesso considerava come una sorta di “scrittura”: ovvero, la registrazione su disco (che prevede tutto un altro approccio, ovvero una meticolosa progettazione, un lavoro di taglio e montaggio, di sovraincisione, di arrangiamento etc etc).

Interessante questa dicotomia; anche perché, non sono molti gli intellettuali disposti, e soprattutto capaci di separare così nettamente l’oralità dalla scrittura; così come non tutti i musicisti ‘distinguerebbero a cuor leggero’ la performance dal vivo dalle lunghe e spesso estenuanti sedute in sala di registrazione.

Tanto per fare un esempio particolarmente significativo, nonché illustre, non ragionava affatto in questo modo un filosofo che sta all’Ottocento come Deleuze sarebbe stato al Novecento: ovvero, G.W.F. Hegel.

Si prenda l’edizione più nota della sua Estetica (pubblicata in Italia da Einaudi); si tratta di appunti redatti da allievi che avevano seguito i corsi berlinesi a partire dal 1818. Ma si leggano anche le trascrizioni di un altro allievo francese, Victor Cousin, relative ad un unico corso berlinese tenuto da Hegel tra il 1822 e il 1823, e pubblicato sempre da Einaudi con la curatela di Dario Giugliano. Si leggano anche questi altri appunti, che riportano con non minore e doviziosa puntigliosità le lezioni del Maestro dell’idealismo.

Una cosa risulterà del tutto evidente: che siamo da tutt’altra parte, rispetto a Deleuze. Hegel, infatti, parlava come scriveva. E l’andamento del discorso è perfettamente organizzato, quasi pronto per la scrittura. O fors’anche supportato da una precedente scrittura. La forma dell’argomentazione è chiaramente “sistematica”; cioè conforme a un principio dialettico destinato a informare di sé ogni pagina della sua opera.

Si tratta di argomentazioni che Hegel aveva sicuramente già scritto. Infatti, non ci sono salti nel discorso, e neppure pieghe impreviste destinate a spiazzare l’ascoltatore. Tutto torna, in quelle pagine.

Mentre nulla torna nelle pagine deleuziane pubblicate da Einaudi nel 2024 con il titolo di “Sulla pittura. Corso marzo-giugno 1981” (e curate da David Lapoujade). È a queste che ci riferiremo d’ora in avanti. Ossia, al frutto della paziente trascrizione di un corso tenuto da Deleuze a Saint-Denis, quando la rivoluzionaria sperimentazione iniziata a Vincennes nel 1968, nel mitico Centro Universitario Sperimentale, venne trasferita in un modesto istituto tecnologico, appunto nella zona di Saint-Denis.

Certo, Deleuze non è Hegel; e fin qui ci siamo. Lo riconoscerebbe anche un bambino. Ma non è una questione di stile letterario; o di diversa impostazione teoretica. Di diversa intenzione, di diversa ontologia. No, si tratta soprattutto di un diverso modo di concepire l’insegnamento della filosofia; ma fors’anche di un diverso modo di intendere la filosofia in quanto tale.

Il fatto è che per Deleuze la filosofia non prevede una consequenzialità logica vocata svolgersi all’insegna della ‘necessità’. Nessuna destinalità, dunque, nelle argomentazioni deleuziane; ché nessun ritmo dialettico le percorre e tanto meno le sostiene.

L’argomento di questo corso, risalente alla primavera del 1981 (l’anno in cui io mi laureavo a Venezia con Emanuele Severino – che, anche lui, come Hegel, parlava come scriveva), è la pittura. Erano anni in cui a Deleuze stavano particolarmente a cuore gli argomenti di natura estetica; non a caso, sempre nello stesso anno vide la luce un suo importantissimo lavoro sulla pittura di Francis Bacon, intitolato Logica della sensazione.

La prima cosa che merita di essere sottolineata, a proposito di un testo che riporta un intero corso accademico, è il modo di ragionare del filosofo francese. Come non riconoscerlo? Come non accorgersi che l’andamento palesemente zigzagante di questo parlar-pensando non è molto diverso da un assolo di Marc Ribot o da uno di Wayne Shorter; al punto da riuscire a farci capire “in presa diretta” perché il nostro avesse potuto intitolare uno dei suoi lavori più importanti (pubblicato nel 1968): Differenza e ripetizione.

Se Miles, infatti, dopo aver eseguito il tema, abbozza una nota, la ripete e subito dopo la nega, inscrivendola in un frammento melodico a sua volta ripetitivo, ma nello stesso tempo continuamente differenziantesi, anche solo per imprevedibili modulazioni… Deleuze non è da meno. Dichiara fin da subito, ad esempio, di essere sì intenzionato a parlare di pittura, ma di credere anche che, più che mostrare filosoficamente al pittore il senso di quel che va facendo, egli, in quanto filosofo, debba anzitutto imparare dal fare concreto del pittore.

Arriva presto, comunque, il primo “scarto”, la prima “piega”, la prima “modulazione improvvisa”, destinata a depistare l’ascoltatore; e ciò accade quando Deleuze si chiede cosa possa mai significare ‘parlare di pittura’. Vuole parlare di pittura, ma sembra non sapere bene cosa ciò possa significare; e neppure sembra saper bene in che senso il pittore possa davvero insegnare al filosofo.

Il nostro, comunque, precisa anche di non aver alcuna intenzione di far emergere qualcosa come “l’essenza della pittura”. Diciamo che si augura, al più, che le opere e i pittori su cui gli capiterà di soffermarsi possano offrire anche un semplice “barlume” su qualche concetto filosofico.

Insomma, Deleuze non sa nulla; anzi, sa moltissimo, ma si impegna ad ascoltarle, le opere, e da quelle vuole anzitutto farsi ‘piegare’, consapevole di doverle incontrare ogni volta per la prima volta; sperando comunque di venire sorpreso, anche dalle opere che conosce benissimo.

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Ma decide di cominciare da un concetto: quello di “catastrofe”.

Aveva appena detto di non voler chiarire concetti; aveva appena detto di volersi lasciar modificare dalle opere che avrebbe di volta in volta preso in considerazione; eppure, inizia a parlare riferendosi a un concetto. E decide di concentrarsi, almeno per la prima lezione, su quello di “catastrofe”.

Certo, non si tratta, per lui, di fondare il rapporto tra catastrofe e pittura; ma, ben più umilmente, di scegliere alcuni pittori e alcune opere che, dalla catastrofe, siano stati in qualche modo ‘segnati’. Che dalla medesima, cioè, siano stati costretti a caratterizzarsi per una più o meno radicale forma di “squilibrio”.

E cita Claudel, cita Cézanne; cita soprattutto i vasi di quest’ultimo. Vasi squilibrati, che sembrano colti al principio; o meglio, all’inizio di una caduta. Come se una catastrofe li avesse colpiti. Una catastrofe che non funge però da soggetto del quadro, e neppure da argomento della rappresentazione; e ancor meno indica l’oggetto riprodotto dal pittore. Qui la catastrofe sembra cioè poter colpire gli oggetti della rappresentazione solo perché, in verità, un’altra catastrofe avrebbe ben più profondamente colpito il dipingere in quanto tale. Una catastrofe ben più profonda – precisa appunto Deleuze – quella “che colpisce l’atto stesso del dipingere” (p. 13). Una catastrofe che aveva colpito anche Turner, costringendolo a mettere in forma, da ultimo, nient’altro che lo svanire delle forme.

Insomma, il creatore di forme, l’artista in quanto creatore, si trova costretto a fare un passo indietro; sino a una estrema forma di identificazione tra dipinto e atto del dipingere.

Il dipinto carpisce il dissolvimento; e ad emergere è qui la radicale inconsistenza di forme che troppo a lungo il pittore aveva creduto di dover rendere immortali o quanto meno indistruttibili.

Ma a questo punto la lezione di Deleuze subisce un “arresto”; e il nostro “ripete”. Ripete, sì, ma solo per differenziare il proprio discorso; fors’anche per offrire al ragionamento insospettabili vie di fuga. Certo, si rende conto di “non aver fatto molti passi in avanti” (p. 15).

E proprio per questo, probabilmente, si fa soccorrere da Klee; sì, perché teme che la catastrofe inghiotta tutto. E il quadro fallisca.

È convinto, infatti, che la catastrofe vada controllata. E si chiede: ma si può davvero controllare una catastrofe?

Quindi chiama in causa Van Gogh, che gli sembra giunto in prossimità di qualcosa; sì, a Deleuze sembra che il pittore olandese “abbia sfiorato qualcosa” (p. 15).

Poi sterza improvvisamente: e a questo punto la frenata è tesissima. E alquanto rischiosa. Come per la modulazione di un semplice semitono. Che rischia sempre di provocare una catastrofe.

Quindi il discorso prende tutta un’altra direzione: perché ritiene sia giunto il momento di confrontarsi con due testi teorici. Uno di Klee e l’altro di Cézanne.

Insomma, Deleuze prova; azzarda, sonda. Affonda. S’immerge e si insinua nelle ‘pieghe’ di un tessuto ricchissimo, che ha una storia nobilissima, e che ha reso grande la modernità. La grande pittura che, a partire dal Romanticismo avrebbe condotto l’Occidente a fare i conti con la furia iconoclasta delle Avanguardie di inizio Novecento.

E qui, parlando di Cézanne, nonché di un brano in cui il ‘padre’ spirituale del cubismo distingue due momenti essenziali dell’atto del dipingere, rileva come il tema che, a questo punto, gli sembra assolutamente imprescindibile (per questo vi insisterà lungo tutto il corso) sia proprio quello dell’inizio del mondo. Il fatto è che “i pittori – precisa Deleuze – non fanno altro che dipingere una sola cosa, l’inizio del mondo” (p. 17). Poi ricorda ai suoi studenti come Cézanne leggesse molto Lucrezio; il quale, peraltro – sempre secondo il filosofo francese –, non andrebbe ricordato solo per gli atomi e le loro danze, ma anche per la luce e i colori. Che proprio in Cézanne, d’altro canto, sembrano riuscire a fare luce sull’inizio. Su ciò che allude, dunque, al “mondo prima del mondo” (p. 18).

Dall’arte alla filosofia; anzi, dalla letteratura al mito, ma anche dalla scienza alla narrazione. Il discorso deleuziano ci trasporta incerto, traballante, obliquo, attraverso un sempre nuovo cominciamento; che sembra volersi ripetere proprio per dare la stura a un percorso sempre diverso, in virtù del quale sia l’origine stessa a farsi ogni volta ‘ricordare’ e ‘riattivare’. A ripetersi, certamente; ma a farsi, proprio per questo, sempre anche “differente”. Sino a guadagnare quello spazio senza legge in cui “tutto possa andare con tutto” (p. 268). E in cui il tono possa essere sia vivo che spezzato; in cui, a venire superate, siano cioè, e anzitutto, le “opposizioni diametrali” e i passaggi “graduali”. In cui, quindi, la modulazione possa venire definita proprio “attraverso la ripetizione del tono vivo da parte del tono spezzato” (p. 270). E dunque attraverso una sua indominabile ‘differenziazione’.

È chiaro: le lezioni riportate in questo bellissimo volume einaudiano ci mostrano un’andatura sbilenca; curva come l’ornato barocco. Un’andatura tutt’altro che sistematica. Aliena da ogni vincolante dialettismo. E ci mostrano come il discorso del prof. Deleuze sia sostenuto da un gioco quasi esclusivamente ‘ritmico’.

D’altro canto, il filosofo francese sa bene che proprio “rythmos significa la forma” (p. 215). Da cui un fraseggio e una argomentazione sempre a-sistematici e proprio per questo costitutivamente imprevedibili; come gli assoli di Don Cherry o di Ornette Coleman, gli alfieri del free-jazz; come qualsiasi autentica scrittura dell’immediatezza.

Come ogni testimonianza in cui, a venire restituito, non sia più il semplice “pensiero” di un autore. Quasi che il pensiero possa venire davvero concepito come “un qualcosa”; e dunque sia realmente riducibile alla solida pesantezza di una qualsivoglia morta oggettualità.

Come ogni testimonianza, cioé, in cui, a ripetersi, sia davvero l’irripetibilità dell’origine; o dell’inizio. Dell’assolutamente nuovo. Alla luce del quale la pittura sembra non potersi che affidare alla catastrofe; che sarà sì catastrofe della pittura, ma sempre anche di una parola destinata a cercarsi e perdersi in continuazione.

Come qualcosa di noto, resosi finalmente capace di farsi illuminare dall’immane potenza dell’ignoto.

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